I sentieri degli scrittori. Buzzati sulle Dolomiti
Rolly Marchi alza la punta del bastone verso il Pomagagnon, e mi indica lo spigolo della Punta Fiames; è la fine di luglio del 2009. Siamo a Chiave, l’antica frazione di Cortina dove lo scrittore, alpinista, fotografo, abitava alcuni mesi all’anno.
«Era il settembre del 1971. Non avevo mai salito, pur sapendo che era una bella scalata, lo spigolo della Fiames. Mi ricordo che non ero allenato, ma mi son detto dai che andiamo. Qui a casa c’era anche Dino Buzzati, è stato qui tutto il giorno a guardarmi arrampicare, con il binocolo».
Verso sera, quello stesso giorno chiese all’amico di fotografarlo mentre, appoggiato al bastone, gli voltava le spalle e si allontanava: «Fai un uomo che se ne va, che se ne va… Hai capito vero?». Pochi mesi dopo, il 28 gennaio 1972 morì a Milano, per la grave malattia di cui soffriva da tempo, mentre sulla città imperversava una forte nevicata.
Una grande amicizia la loro: per lui Buzzati aveva lasciato la giuria del Premio Viareggio, quando, nel 1966, gli altri giurati non avevano apprezzato Un pezzo d’uomo, il primo romanzo di Rolly Marchi, edito da Longanesi. Ne aveva curato il risvolto di copertina, lodandone «l’esemplare discrezione dei toni».
Rolly è anche il fotografo che ha realizzato i migliori ritratti fotografici di Dino Buzzati, colto sia nella quiete della sua casa, sia tra le vette dolomitiche.
I due amici erano assai diversi per temperamento: Buzzati era taciturno e poco propenso a scherzare, ma Rolly riusciva sempre a farlo sorridere, come quando lo coinvolse in un piccolo scherzo a Renato Guttuso.
Quest’ultimo era andato ad abitare in una villa del Varesotto; in quel luogo però si sentiva fuori posto e Rolly per rinfrancarlo lo andò a trovare annunciandogli un bel regalo. «Ce l’ho in macchina», gli disse. Un minuto dopo prese in braccio l’amico Buzzati, che era rimasto in auto, e presentò il regalo a un divertito Guttuso. C’è una rara foto che immortala la scena, una delle poche scattate a Buzzati in cui lo si vede sorridere.
Buzzati non aveva alle spalle grandi imprese alpinistiche, nessun sesto grado, ma molte scalate impegnative nelle Dolomiti: la Croda da Lago, la Cima Canali, il Campanile Pradidali, la Guglia De Amicis, il Campanile di Val Montanaia, le Torri del Vajolet, e tante altre ancora.
Si rammaricava di non aver scalato vie nuove e vette tali da consentirgli di essere ammesso tra gli accademici del CAI: tre volte aveva visto respinta la sua richiesta. All’amico Rolly, aveva confidato che pur di riuscire a superare una via di sesto grado su una grande parete avrebbe dato in cambio un paio dei suoi libri. Non Il deserto dei tartari, aveva però precisato.
Chi ha letto le sue pagine dedicate all’alpinismo, può immaginare cosa provasse in quel giorno a casa di Rolly, seguendone la salita con il binocolo, lontano ma vicino per la magia dello strumento ottico. Il 9 luglio 1969, intervistato da Giuseppe Grieco per Gente, Buzzati gli aveva confidato: «Scalare una montagna mi ha sempre dato un’emozione spaventosa (…). L’unico punto fermo della mia vita era la passione per la montagna: una passione, del resto, che non mi ha mai abbandonato, anche se adesso, da due anni, non tocco rocce. Invece tutte le notti, sogno di scalare pareti vertiginose, di superare grandi abissi».
Buzzati aveva molta cura delle amicizie, ad esempio quella con Arturo Brambilla, nata a Milano sui banchi di scuola. Per molti anni gli scrisse lettere che erano vero materiale letterario, tanto da meritare di essere raccolte nel volume Lettere a Brambilla del 1985: opinioni su concerti e libri, speranze e idee per il futuro, racconti di scalate soprattutto, da parte di uno scrittore-alpinista che non volle mai ricavare dei récit d’ascension dalle proprie avventure sulle vette.
Proprio in una lettera a Brambilla riporta le sue impressioni dopo la prima scalata alla Croda da Lago, una delle più belle montagne della Valle d’Ampezzo. Era l’agosto del 1923 e Buzzati aveva solo 17 anni:
«… per me è difficile. Si va su per una parete vertiginosissima dove non si vede mai il pezzo prima ma solo i prati, le foreste e Cortina. Il pezzo più brutto è al Buso dove bisogna fare una lastra liscia e guai a scivolare il primo ché si va giù tutti… Ma quello che è spettacoloso è la vertiginosità della Croda, perché attorno non si vedono che picchi e pareti a piombo».
Tanti anni dopo, nel 1966, per i suoi sessant’anni, Rolly Marchi gli organizza una sorpresa e un regalo. Si accorda con Lino Lacedelli, il grande alpinista del K2, e dona all’amico una scalata sulla cima della Croda da Lago, lungo la via alpinistica Eötvös. Raggiunta la cima, Lacedelli immortala i due amici in una foto, sfocata ma commovente: con Buzzati per una volta sorridente, felice di essere riuscito a risalire una vetta difficile, rimasta per anni tra suoi i ricordi più belli.
Amava così tanto le Dolomiti da impegnarsi con determinazione e in più occasioni per difenderle, basti pensare al memorabile articolo Salvare dalle macchine le Tre Cime di Lavaredo, che Buzzati firmò per il Corriere della sera del 5 agosto del 1952. Scritto con efficace stile narrativo contribuì a preservare le Tre Cime da uno scempio irreparabile. Con la motivazione delle Olimpiadi, programmate a Cortina nel ’56, alcuni imprenditori di pochi scrupoli avevano suggerito di realizzare una strada per collegare il lago di Misurina al rifugio Locatelli, passando sotto le Tre Cime e giungendo poi in Val Fiscalina: «Ricordiamoci che la natura sta diventando un’autentica ricchezza. Di tale ricchezza le Dolomiti sono una miniera prodigiosa che il mondo sempre più ci invidierà. Ma se la si sfrutta ciecamente, per la smania di pomparne i soldi, un bel giorno non ne resterà una briciola. Sono montagne delicate, basta poco a deturparle, un giorno pagheremo il conto».
La passione per i paesaggi montani emerge evidente in tanti dipinti, su tutti il notturno e azzurrissimo La croda dei Marden sotto la luna, e in romanzi come Bàrnabo delle montagne, Il segreto del bosco vecchio, Il deserto dei tartari; ma vale la pena di ricordare anche due racconti che, a mio avviso, colgono con immediatezza la solitudine e la fragilità dell’uomo nel mondo delle alte cime: Notte d’inverno a Filadelfia, la breve e tragica storia di un paracadutista americano rimasto appeso senza scampo a una parete delle Pale di San Martino, non lontano da Cima Canali e La parete, in cui descrive la stolida indifferenza di un gruppo di turisti di fronte al protagonista che sta per precipitare nel vuoto.
Pensando alla sua fine, volle immaginarla tra nevi e montagne, nell’articolo Sciatore d’autunno del 1 dicembre 1967: «Tutto sta nel saperla fare bene, questa ultima e speriamo lunga, ultima discesa. Dipende dalla saggezza, dalla bontà, dalla rassegnazione, dallo humor, dal buon gusto. Soltanto così ci si può salvare».
In copertina, Le Crode dei Marden sotto la luna, di Dino Buzzati (1972).