Psicoanalisi. Un’eredità al futuro / Al di là del principio di prestazione

26 Febbraio 2017

La psicoanalisi è un fenomeno di cui si può parlare solo al plurale e ben oltre i differenti indirizzi delle sue principali scuole (freudiana, junghiana, lacaniana) perché la sua pratica è sempre legata all’unicità di “due persone che s’incontrano in una stanza”. Senza mai venir meno alla sua originale vocazione clinica, la psicoanalisi si è sempre vissuta anche come una teoria critica, uno straordinario armamentario di chiavi ermeneutico-simboliche per leggere le diverse dinamiche che innervano il mondo umano, si è apertamente proposta come un’etica del riconoscimento dello straniero e del minaccioso che ci abitano, come una pratica di comprensione ed elaborazione della propria Ombra e come luogo in cui esercitarsi a coltivare la possibilità di dirsi la verità, di prendere sul serio le proprie fantasie, di guardare in faccia le proprie illusioni, di prendersi cura del destino del proprio desiderio, facendo al contempo i conti con un serio esame di realtà. In questa sua feconda ed irriducibile polimorficità è possibile scorgere quella che, con una bella formula, Nicole Janigro chiama “un’eredità al futuro” (Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis).

 

Questa “scaturisce dalla sua capacità ineguagliata di mettere in relazione, leggere e legare, le soggettività”, dalle quali è nata e sempre rinasce e nella quale, spiega l’autrice, rischia a volte di arenarsi, di relegarsi, mettendo tra parentesi il mondo. “Arte artigiana”, pratica clinica, chiave interpretativa, fonte di ispirazione di correnti letterarie - il romanzo analitico, ricorda l’autrice, ha attraversato il Novecento - ed essa stessa espressione narrativa, la psicoanalisi “può partecipare ad un discorso critico integrato dove l’io e il noi siano capaci di passare da mondi esterni e interni, autisticamente chiusi e scissi, da un o/o che procede per differenze e opposti, a incontri di un e/e che fluidifica e avvicina”. 

 

Contro i pregiudizi che ancora l’accompagnano, Nicole Janigro – con un taglio in cui la dimensione biografica e quella sociologica s’intrecciano arricchendosi vicendevolmente – rivendica “l’andare in analisi (…) come la continuazione della politica con altri mezzi” che rovescia “lo slogan il privato è politico”. Ma la stanza di analisi si rivela al contempo “un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato” fatto di parole che nutrono, che orientano, danno voce a quanto altrimenti resterebbe inespresso, all’altrimenti indicibile o a quel silenzio che rischiamo di non sapere più ascoltare. Poiché, come spiegava già nel 1939 Jung, “è caratteristica della psiche non soltanto di essere matrice e fonte di ogni attività umana, ma anche di esprimersi in tutte le forme e le attività dello spirito, (…) lo psicologo (…) non riuscirà a catturare la psiche nel chiuso del suo laboratorio né nello studio del medico, ma dovrà seguirne le tracce in tutti quei campi che pure possono risultargli estranei, ove essa si manifesta”. La personale sensibilità di Janigro la porta ad indagare in particolare due canali privilegiati: il romanzo e le forme artistiche in generale.

 

 

 

La porta di Magda Szabó, Vite che non sono la mia di Emanuel Carrère, ad esempio, ma nel solco di quanto già affermava Freud per il quale “nella psicoanalisi si ritrovano e si compendiano, trasposte in gergo scientifico, le maggiori scuole letterarie del secolo decimonono: Heine, Zola e Mallarmé si congiungono in me sotto il patronato di mio vecchio maestro, Goethe”. Nella letteratura che chiama il lettore a prendere parte allo svolgimento emotivo della narrazione, a empatizzare con i personaggi, a interrogarsi su quanto farebbe al loro posto, Janigro scorge un’analogia con la seduta di psicoanalisi nella quale “l’idea e l’immagine originale nascono in due” e in cui “il momento estetico”, come scrive Bollas, “evoca in noi una sensazione profonda di essere stati in rapporto con un oggetto sacro (…) in un’esperienza dell’essere e non della mente”. Così, mentre Lacan invitava gli aspiranti analisti ad esercitarsi a risolvere i cruciverba, Janigro ritiene che “analizzante e analista possono farsi l’orecchio” alle conversazioni che intrattengono con se stessi, con “la poesia, la narrativa e la musica”. 

 

Insieme a questo esercizio, ampiamente suffragato da citazioni di diversi indirizzi analitici che ne confermano l’importanza, l’autrice propone un lavoro sulle immagini – oniriche, emerse dal gioco della sabbia, scaturite dall’immaginario collettivo, profondamente individuali, reminiscenze del passato e prefigurative del futuro – che “in quest’epoca di inflazioni di immagini dove il tutto-detto, tutto-esposto è privato di ogni possibilità simbolica”, si fa sempre più urgente, delicato ed importante. In questo contesto la centralità del lavoro immaginale di Jung incontra la lezione americana sulla Visibilità di Calvino e porta l’essere umano in una dimensione che apre all’al di là del principio di prestazione – titolo dell’ultimo capitolo del libro. Superare questo imperativo categorico del nostro tempo e fare i conti con le proprie incapacità e debolezze, non più vissute come deficit ma come tratti personali umanizzanti, può fare della psicoanalisi, come scrive Franco Borgogno, un laboratorio esistenziale dove sperimentare “un’educazione alla vita e al vivere (…) un apprendimento dell’esperienza delle emozioni e delle relazioni, che quando funziona genera una nuova fiducia e un nuovo inizio”, che ha radici antiche che affondano in un patrimonio terapeutico non meno che culturale di cui il libro ci offre una breve ma puntuale sintesi, appassionata che, senza nascondere le polemiche e i colpi bassi che hanno attraversato la sua storia, si muove, anche biograficamente, alla ricerca di punti d’incontro che ne rilancino la funzione e l’attualità, al di là degli aridi steccati dei particolarismi.

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