Praga, la città magica che resiste

13 Agosto 2024

È una gioia ammirare il viaggio, lungo e fortunato, di un libro sempre ripensato e sempre rivisto, che ripercorre le tracce di Praga non solo attraverso Kafka ma anche attraverso altri scrittori praghesi, mai troppo ricordati, da Hermann Ungar a Gustav Meyrink, da Leo Perutz a Paul Leppin, citando anche gli autori più celebri, nati ma non vissuti a Praga, da Franz Werfel a Rainer Maria Rilke. Sto parlando del volume di Marino Freschi, Praga. Guida letteraria alla città di Kafka (Mimesis, 2024), che è la ristampa di un libro prima pubblicato dall’autore nel 1990 per l’editore Guida di Napoli, con il titolo La Praga di Kafka. Letteratura tedesca a Praga, e poi ripreso, nel 2000, per Editori Riuniti, con il titolo Praga. Viaggio letterario nella città di Kafka, in una versione riscritta e corredata da un ricco apparato iconografico, versione che qui riappare in Mimesis con nuova introduzione e postfazione.

Nel libro viene evocata anche la figura, marginale ma fondamentale, di Johannes Urzidil, autore di Trittico di Praga e Di qui passa Kafka, uno dei massimi interpreti della Praga evocata da Freschi e che celebrò l’amico Franz Kafka il 19 giugno 1924, in occasione della sua morte, con un discorso pubblico di cui qui cito l’inizio e che sembra la guida segreta a questo libro: «Vedo riuniti in questa sala gli amici ed estimatori di un uomo la cui altissima singolarità umana generò al contempo la più intensa magia poetica. Se mai vi fu congruenza priva di fratture fra vita e arte, ciò avvenne in Franz Kafka. Quest’uomo straordinario creava nel medesimo modo in cui viveva, nel travaglio da lui stesso scelto di una prosa rigorosissima e fedele al cuore, dall’involontaria modestia della conoscenza autentica» (DPK, p.174).

Freschi suddivide la sua Praga. Guida letteraria alla città di Kafka in sette capitoli: Praga dei tre popoli, Rilke, Meyrink, Scapigliatura praghese, Werfel, Kafka, Fuga da Praga. Il libro non è lo scrigno barocco cesellato da Ripellino con la sua Praga magica ma il cangiante ritratto di una città molteplice e inafferrabile, leggendaria e spettrale, dove la “stupefacente simbiosi tedesco-ceco-ebraica” è radice di una fioritura artistica senza precedenti. Non è casuale il successo praghese di Wolfgang Amadeus Mozart per le sue Nozze di Figaro, rappresentate proprio a Praga nel Teatro degli Stati Generali (Stavovské Divadlo) fatto edificare nella Città Vecchia dal Conte Noztiz nel 1783, e che qui Freschi evoca con entusiasmo: «In quei giorni in cui passava da un trionfo all’altro (Mozart) avrebbe esclamato: “La mia orchestra è Praga. I miei praghesi, sì, che mi capiscono”. S’immerse nella vita mondana praghese frequentando la nobiltà ma anche la ricca e colta borghesia cittadina (…) L’entusiasmo del soggiorno lo condusse ad accettare la proposta del direttore del teatro, l’italiano Bondini, di comporre un’opera per Praga: sarà l’opera delle opere, il Don Giovanni, trionfalmente accolta dai praghesi, che lo considerarono un po’ il loro musicista» (GCK, pp. 39-40). Quale opera può essere più significativa del Don Giovanni proprio nel suo rapporto simbiotico con la misteriosa città di doppi e di simulacri che è Praga? Don Giovanni/Leporello, Don Giovanni/Il Commendatore, Donna Anna/Donna Elvira? Le antinomie dei personaggi inventano una storia che precipita verso la condanna finale del Grande Libertino e la sua fatale discesa nel fuoco infernale.

L’etimologia di Praga deriva da Praha, che significa “sulla soglia”. Chi è sulla soglia scopre di non essere dove crede di essere e si apre a un'esperienza ulteriore: questo atto di eresia, questo affidarsi a un’altra parte, a un altro mondo, è comune a molti scrittori boemi, che negano la prospettiva di un mondo univoco e letterale per esasperare o la potenza drammatica dei conflitti interiori o l’aspetto visionario dell’immaginazione. Andare verso Praga, verso la “soglia”, abbatte ogni muro razionale, smaschera ogni difesa, e libera spettri, eccessi, deliri. “Piuttosto che Vienna, Praga è il vero laboratorio dell’apocalisse del mondo moderno, per rifarsi alla celebre espressione krausiana” (GK, p. 241). Simbolo concreto dell’apocalisse è il mito del Golem, creatura d'argilla vivificata magicamente da Rabbi Low fino a diventare un essere gigantesco e minaccioso, dotato di vita autonoma. Protagonista del romanzo omonimo di Gustav Meyrink, erede del Frankenstein di Mary Shelley, il Golem è parola che significaavviluppare, piegare”: è “cosa avvolta in se stessa, informe”, in definitiva “embrione”. Rabbi Low, volendo dare forma all'informe, cerca di trarre dalla materia inanimata una creatura vivente, come nei rituali cabalistici medioevali quando si usava mimare la creazione soffiando diverse qualità di terre in una coppa e recitando varianti diverse del nome di Dio. Del Golem è sempre attuale una leggenda: se sulla fronte della creatura è tracciata la parola «emet» (verità) il golem è vivo; se viene cancellata la prima lettera di «emet», rimane «met» (morto) – idolo inerte, senz'anima. La potenza della parola qui domina incontrastata: esserci o non esserci è questione di vita o di morte.

Lo stile barocco di Meyrink caratterizza molti scrittori boemi: la “stranezza” di Praga si riflette nelle bizzarrie stilistiche, negli eccessi surreali, negli incubi febbrili ampiamente descritti anche da Ripellino nella sua rapsodica Praga magica. La disperata tetraggine del poeta Vladimir Holàn, [recluso volontario dell’isola di Kampa], è il simbolo, l’humus dell’anima praghese. Ogni scrittore che abiti questa fantomatica città vive oltre i confini di sé, in uno spazio alieno prossimo alle regioni del sogno, agli artifici dei manichini, alle finzioni dei simulacri.

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Praga è fantasma che trucca e deforma la realtà: è “nube della non-conoscenza”, nebbia di una visione che non mostra solidità prevedibili e certezze dominanti, e resta sempre fantasma, evocazione dell’indicibile. «Chi resta a Praga ha a che fare con una situazione critica straordinaria e irripetibile: la minoranza si sente sempre più accerchiata e insidiata. Vive in una città che le diventa estranea e straniera, conducendovi una vita marginale, con atteggiamenti d’estetismo decadente con un distacco quasi turistico, che fa esclamare a Werfel, uno dei primi a comprendere l’insostenibilità della condizione di scrittore a Praga, da cui fugge poco più di ventenne: “Per chi è non è ceco questa città non ha alcuna realtà: è un sogno ad occhi aperti, che non comunica alcuna esperienza vissuta: un ghetto paralizzante”» (GK, p. 64).

Ma chi è nato, vissuto e morto a Praga, trasformando queste evocazioni dell’indicibile in un’esperienza personale radicale e assoluta, è Franz Kafka. Attento a esplorare i propri fantasmi, per raffigurare il caos interno si serve di una lingua atona. Il disordine della mente lo esprime con uno stile secco, vicino all’epigrafe o alla litania, come nei Diari del gennaio 1922: «L’“inseguimento” è soltanto un’immagine. Potrei anche dire “assalto all’ultimo limite terreno” e precisamente assalto dal basso; dalla parte degli uomini, e poiché anche questa è soltanto un’immagine posso sostituirvi l’immagine dell’assalto dall’alto, giù verso di me» (GK, 401). L’alto e il basso, la forma e l’informe: vette e abissi di un viaggio interiore onirico e incessante, che aggredisce “l’ultimo limite terreno”. Sogno deriva, etimologicamente, dalla stessa radice di conoscenza. E Kafka non ha mai smesso di scavare, in toni sapienziali, l’insondabile sogno di esistere, per approfondire la conoscenza di sé.

Sono molti gli scrittori praghesi, spesso misconosciuti, evocati da Marino Freschi nel suo volume, e ognuno di loro ci parla ancora, con le trame bizzarre e i titoli misteriosi dei loro libri: fra gli altri Johannes Urzidil, La fuga di Kafka; Hermann Ungar, I mutilati; Leo Perutz, Di notte sotto il ponte di pietra; Ernst Weiss, L’aristocratico. Ma l’elenco non è completo, e potrebbe mai esserlo? Ricordiamo soprattutto Paul Leppin, Severin va nelle tenebre. Un romanzo di fantasmi praghesi, e il suo protagonista, il tenebroso Nikolaus. «Il romanzo inaugura quel manierismo nero, morboso, poi condotto al definitivo trionfo europeo con il Golem di Meyrink e preannunciato da un altro straordinario romanzo di un autore anch’egli famoso per la sua opera grafica: Alfred Kubin (1877-1959), che nel 1909 con L’altra parte scrive un classico della modernità. Nato in Boemia a Leimeritz, Kubin è a stretto contatto con alcuni scrittori di Praga. Nella sua qualità di grafico viene interpellato da Meyrink circa la sua disponibilità a illustrare il suo progettato romanzo del Goolem, solamente è Meyrink a prendere tempo, sicché Kubin utilizza le tavole già approntate per un suo testo, L’altra parte, che diviene uno dei più emblematici racconti dell’espressionismo tedesco. La topografia della città utopica (o antiutopica) di Perla, collocata in una fantastica landa asiatica, assomiglia assai a quella di una città mitteleuropea che potrebbe essere Praga» (GK, pp. 201-202).

Le “anime strane” che popolano la città ridolfina traboccano dai vicoli, dalle piazze, dal ghetto, intrecciando, tra le statue del Ponte Carlo e l’Isola di Kampa, i loro incubi appassionati. Freschi suggerisce al lettore un viaggio favoloso in questa Praga letteraria fitta di echi onirici e di personaggi al limite di sé, succubi delle loro fantasie inconsce. Nessuna forma di “realismo” definisce Praga e i suoi scrittori, e se realismo c’è, come è necessario ci sia, rimanda sempre a una realtà altra – grottesca, beffarda, fantastica. Praga è davvero, come intuisce Kubin, la città utopica e terribile di Perla – “basso continuo” di lugubre tristezza, città-caleidoscopio viva al di là di ogni tempo storico, pronta a inghiottirci nella sua fucina di incubi e di meraviglie dove la crisi dell’uomo contemporaneo è, specularmente, la nicchia delle sue potenziali ricchezze. Per noi, lettori ossessivi, la vera “Praga magica” è la città magica che resiste e non dimentica l’ironia ebraica: «È il dramma della Mitteleuropa nel Novecento. Che spesso, praghesemente, tramonta con quell’ironia che trasforma tutte le tragedie in definitiva in commedie, per cui le rivoluzioni sono vellutate e la guerra finisce in parodia, come insegnano le vicissitudini del buon soldato Sveik» (PDK, p. 266)

Marino Freschi, nel suo primo libro, La Praga di Kafka, descrive così un romanzo pressoché dimenticato, L’aristocratico, di Ernst Weiss: «Se Kafka e Mann hanno accennato all’elemento igneo, caotico, distruttore e anche catartico, Claudio Magris, che spesso ha segnalato il romanzo L’Aristocratico, ha parlato dell’altro elemento, quello dell’aria, della libertà: “Il protagonista sente di vivere come un tuffatore nel momento in cui si getta dal trampolino e si trova sospeso nel vuoto, perduto quasi stesse cadendo nell’immensità dello spazio, eppure teso in una slanciata eleganza… L’individuo che precipita è un corpo fisico che obbedisce alla legge di gravità, ma è pure un corpo umano, un effimero e struggente concentrato di affetti che si brucia nel suo percorso ma che tuttavia oppone all’inevitabilità di questo moto discendente almeno il caparbio tentativo d’imprimergli una direzione, uno stile”» (PLK, p. 82). Questo “caparbio tentativo” è il nodo morte/vita che ogni autentico scrittore praghese vive con eccessiva, eccezionale intensità. L’Atene di una volta, la Roma di una volta, la Praga di una volta, sono rovine, anche se le case e i portici sono intatti. Grande è solo ciò che resta vivo nello spirito e nel cuore, con la sua direzione, con il suo stile. Di “ciò che resta vivo” è sempre e ancora testimone Franz Kafka, le cui parole sul giovane poeta Karl Brand, stroncato ventiquattrenne dalla tisi ed evocate da Johannes Urzidil, restano eloquenti a distanza di un secolo: «poi… l’agonia di questo giovane, il suo grido durato tre giorni e tre notti… in realtà non ne è trapelato il minimo suono, e se si fosse fatto udire ci si sarebbe spostati due stanze più in là, non c’è altra via d’uscita che questa… (DPK, pp. 82-83). Ecco: questo grido silenzioso, ben chiuso nello scrigno di favole e di leggende della “Praga dai tetti d’oro” amata da Frantisek Langer, è sempre presente e ancora ci inquieta, per l’esattezza della sua angoscia.   

Libri consultati:

Marino Freschi, La Praga di Kafka. Letteratura tedesca a Praga, Guida editore, Roma 2000 (PLK).

Marino Freschi, Praga. Viaggio letterario nella città di Kafka, Editori riuniti, Roma 2000 (PVK).

Marino Freschi, Praga. Guida letteraria alla città di Kafka, Mimesis, 2024 (GCK).

Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi, Torino 1980.

Johannes Urzidil, Trittico di Praga, Rizzoli, Milano 1967 (TP)

Johannes Urzidil, Di qui passa Kafka, Adelphi, Milano 2002 (DPK)

In copertina, opera di Pietro Elisei.

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