Storia d'Italia attraverso i sentimenti (6) / L'oscuro signor Hodgkin

3 Febbraio 2021

Che cosa sente un uomo che si affaccia sulla propria fine, e giorno e notte ne contempla la possibilità? Soccombe sotto i colpi al cuore dello sgomento o arriva a contrastarlo?

Dentro quel confine, dopo il primo scompiglio emotivo, Gigi Ghirotti ci si mette comodo, e cioè continua a fare quello che ha sempre fatto: osservare, raccontare, condividere. “Ho un tumore. Sono un giornalista e devo raccontare agli altri ciò che provo”, dichiarerà in una trasmissione televisiva del 1972, Lungo viaggio nel tunnel della malattia

Il tumore è “un cupo inquilino, l’oscuro signor Hodgkin”. E il “morbo di Hodgkin”, abbattendo ogni argine, eludendo ogni tattica medica, lo travolgerà nell’arco di due anni, fra il 1972 e il 1974. 

Accadono molte cose in quei due anni. Dove nessuno aveva mai guardato. Nessuno, prima di allora, aveva sollevato il coperchio che ricopriva la vita degli ospedali. Certamente non lo poteva fare un malato, la parte più fragile dell’ingranaggio. Lo fa Gigi Ghirotti, malato, ma anche inviato speciale nel “tunnel della malattia”: “La prima sensazione è di essere emerso da una città sotterranea, da un’immensa segreta entro cui la società tiene in deposito i malati e insieme nasconde le sue piaghe più brucianti”, scrive in uno degli articoli de “La stampa”. 

Ghirotti ha deciso di curarsi in ospedale, rifiutando, con caparbia ostinazione, i privilegi della clinica privata. Vuole stare in corsia, dove approda “la maggior parte della gente”. “Io sono uno come tanti”, dice.

 

Eccolo dunque in corsia, ma non è disteso sul letto come vogliono le consuetudini ospedaliere, non è in neppure in piedi, mosso dall’irrequietezza che è propria del ricoverato ancora in grado di camminare, quasi per respingere il fantasma di possibili future immobilità. La prima sequenza della trasmissione del ’72 lo coglie seduto di fronte alla macchina da scrivere, collocata su un tavolinetto precario. Se l’è portata appresso per dare parola a quello che quotidianamente vede e sente, la vita che scorre lenta, in corsia e nel territorio immediatamente confinante. Ma non si mette a scrivere per raccontare semplicemente la sua personale odissea sanitaria, gli alti e i bassi della sua lunga lotta. Vuole raccontare l’ospedale, il suo tempo dilatato, i suoi riti, le sue storture, e, insieme, ci fa conoscere chi lo abita, medici, infermieri, e pazienti, l’umanità in rotta, vestaglia e pantofole, spogliata dalle parvenze della normalità. Ghirotti raccoglie i sussulti emotivi, segue la difficile navigazione fra speranza e disperazione, in balia di tutti i venti. “Ho spartito le lunghissime ore di queste stagioni con un geometra di Benevento, un ragazzino romano di borgata, un tranviere di Palestrina, un ferroviere di Pescara, un commesso di farmacia di Reggio Calabria, un graduato a riposo delle guardie carcerarie e tanti altri sconosciuti in palandrana e pianelle, il viso color tra il grigio e il giallognolo, che mi ponevano quesiti sui globuli rossi e bianchi del sangue, sulle sorti di alcune squadre di calcio e tanti altri temi appartenenti alla problematica dei poveri diavoli”. 

 

Ha una particolare attenzione ai bambini, anche loro smarriti nel tunnel. Colpisce al cuore il ritratto di Vincenzo Scivoletto, bambino romano, che “portava con sé un misterioso dono di dolcezza e di fermezza, di gaia innocenza e consapevole maturità”. Sette anni di ospedale fino alla morte. “I suoi genitori gli domandavano: ‘Vincenzino come ti senti?’ Vincenzino invariabilmente rispondeva: ‘Sto bene’. Fino a un istante prima di morire sempre la stessa risposta: ‘Sto bene’”.

 

C’è l’Italia intera addensata nei tanti ospedali in cui Ghirotti è stato ricoverato, inseguito implacabilmente dall’“oscuro signor Hodgkin” che non gli dà tregua (“furbo e anche sleale”). C’è la storia dell’Italia agli inizi di un decennio difficile (“Non c’è crisi che non si venga a scaricare fra le mura dell’ospedale: la crisi delle istituzioni, del valori, dei miti, dei fini e degli strumenti”), un paese che si è fatto socialmente esigente, eppure ancora avaro di diritti, doppio, costantemente in bilico fra arretratezza e modernità. Ci sono i celebranti dell’istituzione e dei suoi dogmi, i medici, gli infermieri, e c’è la massa “in palandrana e pianelle”, che cerca di ripararsi come può dagli scossoni della vita, messa di fronte alla malattia e alla morte, nell’altalena snervante della paura e del coraggio, della compassione e dell’indifferenza, capace spesso di una dignità che stenta ad essere riconosciuta in quella “città sotterranea” che è l’ospedale, dove sotterranei sono anche i sentimenti.

 

 

Vediamo più da vicino questo lottatore indomito dai tratti cordiali che è stato Gigi Ghirotti, “un veneto solido, spalle dritte, una foresta di capelli, gli occhi azzurri, assolutamente incapace di non sorridere”, così lo ha ricordato Vittorio Notarnicola sul “Corriere della Sera”. Dal momento che non poteva fare a meno di prender parte, aderisce giovanissimo alla Resistenza militando in un gruppo del Partito d’Azione. Lo scrittore Luigi Meneghello, che gli è stato amico, ha ricordato che Gigi Ghirotti, d’ispirazione pacifista, non aveva voluto imbracciare il fucile, ma si portava appresso un badile che utilizzava per dare sepoltura ai morti. 

 

Poi, il giornalismo. Dopo aver esordito agli inizi degli anni cinquanta sul giornale della sua città, Vicenza, entra in un quotidiano nazionale, “La Stampa”. Fa l’inviato speciale, e con successo. “Mi ha sempre attirato conoscere il mio paese, dichiara in un’intervista a “Panorama” del 1974, voglio dire conoscerlo di persona, non per esperienze altrui, non per libri, o, peggio che mai, per descrizioni giornalistiche o per rendiconti ufficiali”. Memorabili le sue inchieste sull’Italia del miracolo (Italia mia benché) e sul banditismo sardo (Mitra e Sardegna), infine l’ultima prima del silenzio (Lungo viaggio nel tunnel della malattia), destinata inevitabilmente a fare scalpore, dentro l’ospedale e fuori, con reazioni contrastanti, e talvolta anche dure, insieme a una valanga di lettere e messaggi di solidarietà. 

 

Ghirotti non venne mai meno all’impegno che si era preso. In un’intervista del 1972 il giornalista gli chiede:” Era proprio necessario che lei informasse milioni di italiani della sua malattia, rompendo una tradizione di riservatezza che protegge i fatti personali più sgradevoli?”. Ghirotti risponde senza esitazioni: “Era necessario, sì, perché proprio intorno alla malattia la società ha eretto i più feroci e misteriosi fortilizi della riservatezza. Sembra quasi che la malattia sia una colpa, una vergogna da tenere nascosta”. Non si ferma qui Ghirotti, tira fuori quello che lo ha sostenuto nel suo viaggio, vuole rendere giustizia ai tanti compagni di corsia che si è lasciato alle spalle: “Abbiamo fatto degli ospedali un luogo di segregazione della nostra comunità e degli ammalati dei paria temporaneamente segregati dalla società, privati dei diritti di cui da sani godrebbero senza discussione”.

Quattro anni dopo la morte di Gigi Ghirotti, nel dicembre del 1978, con la Riforma sanitaria, verrà istituito il Servizio Sanitario Nazionale. È la fine del tunnel?

 

Fonti:

 

- Gigi Ghirotti, Il coraggio di vivere, La Nuova Italia, 1978.

- “Il lungo viaggio nel tunnel della malattia”, in “Orizzonti della scienza e della tecnica”, Rai, 1972.

 

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