Ricordare in analisi / Terapia della sabbia
“Siamo un labirinto di parole, di immagini, di gesti e di espressioni, in continua germinazione, ci perdiamo nella ‘selva oscura’ delle nostre rappresentazioni, ciascuna essenziale, legata dal senso con ogni altra, poi, in un lampo, i fantasmi scompaiono come quando si solleva la nebbia, e resta una sola cosa, l’immagine germinale racchiusa in una foglia, un sasso, una conchiglia, un seme, un fiore”.
Maurizio Franco, medico psichiatra che lavora in un servizio pubblico, a lungo responsabile di una comunità per la riabilitazione di pazienti psichiatrici gravi, torna sul luogo del trauma come luogo del delitto, in stanze dove, inesauribile, una corrente continua a circolare. È una stanza, quella dell’incontro analitico, alla quale si approda e poi si ritorna, dove capita di risentire la voce del padre, rivedere i castelli eretti in faccia al mare. Dove “riprovare a scavare nella sabbia asciutta” è una delle esperienze possibili in un setting che prevede la presenza di sabbiere dal fondo e dal bordo azzurro (cm. 57 x 72 x 7). E scaffali “dove la realtà è esplosa, i suoi componenti sono in ordine sparso, per quanto allineati. Regno animale, vegetale, minerale sono apparentemente divisi e senza contatto. La relazione, il filo invisibile che li collega, sta dentro di noi vincolata dalle categorie dello spazio e del tempo senza le quali nulla si crea”. Gli oggetti miniaturizzati, raccolti dal terapeuta, sono diventati la sua collezione con la quale invita l’altro a giocare.
Figure della memoria. Ricordare in analisi. Una nuova via nella terapia con il Gioco della sabbia, a cura di Fulvia De Benedittis e Patrizia Michelis, (pp. 199, Franco Angeli), è un testo utile e importante per chi quotidianamente si cimenta nel “mestiere impossibile”e insieme è una lettura piacevole che stimola a riflettere sui ghirigori dell’esistenza di ognuno. Così le immagini fotografate del Gioco della sabbia, riviste a distanza di anni, possono diventare segnavia che fanno esclamare: “quanto tempo è passato!” oppure, “ma siamo sempre qui?”.
È un gruppo di colleghi che fanno parte del Laboratorio analitico delle immagini e che hanno come riferimento il lavoro di Paolo Aite, a introdurre la novità della revisione. Oggi, il ritornare in analisi, è un’esperienza abbastanza comune. E già Freud, e non solo in uno dei suoi ultimi scritti come Analisi terminabile e interminabile, metteva in discussione l’idea che guarire volesse dire una volta per sempre. E ora è lo stesso concetto di “malattia”, in percorsi che pongono l’urgenza del normale caos della vita, a essere interrogato. La particolarità della situazione analitica è quella che lì, in quella stanza, del nostro passaggio è rimasto un tracciato, e di questo il terapeuta conserva le “prove”. I taccuini degli appunti degli incontri, la trascrizione dei sogni, e, nel caso del Gioco della Sabbia, le fotografie scattate ogni volta al termine della costruzione della scena. Dunque, anche a distanza di tempo, a volte di decenni, una revisione è possibile.
Ma, attenzione, mette sull’avviso Paolo Aite – nel dialogo con il collega Angelo Malinconico – che di revisioni ha esperienza più che trentennale, ritrovare le proprie cartoline ricordo non è un’operazione indolore, è qualcosa che può produrre un effetto tanto stupefacente quanto inquietante. Perché, come ricordano le curatrici nella loro introduzione, la “memoria non può essere indagata se non nel suo rapporto con l’oblio”, nel confronto “con la separazione, la nostalgia, la colpa, insite nel tempo perduto, per poi, invece, tendersi con forza, come arco teso” verso il futuro.
Per la psicoanalisi, si sa, la memoria − sugli sviluppi neurobiologici ci aggiorna Patrizia Peresso nella conversazione con Margaret Wilkinson − è quel vettore che riporta alla rimembranza delle origini, che guida la rievocazione della propria storia in affanno di senso.
Una seconda caratteristica della memoria, dice Stefano Carta, discende dalla “meravigliosa etimologia del verbo re-cordare” che colloca la sua causa e il suo scopo nel cuore. Cuore che ha bisogno di una Casa, un costrutto psichico complesso che va “da una comunità geografica al luogo psicologico di relazioni e compartecipazioni; da un insieme di origini alla meta ultima, il luogo del riposo al di là di qualsiasi conflitto” secondo la definizione di Renos Papadopoulos, terapeuta attivo in aree di crisi. Che cosa capita a questo cuore, e dunque alla sua memoria, in condizioni di migrazione dove lo spostamento culturale, geografico e linguistico, è segnato dalla “perdita della Casa”? Per pazienti stranieri, migranti e rifugiati, il Gioco della Sabbia, e sono ormai molteplici le esperienze in tal senso, può assumere un ruolo significativo in una situazione dove lo scambio verbale accade in un’altra lingua e dove “il contatto percettivo con gli oggetti” acquisisce già una valenza transculturale.
E i due casi di vita raccontati da Stefania Baldassari confermano quanto sia importante, durante il lavoro terapeutico, l’attenzione all’intreccio tra le memorie individuali e quelle storico-collettive: per poter dimenticare quello che si è riuscito a ricordare, per potersi perdonare e perdonare. Di legami culturali e memorie che rincorrono le generazioni parla anche il contributo di Fulvia De Benedittis, Sandra Fersurella, Silvia Presciuttini che nasce dall’esperienza con le coppie, sia nelle istituzioni pubbliche che negli studi privati.
Un percorso in due tempi e a quattro mani è quello di Francesca Salvatori che racconta “L’altro lato della sabbiera”, la sua esperienza di paziente, con Pina Galeazzi, la terapeuta: “Il processo della ‘ricostruzione’ è potenzialmente infinito e inesauribile, mentre ne “sopporti la potenzialità, il pezzetto salvato dalla memoria”.
Per Romano Màdera il tempo della revisione è il “momento opportuno” per stabilizzare le intuizioni nel quale può svelarsi una sorta di disegno non voluto, non tracciato consapevolmente dall’io e dai suoi saperi”. Un assistere al processo in modo quasi oggettivo, come auspicava Jung: “se si potesse per esempio ammettere che non siamo noi i personali creatori delle nostre verità, ma solo i loro esponenti, semplici portavoce delle necessità psichiche del nostro tempo, eviteremmo molto veleno e amarezza, e il nostro occhio coglierebbe i nessi profondi e sovrapersonali dell’anima dell’umanità”.
L’emergere di un’immagine artistica come “immagine attiva” che, insieme alle immagini dei sogni e di quelle delle scene costruite nella sabbiera, può diventare un catalizzatore simbolico, un fattore energetico capace “di aprire un varco nella memoria del proprio destino” – è l’esperienza sulla quale riflette Patrizia Michelis.
Ci conduce invece tra i giochi del tempo di Virginia Woolf Daniela Bonelli Bassano: una giornata de La Signora Dalloway è, insieme, processo temporale e identitario, in progress.
Come nelle conclusioni di Daniela Palliccia: “C’era una volta…” ma anche: Era e non era…”, così iniziano le storie, tutte le storie , così iniziano le tracce nelle Sabbie, per le quali cerchiamo le parole…”.