Olivetti / Memoria imperfetta
La memoria imperfetta (Einaudi) è quella di Antonella Tarpino, nata e cresciuta nell’Ivrea di Adriano Olivetti, un’epoca prima mitizzata, poi dimenticata e da un decennio circa studiata e rivalutata, col traguardo di aver reso, dal 2019, la cittadina eporediense un sito UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità. Definizione altisonante ma un po’ vuota perché oggi, quando si raggiunge Ivrea, si è generalmente delusi. Non esiste nemmeno un punto di accoglienza per essere indirizzati verso le famose architetture olivettiane. Tra gli autori di quelle architetture c’è stato il padre di Antonella, Emilio Aventino Tarpino, che fu un architetto al servizio della Olivetti, impegnato nella progettazione delle abitazioni per i dipendenti. Gli amici del padre sono giovani intellettuali e artisti, buffi personaggi nei ricordi di una bambina, e tutti lavorano per la Olivetti.
Questo è lo spunto iniziale di un libro che mescola indagine, riflessione e reportage in modo inconsueto e affascinante – Walter Benjamin è il santo patrono di questo genere di opere poco classificabili – e comincia evocando, in una sorta di ‘lessico famigliare’, le geometrie degli stabilimenti, le case bianche, la lettera O del marchio Olivetti, i funghi arancioni delle lampade Artemide, le poltrone a triangolo, i vestiti per bambine che confezionava Grazia, la moglie di Adriano. E ancora: le linee rette del tecnigrafo paterno, il fiume Dora su cui ironizzava Giovanni Giudici, uno dei tanti olivettiani: “Il Dora / Umile e angusta / Dimora – ma è lo stesso – alle cui soglie si affacciano a quest’ora / gli uomini di successo”. Gli uomini di successo (che avrebbero probabilmente rifiutato questa etichetta) sono gli amici dei genitori: Paolo Volponi, Egidio Bonfante, Luciano Codignola, Lodovico Zorzi, Renato Rozzi, gli ingegneri e, in mezzo a loro, Adriano Olivetti, che la Tarpino ricorda vestito da Babbo Natale che distribuisce regali ai bambini del gruppo. Sono tutti impegnati a costruire un mondo nuovo attorno al concetto di comunità e Ivrea e il suo territorio, il Canavese, sono la comunità pilota, “il mio laboratorio sociale”, per usare le parole di Olivetti. Cosa vuol dire crescere nel Nuovo (l’autrice usa sempre il maiuscolo)?
Che cosa è il Nuovo, almeno nella versione olivettiana? Sono queste due domande che fanno scattare l’indagine. In realtà il mondo nuovo olivettiano, che nasce poco dopo la Seconda guerra mondiale, dura pochi anni. La prima cesura, drammatica, avviene con la morte di Olivetti nel 1960, nei giorni del Carnevale d’Ivrea, quando la cittadina è impegnata nella celebre battaglia delle arance. La seconda, nei ricordi della Tarpino, è la congiuntura che arresta il boom economico tra 1963 e 1964, l’anno in cui è venduta la divisione elettronica alla General Electric e, in questo modo, la Olivetti ipoteca il suo futuro. Lo slancio verso il nuovo prosegue tuttavia, con minor impeto, almeno per un decennio.
Adriano Olivetti è il punto di riferimento di ogni iniziativa, ma resta un uomo imperscrutabile anche per chi gli è più vicino. Una delle descrizioni più a fuoco è quella di Guido Piovene che, incontrandolo, nota come dalla sua personalità emanasse “un’atmosfera insieme di visione e di crisi”.
Perché “di crisi”? Olivetti, dopo la guerra, vuole raddrizzare il legno storto dell’umanità e, nelle sue frenetiche letture, mescola Simone Weil a Lewis Mumford e Richard Neutra. Non ambisce quindi a costruire un mondo perfetto – che è l’accusa di chi, con scherno, lo definisce un utopista – ma l’umanesimo industriale che ha in mente è qualcosa che si costruisce nel suo farsi: la parola chiave è progetto.
In quella Ivrea si vive in una dimensione relazionale intensa: attorno alla fabbrica c’è un reticolo a maglie strette di rapporti col territorio (i servizi sociali), ma orizzontali sono anche le forme di aggregazione tra le persone e tra cose e persone. A tempi nuovi corrispondono comportamenti nuovi, così nasce anche un’estetica del nuovo che l’Olivetti forgia attraverso gli oggetti, la comunicazione, la grafica. Un Nuovo ambientale, per così dire. C’è di più: la Tarpino riprende una frase di Piergiorgio Perotto, l’inventore della P101, il primo computer da tavolo nel mondo, che paragona l’elettronica a “un’urbanistica delle attività immateriali, nelle quali la materia prima non è più il ferro o la pietra ma è costituita dai bit senza peso”.
L’esperimento olivettiano è tanto più difficile perché chi ora entra in fabbrica fino a poco prima lavorava nelle campagne. È ciò che suggerisce la rilettura a confronto dei due grandi libri olivettiani: Donnarumma all’assalto (1959) di Ottiero Ottieri e Memoriale (1962) di Paolo Volponi. I temi comuni sono l’alienazione, la scissione tra mente e corpo, tra uomo e macchina. In più in Donnarumma, cronaca dell’insediamento della Olivetti di Pozzuoli, c’è lo scontro tra la millenaria civiltà mediterranea e la fabbrica che è la porta verso il futuro in un meridione ancora lontano dalla civiltà industriale.
Nella seconda parte del libro la Tarpino ritorna nei luoghi olivettiani, a partire dalla famigliare Ivrea. Ritornare significa trovarsi davanti un panorama di macerie, un tema affrontato dall’autrice in diversi suoi libri, ma il risultato della promenade architecturale tra gli edifici di Figini e Pollini, Gardella, Vittoria, è riconoscerne uno statuto di classicità, un classicismo del Nuovo pronto a essere tramandato. E risuonano le parole di Geno Pampaloni a proposito di via Jervis – la strada dove sorgono le fabbriche – “bella come una via del Rinascimento”. Il Nuovo che si costruisce a Ivrea ha l’impronta del classico e forse per questo merita di essere conservato col sigillo dell’UNESCO: non però come collezione di capolavori di architettura, ma come laboratorio relazionale tra persone, oggetti, architetture e ricerche.
Il viaggio della Tarpino fa poi rotta verso Sud. A Matera visita La Martella, il quartiere modello voluto da Olivetti come presidente dell’INU, per gli abitanti che lasciavano i Sassi di Matera. I materiali del lavoro preparatorio che impegnò in un lavoro di équipe sociologi, architetti, assistenti sociali, urbanisti, sono affascinanti. C’era la consapevolezza che lasciare i Sassi significava per gli abitanti il rischio di perdere le regole di vicinato, i legami primari che avevano garantito una mutua assistenza. La Martella nacque come borgo contadino ‘modello’ ma la politica si intromise fin da subito per sabotare gli ideali comunitari e così il Nuovo deragliò presto fino al desolante panorama attuale.
Diverso è il caso della fabbrica Olivetti di Pozzuoli, capolavoro di Luigi Cosenza col magnifico giardino progettato da Pietro Porcinai. Ritornare, come è accaduto anche a me, accompagnati da Giancarlo Cosenza, che aiutò il padre come ragazzo di bottega, significa vedere ancora oggi un luogo di produzione, diviso tra varie aziende, abbastanza intatto negli esterni e nel giardino, modificato nei luminosissimi interni. Una fabbrica che non sembra una fabbrica. Chi ci scortò nella visita, affacciandosi sulla terrazza con davanti a sé il meraviglioso golfo di Napoli, concluse: “bisognerebbe farne un resort”, capovolgendo in buona fede le intenzioni dì Olivetti. Qui però il Nuovo, seppur modificato, a differenza di La Martella, ha la forza di proseguire nel XXI secolo.
Nel finale la Tarpino riprende una considerazione di Ludovico Quaroni, valida per tutti gli intellettuali olivettiani, impegnati a “costruire una tradizione moderna”.
Rileggendo criticamente l’esperienza di Olivetti, la Tarpino interroga il lessico della nostra modernità: cosa è oggi nuovo? Cosa è classico? Quale è la loro relazione? Cosa vuol dire progetto?
Da dove ricominciamo?