Diario clinico 3 / Quando il giornale era un mappamondo
“Basta pareti”, urla la bambina, perché i piccoli sono azione e stare al chiuso sembra una punizione di cui non si capisce la ragione. L’isolamento coatto forza gli adolescenti a inabissarsi sempre più in se stessi, la scuola è l’inaspettato oggetto del desiderio, gli adulti sognano: quello che vorrei è qualcosa di più del poter andare in un posto, è una vita al di là della casa.
Anche se nessuno ci vede, ci sentiamo sotto esame tutti. Ci domandiamo chi siamo, mentre dubitiamo e regrediamo, risucchiati in simbiosi strampalate, timorosi di ogni lasciatura. Cittadini un po’ infantilizzati che, come bambini con la paura di andare a dormire, vedono ingigantite le ombre della sera. Penso alla riflessione di Anna Freud, l’idea di un Super-io più crudele e spietato quando gli adulti faticano a prendere posizione. L’apparizione intermittente dell’altro, la sua smaterializzazione, il prevalere di un one-to-one senza triangolazione acuisce l’incertezza identitaria.
Come se avessimo perso il nostro appoggio, quello che Georg Simmel, in La metropoli e la vita dello spirito, (a cura di Paolo Jedlowski, Armando,1995), definisce in questo modo: “La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori”.
Mi chiedo: come avrei fatto, come avremmo fatto, noi generazione baby boomers, in giro in autostop in un’Europa strapiena di giovani, lanciati incontro al mondo, sprezzanti del rischio pur di sfuggire alle quattro mura domestiche.
Eppure la sottoscritta, sarà stato lo sradicamento precoce, ha sempre avuto una scarsa mobilità. Mentre si salpava alla scoperta delle Indie o delle Americhe, sentivo che la traiettoria del mio viaggio era invece “dentro”. In quel in di cui parla, nella conversazione con l’architetto Carlo Truppi, James Hillman in L’anima dei luoghi. “In è la proposizione chiave in analisi, credo più importante di con. In è la direzione chiave del momento psicologico, il sito chiave della psicodinamica, la posizione privilegiata dei valori dell’anima. (…) l’attività analitica si svolge all’interno. In è dove c’è azione, dove si nasconde la vera persona, il me interiore, ma anche dove il mondo interno si organizza”.
È stata una decisione ovviamente singola, ma in quegli anni settanta “l’andare in analisi” poteva apparire come la continuazione della politica con altri mezzi per un numero consistente, nella stragrande maggioranza donne, tra quelli che erano saltati su mine psichiche dopo aver cercato di cambiare il mondo. E la psicoanalisi, certo, ai tempi una “filosofia critica” lo era, come dimostrava la lettissima rubrica settimanale tenuta da Elvio Fachinelli su l’Espresso. L’impasse individuale si iscriveva e si interpretava nel prisma di vicende sociali e collettive: non si dava pensabilità di un io senza il noi. Infatti, per chi era rimasto legato ai tempi della politica, la scelta di gettare sguardi dentro il proprio mondo interiore era considerata, prima ancora che il termine fosse utilizzato per definire il malessere della postmodernità, un deficit, una debolezza del singolo. Il privato dell’uomo nuovo era sintetizzato in righe scarne che parlavano di faccende minute che il decoro chiedeva dovessero rimanere intime – roba da lillipuziani di fronte alla storia gigante dell’epica operaia e socialista, come magistralmente mostra La ragazza del secolo scorso, Rossana Rossanda.
Da più di cinquant’anni, in un modo o nell’altro, la psicoanalisi incrocia la mia vita. Avrò avuto tredici anni quando ho preso in mano i Tre saggi sulla teoria sessuale. Ad attirarmi, immagino, sarà stata la curiosità di trovare qualcosa su un tema che premeva ma che per la mia generazione era tabù, dunque andava cercato dappertutto con la speranza di scovarlo da qualche parte. Avrò capito poco o nulla, avevo intravisto però la possibilità di avvicinarmi a qualcosa che parlava di quell’invisibile che stava diventando visibile – nel corpo e nel desiderio. Anche oggi la sessualità, pur liberata dalla repressione, può essere soggettivamente un tormento. L’amore si idealizza, la sessualità si inflaziona.
Quel dentro, quello spazio e quel tempo nella stanza d’analisi si sono, evidentemente seppure un po’ misteriosamente, trasformati nel mio luogo. Lì sono diventata grande, lì mi sono curata, lì sono ritornata per svolgere una professione dopo averne affrontate altre. E poi, la talking cure è un’alchimia verbale ininterrotta, una costruzione infinita, ancorché passeggera, di significati e significanti che nutrono il bisogno del bilingue di essere circondato da pareti foderate da lessici familiari.
Il libro culto è Come si dice (trad. di M. Baiocchi, Donzelli), di Eva Hoffman, un’ebrea polacca che, nel 1959, arriva ragazzina nel Nuovo Mondo, e ricostruisce in un racconto autobiografico – il titolo originale è Lost in Translation. A Life in a New Language – le proprie lacerazioni linguistiche, applicando a se stessa le teorie che studierà da adulta, mentre riflette sul suo percorso psicoanalitico nella nuova lingua. “Le parole sono diventate la mia ossessione. Le raccolgo e le nascondo come fanno gli scoiattoli con le noci per l’inverno, le ingoio, ma la fame non fa che aumentare. Se ne assorbo abbastanza chissà, può darsi che riuscirò a incorporare dentro di me la lingua, a farla entrare nella psiche e nel corpo”.
Nasce da qui anche la mia dipendenza dalla carta stampata, dal bianco e nero del giornale. Senza la regolarità delle righe non andavo da nessuna parte, è questa la forma al cui riparo potevo sentirmi contenuta. Il giornale è da sempre il mio diario, fin da quando ho ricordo. Sfogliavo un quotidiano che aveva un carattere doppio. Una pagina con l’alfabeto latino si alternava a una pagina con l’alfabeto cirillico, così stavano insieme le nazionalità variopinte degli slavi del sud. La forma culturale era avanzata, c’era già dagli anni cinquanta la striscia di fumetto per i bambini, un’epica western con i partigiani buoni e i tedeschi cattivi.
Durante la guerra fredda il giornale era un mappamondo.
Negli anni settanta, nella Praga congelata dall’invasione sovietica, sono riuscita a scovare in un teatro una copia di l’Unità con molte pagine sbianchettate dalla censura, mentre Bohumil Hrabal vendeva centomila copie samizdat; nella Dresda degli anni novanta mi intrufolavo nell’unico albergo dove arrivava L’Humanité dimezzata, mentre nelle librerie Christa Wolf andava a ruba sottobanco.
È rimasta l’abitudine a un passaggio dal noi all’io dall’io al noi, da una dimensione singola a quella collettiva e viceversa, un’oscillazione esistenziale e generazionale, alla ricerca di corrispondenze tra Grande storia, la Politica, il destino individuale.
Ogni tanto temo di gettare uno sguardo troppo sociologico sul materiale clinico. Ma non mi sento più in colpa per la mia incessante curiosità, le cui modalità sono tuttora un argomento di studio della psicologia e della neurobiologia. Secondo la teoria dell’attaccamento la curiosità diventa possibile dopo che sono stati soddisfatti i bisogni primari, nella mia esperienza parte da qui l’élan vital del desiderio di partecipazione.
Del giornale non riesco tuttora a fare a meno. Ai tempi della politica lo si leggeva da sinistra a destra, partendo marxianamente dalla situazione internazionale, ora leggo in senso inverso, parto dalla sovrastruttura, le pagine della cultura – gli interni non li raggiungo quasi mai.
So che siamo già nel futuro del non-giornale che si legge su Instagram. Ma a me non importa se i polpastrelli sono segnati d’inchiostro. Ora inizio con doppiozero, però corro subito in edicola. Lo apro e lo distendo davanti a me, sul tavolo. Ed è subito giorno. Mi guardo intorno, ho pile di giornali dappertutto. Non ho perso l’abitudine al ritaglio da sistemare in tematiche cartellette. Un lavoro per i posteri? Fantastico: l’amico immaginario, lui sì, riuscirà a leggere tutto.
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