Maria Pace Ottieri / Sotto il Vesuvio

23 Ottobre 2018

“Ho provato anch’io/È stata tutta una guerra/d’unghie. Ma ora so. Nessuno/potrà mai perforare/i muri della terra”. Questi versi di Giorgio Caproni sono posti in exergo a Il Vesuvio universale (Einaudi), l’ultimo libro di Maria Pace Ottieri. La scrittrice e giornalista milanese ha compiuto un viaggio nei luoghi intorno al vulcano, dove vivono 700.000 persone, con una densità abitativa più alta di quelle di Milano e di Roma, riempiendo i taccuini di un’infinità di storie, letture, approfondimenti, ma soprattutto di parole nate dagli incontri con le persone che vivono nella corona di paesi intorno al vulcano. Sono incontri che hanno “l’intensità del rito”, autorappresentazioni che per un momento distolgono dal buio della vita quotidiana di un “mondo antico e fagocitante”, ma la Ottieri ha il mestiere della giornalista e le doti della scrittrice, unite a un alto tasso di empatia, per fissare sulla carta una serie di persone, luoghi e situazioni memorabili.

 

E così sgrana il rosario dei paesi intorno al vulcano: l’economia del baccalà a Somma Vesuviana, la civiltà industriale trapiantata con l’Alfasud a Pomigliano d’Arco (un controcanto del capolavoro paterno Donnarumma all’assalto), le cave abusive scavate a Terzigno, luogo dove vive una fiorente comunità cinese. Non è facile orientarsi nei “Paesi Vesuviani” perché proseguono uno nell’altro senza soluzione di continuità, così come nelle conversazioni si allude sempre a situazioni che dovrebbero essere note ma che dilatano, spesso per allusioni, episodi locali. La Ottieri chiede, interviene, continua ad annotare e prosegue il suo viaggio nella Terra dei fuochi, dove trova una realtà spaccata in due tra chi ci abita e continua a coltivare la terra e le denunce degli ambientalisti tra i rifiuti tossici e le discariche abusive che hanno avvelenato quella terra. In generale da queste parti manca lo Stato, i suoi pochi rappresentanti vivono nella messa in scena della propria funzione. Nelle storie raccolte sono spesso richiamati i partiti della Prima Repubblica, a volte Berlusconi, ma anche questo è finito. Rimane la criminalità organizzata, a volte anch’essa povera e impegnata in piccoli traffici. Lo sguardo della scrittrice è fermo, pronta a smontare le autorappresentazioni, le dichiarazioni magniloquenti, le piccole mitologie, ma al tempo stesso è sempre infinitamente curiosa (la curiosità è la sua musa, una curiosità non meccanica ma che partecipa delle vite di chi incontra). Sale naturalmente ‘n coppa al Vesuvio, raccoglie i dati scientifici e chiede se si può prevedere una prossima eruzione. È la domanda che tutti faremmo, ma non c’è una risposta certa. La risposta è il piano di evacuazione, che ha i tratti del romanzo fantascientifico o della sceneggiatura di quei kolossal apocalittici, che ė quasi un genere hollywoodiano. Il Vesuvio è anche un luogo letterario dove si confrontano lo sguardo illuminista di Goethe con La Ginestra leopardiana (la Ottieri raccoglie anche storie e maldicenze dei fan del nostro grande poeta).

 

Il cuore del libro mi pare risieda nel capitolo su Ercolano, dove convivono due città in due strade: il sito archeologico divenuto, grazie all’intervento illuminato di un mecenate americano, un modello di ricerca attiva impegnata nella fascinosissima ricostruzione della vita quotidiana di una città dell’antichità, e le stradine attorno a via del Mare, dove anche la criminalità è povera, dove ci si vanta di un’“eccellenza del negativo”. L’opera ha il passo dei grandi libri di viaggio anglosassoni, ma anche Ercolano è Italia e la Ottieri ne è sempre consapevole. La sua è una prospettiva implicitamente politica, così racconta le storie di Radio Siani a Ercolano, una piccola emittente che si contrappone alla camorra, o di Lucio Zurlo che insegna la boxe a ragazzi e ragazze di un quartiere difficile di Torre Annunziata. 

 

Torre del Greco, Torre Annunziata, luoghi di delizia ai tempi dei Borboni, un’epoca che qualcuno si ostina a rimpiangere, e che ora fanno i conti con industrializzazioni mancate, con storie imprenditoriali finite in nulla, e che così si attaccano alla tradizione del corallo o a quella della pasta trafilata a mano. Il viaggio è contrappuntato da brevi corsivi dove la scrittrice riflette su quello vede, prova a prendere una distanza da una realtà che la invade da tutte le parti. Riporta un brano di Anna Maria Ortese: “Hanno trasformato l’angoscia in devozione, la malinconia in allegria esasperata, la povertà in attività sconsiderate”. Anche la Ottieri non fa sconti. Il fatalismo è un atteggiamento verso la vita, una forma di difesa, ma anche un alibi per lasciare tutto come sta. Registra l’attaccamento delle persone ai luoghi: gli ultimi contadini che coltivano il fertile terreno vesuviano, ma anche le donne del popolo tutte bistrate che incontra sulla Circumvesuviana e per cui non nasconde la sua repulsione. Il finale del viaggio è Pompei, il luogo che ha reso celebre il Vesuvio, ma prima di visitare il sito archeologico, di ricostruire magistralmente l’eruzione del 1631, visita la Madonna di Pompei, la “Lourdes italiana”.

 

Sono pagine molto forti: davanti allo spettacolo della sofferenza la scrittrice è scissa tra il suo sguardo laico e la pratica di carità che viene offerta da chi le sta davanti. Ricorda che Pasolini (di cui la mamma di Maria Pace fu amica e confidente) affermò che è la carità a essere necessaria alla fede e alla speranza, di uso tanto più comune. Il viaggio finisce a Napoli, il luogo da dove ogni volta la scrittrice è partita per le sue peregrinazioni. “A Napoli ci si sente liberi come a New York: la vita si spalanca in tutte le sue possibilità, una delle quali è la morte”. E, poco prima: “Il vulcano allena i suoi abitanti a vivere in una vacillante realtà sempre sull’orlo della dissolvenza, della metamorfosi, di riempire il vuoto al centro, il cratere nella vita di ognuno, con l’immaginazione, trovando nell’invisibile il senso più vero di essere al mondo”.

Maria Pace Ottieri ha scritto tanti bei libri di cui in questo si ritrovano alcuni tratti, ma è facile affermare che d’ora in poi (in attesa del prossimo) sarà ricordata come l’autrice di Il Vesuvio universale.

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