28 gennaio 1972 / Dino Buzzati, una vita tra libri e montagne

28 Gennaio 2019

“Ricordiamoci che la natura sta diventando una autentica ricchezza. Di tale ricchezza le Dolomiti sono una miniera prodigiosa che il mondo sempre più ci invidierà. Ma se la si sfrutta ciecamente, per la smania di pomparne i soldi, un bel giorno non ne resterà una briciola. Sono montagne delicate, basta poco a deturparle, un giorno pagheremo il conto. Un giorno, quando le Dolomiti saranno tutte un autodromo, la loro poesia andrà a farsi benedire”. Così Dino Buzzati scriveva sul Corriere della sera il 5 agosto del 1952 nell’articolo Salvare dalle macchine le Tre Cime di Lavaredo, contribuendo a preservarle da uno scempio irreparabile. Qualche avido sciagurato, con la scusa delle Olimpiadi previste a Cortina nel ’56, aveva infatti proposto di realizzare una strada che collegasse il lago di Misurina al rifugio Locatelli, passando sotto le Tre Cime e arrivando poi al rifugio Zsigmondy-Comici. Con le stesse ciniche motivazioni con le quali si sono perpetrati negli anni tanti altri scempi, e si immagina oggi di realizzare impianti che colleghino il passo Giau e il Civetta, il Monte Rosa e Cervinia, Pila e Cogne, devastando quanto rimane della bellezza delle nostre montagne: per sciare come grulli su neve finta, perché quella vera se la sono portata via i cambiamenti climatici.

 

DIno Buzzati, Dolimiti di Brenta ©Rolly Marchi

 

Buzzati è uno dei grandi narratori italiani del Novecento, per lui scrivere era un mestiere e una passione, ma raccontava storie anche quando dipingeva, racchiudendo nella tela favole grottesche, sogni malinconici, desideri erotici e paure inesplicabili. Il mondo figurativo era parallelo alla scrittura, forse gli consentiva maggiore libertà, minore necessità di seguire delle regole e di farsi capire.

Amava raccontare, nei romanzi, nei racconti e negli articoli, nelle lettere e nei dipinti, combinare l’espressività della parola con quella del tratto, fin da ragazzo, quando descriveva scalate ed emozioni nelle lettere al suo grande amico Arturo Brambilla, accompagnando le parole con schizzi di figure umane e di montagne.

La sua prima montagna importante era stata una cima delle Dolomiti Bellunesi che vedeva dalla sua casa di San Pellegrino, la Schiara: c’è una foto che lo ritrae a 15 anni sulla vetta, con due amici. Da adulto le dedicò anche uno scritto, L’amico Schiara (1964), dove rievoca gli anni delle arrampicate giovanili. 

 

Negli anni Trenta, lasciata la divisa da sottotenente ed entrato come giornalista al “Corriere della Sera”, Buzzati svolge un lavoro ordinario e monotono. I suoi primi libri sono ambientati tra alte vette, boschi incantati e paesaggi pieni di solitudine: Bàrnabo delle montagne nel 1933, per il quale realizzò anche illustrazioni poi non pubblicate e rimaste inedite, e Il segreto del bosco vecchio, due anni dopo. Quest’ultimo è una sorta di favola dove tra i personaggi ci sono non solo un colonnello in pensione, che quel bosco vorrebbe distruggere per denaro, e un ragazzino curioso, ma anche geni degli alberi e gazze guardiane, e persino un vento, di nome Matteo. Il ragazzino, Benvenuto, è anche protagonista di una scalata, simbolica ma descritta come nel resoconto di una ascensione alpinistica: “Raspando sulla gelida rupe, che offriva in verità molte rughe buone per afferrarsi, il ragazzo salì oltre le cime degli alberi, si innalzò rapidamente per la parete. Alla fine si trovò su di un aereo terrazzino con sopra soltanto il cielo. Egli vide sotto di sé il Bosco Vecchio che emanava magiche ombre, vide la luna tramontare e una striscia dorata comparire nel cielo d’oriente. Tutto era straordinariamente tranquillo. Di vivo, nell’intero mondo, così almeno pareva, non c’erano che Benvenuto, diritto sulla cima del Corno, e Matteo, intento a morire”.

 

La vita in redazione, per molti anni, è simile a quella del tenente Drogo nella fortezza. Trovarsi nel cuore del giornalismo italiano e passare mesi e anni nella routine, vedere tanti colleghi scrivere senza originalità e passione, gli dà un irrequieto e frustrato desiderio di lasciare un segno, prima che sia troppo tardi. Da quest’ansia nasce Il deserto dei tartari, il suo capolavoro, pubblicato nel 1940: dalla paura dello scorrere del tempo, con l’inevitabile fine dei sogni e delle illusioni, dalla consapevolezza di avere in sé grandi possibilità e dalla paura di non riuscire a esprimerle. L’idea di una vita tranquilla e un po' grigia, piena di occasioni perdute, lo atterriva. Il libro ha fortuna perché Buzzati riesce a tradurre quell’ansia in una storia ben narrata, coinvolgente, che interpreta paure e illusioni di tanti lettori. Per l’ambientazione del romanzo, si ispira al vasto altipiano roccioso e lunare delle Pale di San Martino, in particolare la zona del rifugio Pedrotti alla Rosetta. 

Sino alla fine degli anni Trenta non era passata estate senza qualche salita a vette importanti delle Dolomiti, lo ferma solo, nel 1940, l’incarico di corrispondente del “Corriere della Sera” in Africa e poi, durante la guerra, negli incrociatori che pattugliavano il Mediterraneo. In un articolo per il “Corriere d’informazione” del 1941 scrive: “Tutte le sante notti, da una ventina d’anni a questa parte mi sognavo le montagne”. Dopo l’entrata in guerra non più, e allora si rivolge a loro perché tornino a fargli visita: “Aspettate qualche tempo tranquille, e poi provate di nuovo. Un bel giorno ritroverete via libera, spero. Nei miei sogni, chissà, tornerete a innalzare le vostre muraglie coronate di nubi e di sole”. 

 

Dino Buzzati e Rolly Marchi in cima alla Croda da Lago, settembre 1966.

 

Nel dopoguerra continua a dipingere, ma la consacrazione come grande scrittore e giornalista è definitiva, tutto il resto finisce in ombra, le vette da scalare come le tele da dipingere: nonostante avesse salito cime di tutto rispetto non fu mai ammesso tra gli accademici del CAI e non divenne mai un grande pittore. Arte e alpinismo restarono due passioni e due abilità. E le difende, le montagne, dall’assalto di speculatori senza scrupoli e dall’inerzia degli ignavi, scrivendo articoli molto letti sul giornale italiano più diffuso, il “Corriere della Sera”: Risparmiare al Cervino lo scandalo di una funivia (23 giugno 1951), e il già ricordato articolo a difesa delle Tre Cime.

 

Buzzati espone per la prima volta i suoi dipinti nel 1958, a Milano, in una personale intitolata ‘Le storie dipinte’. Nell’occasione pubblica una monografia in mille copie con lo stesso titolo. Una delle più note tra le opere esposte è la raffigurazione pittorica del Duomo di Milano come cima dolomitica: non provocazione, ma originale continuità di emozioni tra montagne e città, avvertibile solo se si dispone di sufficienti doti di fantasia e immaginazione. Si ispira in modo evidente alla Cima Canali, una delle più belle delle Dolomiti, con le caratteristiche pareti a canne d’organo. 

Nello stesso anno pubblica i Sessanta racconti, tra questi spicca il realismo drammatico di “Notte d’inverno a Filadelfia”, la storia di un paracadutista americano rimasto appeso senza scampo a una parete delle Pale di San Martino, non lontano da Cima Canali.

Colpisce anche la vis polemica e amara di un racconto brevissimo come “La parete”, nel quale tratteggia la stolida indifferenza di un gruppo di turisti di fronte al protagonista che sta per precipitare nel vuoto. 

Le crode dei Marden sotto la luna (1969) è il dipinto che più di ogni altro esprime il suo senso della solitudine, malinconico e inquieto: si vedono rupi affilate e scabre immerse nell’azzurro della luce lunare. Tutte le montagne delle sue opere sono ripide, altissime, incutono un vago timore, si pensi alle vette del Focobon ritratte in uno dei suoi ex voto, I ronfioni, poi raccolti nel libro I miracoli di Val Morel (Garzanti, 1971).

Buzzati non smette mai di disegnare, neppure nei giorni delle scalate ai monti. La guida alpina Gabriele Franceschini, l’amico esperto di vette ma anche di buone letture, che più di ogni altro lo ha accompagnato per le montagne, lo ricordò così: “Al ritorno dalla scalata mi faceva il disegno della vetta che avevamo salito. A corona picchi bellissimi e selvaggi, sfuggenti in cielo, scuri spigoli ben in risalto, profondi canaloni; qua e là qualche masso pencolante, il ghiaione ripidissimo su cui arrancavano due minuscole sagome. Io, curvo sotto il sacco, lui con l’alpenstock smisurato. Le pareti e le creste erano una particolareggiata miniatura, su su, fino agli enigmatici pinnacoli delle creste. Nel centro del disegno la vetta, sporgente da una corona di nubi, su cui sorvola il nibbio e una figura di scalatore con petto ridicolo in posizione di sicurezza, la corda tesa sulla spalla che scende fino a lui, altra piccola figura, sull’orlo di uno strapiombo”. Insieme scalarono il Campanile del Focobon, la Torre della Madonna, il Sass Maor, la Cima Zopel, la Torre Pradidali, il Dente del Cimone, e aprirono alcune nuove vie alpinistiche. 

A Franceschini subentrerà poi, nelle scalate, un altro amico e alpinista, Rolly Marchi, che con la sua esuberante vitalità lo rallegra e rasserena. Pubblico qui due foto di Buzzati nelle Dolomiti di Brenta, scatti che fu lo stesso Rolly a donarmi qualche anno fa: “Tieni questa busta Giuseppe, aprila quando trovi un momento… niente di importante”. Rimasi stupito e commosso quando, qualche tempo dopo, quando Rolly era ormai scomparso, aprii quella busta: era un uomo generoso, che amava fare scherzi agli amici.

 

A muovere la mano di Buzzati era sempre il desiderio di raccontare, le modalità pittoriche venivano dopo. Il suo raccontare per immagini si espresse anche nel sorprendente Poema a fumetti del 1969, la vicenda di Orfeo ed Euridice trasfigurata in una Milano misteriosa e solitaria, inquieta e notturna. Erano anni in cui il fumetto stava raggiungendo ampia diffusione e l’arte maggiore se ne lasciava contaminare volentieri, si pensi ad artisti come Roy Lichtenstein. L’esperimento incuriosì ma non fu molto apprezzato, né dalla critica letteraria né da quella artistica. Risultarono confermati i limiti tecnici ed espressivi dell’autore, ma alcune pagine hanno una grande forza immaginifica ed evocativa, soprattutto le tavole alpine dei ‘quando’ e quelle finali, così raccontate: "In quel preciso momento nelle creste della Gran Fermeda turbinava la tormenta con le sue solite anime in pena. Gli ultimi re delle favole si incamminavano verso l'esilio. E sul deserto di Kalahari le turrite nubi dell'eternità passavano lentamente". 

 

Le crode dei Marden sotto la luna (1969)

 

La malinconia e l’irrequietezza interiore attraversano le pagine di tutti i suoi libri e si riflettono anche nei disegni e nei colori, e anche la nostalgia, il desiderio inappagato di ritornare a certi momenti felici del passato, l’impossibilità di rimediare ai propri errori: il tutto reso leggero da un grande senso dell’ironia. 

Un artista che gli fu amico, Salvatore Fiume, disse di lui: “Avrebbe voluto essere un pittore dell’angoscia, ma non ci riusciva perché perfino nella rappresentazione della violenza infilava una sorta di ironia che rendeva divertente e allegro ogni suo dipinto”. Fiume realizzò un ritratto dell’amico in posa e vesti da tenente Drogo, cogliendo nei tratti del viso il desiderio, a volte impaurito, di solitudine. Un dipinto che Buzzati scelse per un’edizione Mondadori di Il deserto dei tartari

Al linguaggio artatamente contorto di certi recensori dedicò un racconto pungente e dissacrante: “Il critico d’arte” (nei Sessanta racconti). Non a caso nella sua poesia “Le cose che odio”, inserì nell’elenco anche ‘il linguaggio oscuro e pretenzioso’. 

A chi sminuiva il valore artistico dei suoi dipinti, definendola letteratura su tela, replicava: “Certo, la mia pittura è narrativa”.

 

In occasione di una mostra sui libri e sui dipinti di Buzzati, organizzata ad Alleghe da Bepi Pellegrinon e Rolly Marchi, andai in Austria a prendere in prestito un dipinto di Buzzati che Bepi voleva esporre, un acrilico su tela, senza titolo, con albero e montagne, dedicato a Mario Jori, storico gestore del rifugio Castiglioni al Fedaia. Ricordo un momento di pausa del viaggio in un passo alpino, con quelle vette dipinte in auto, a immaginare lo sguardo di Buzzati quando ammirava quelle stesse cime. Il vento, a tratti forte, che scompigliava larici e abeti mi fece pensare a “il vento Matteo” di Il bosco vecchio: ma come gli era venuto in mente di far parlare il vento? 

In occasione del sessantesimo compleanno di Dino Buzzati, il suo amico Rolly Marchi gli regalò una scalata alla cima della Croda da Lago, che Buzzati aveva salito a diciassette anni, nell’agosto del 1923, raccontando poi le difficoltà e le emozioni in una lettera al migliore amico di allora, Arturo. Nella foto scattata sulla cima, dopo quell’ultima impresa, si vede un Buzzati felice, come forse solo in montagna riusciva ad essere.

 

Il suo ultimo testo narrativo, “Ottavio Sebastiàn, vecchia fornace”, stampato nel 1985 da Frassinelli (Il reggimento parte all’alba) e nel 2018 in un bellissimo volume Henry Beyle corredato dai disegni di Buzzati, è il racconto del suo ultimo viaggio, da Milano verso la villa di famiglia di San Pellegrino presso Belluno e il cimitero dove era sepolta sua madre, a cercare qualcosa di lei e del passato. Non dimentica le montagne neppure in queste sue pagine: “… poco dopo Brescia ad un tratto ho visto risplendere lontanissime al nord le montagne di vetro, pure, supreme, dove mai più; cari miraggi di quand’ero ragazzino rimaste ad aspettarmi e adesso è tardi, adesso non faccio più in tempo”. Illustrò il racconto con un disegno: lui stesso appoggiato a un bastone, sullo sfondo ancora una volta le sue Dolomiti. E al medico che lo curava del suo male senza rimedio, Giovanni Angelini, anch’egli alpinista e scrittore, dedicò e donò il suo ultimo dipinto, un ex voto che racchiudeva la villa di famiglia, con una sola finestra ancora illuminata e le montagne bellunesi sullo sfondo, e una scritta, ironica come sempre: ‘Santa Rita per intercessione del professore Giovanni Angelini affronta e sgomina dopo paziente lotta uno spirito maligno di incerta stirpe sceso a insidiare tale Buzzati Dino in quel di San Pellegrino – Belluno, estate 1971’. Chiuse la sua vita con stile, come aveva immaginato e sperato alcuni anni prima scrivendo l’articolo Sciatore d’autunno: “Tutto sta nel saperla fare bene, questa ultima e speriamo lunga, ultima discesa. (…) Dipende dalla saggezza, dalla bontà, dalla rassegnazione, dallo humor, dal buon gusto. Soltanto così ci si può salvare”. Si spegne a Milano il 28 gennaio del 1972, mentre sulla città imperversa una forte nevicata.

 

Poiché i libri di valore sono a volte destinati ad essere ripresi divenendo altro e moltiplicando le emozioni, vale la pena ricordare il gran film di Valerio Zurlini tratto da Il deserto dei tartari, di spessore adeguato a quello della sua fonte letteraria, e quello di Ermanno Olmi tratto da Il Bosco Vecchio, a sua volta destinato a divenire, grazie a Giovanni Cenacchi, libro per fotogrammi e frammenti di sceneggiatura, arricchito da evocative immagini di lariceti e di nuvole in mezzo ai boschi (Nel Bosco Vecchio, 1993).

Sia Olmi sia Cenacchi colsero perfettamente l’invito di Buzzati a difendere la natura non solo con l’evidenza di dati scientifici più allarmanti che mai, ma anche con l’etica della responsabilità personale, della scelta individuale.

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