Un libro di Daniela Brogi / Lo spazio delle donne
Si celebra da più parti il centenario della nascita dello scrittore italiano del Novecento Beppe Fenoglio. Bene. Ma chi sa che Fenoglio aveva una sorella scrittrice (dico il grande pubblico, non i raffinati lettori e le sofisticate lettrici di Doppiozero)? Si chiamava Marisa, Marisa Fenoglio e andò moglie a un dirigente della Ferrero di Alba (la fabbrica faceva allora solo i cioccolatini, la Nutella non era stata ancora inventata), e quando questi si trasferì nel 1957 in Germania per dirigere la nuova filiale lei gli andò dietro, ché per gestire la casa e la famiglia la lingua non serviva, anche se Marisa Fenoglio il tedesco lo imparò magnificamente, e in Germania rimase, a Marburg, città di heideggeriana memoria, dove è morta l’anno scorso.
Sulla sua esperienza di emigrazione da matrimonio scrisse un libro di struggente bellezza, Vivere altrove, pubblicato nel 1997, da Sellerio come altre sue due opere. Ma era una donna, Marisa Fenoglio, sommersa, silenziata, oscurata. Non era nemmeno la sorella di Shakespeare immaginata da Virginia Woolf. Era una donna vera, che poteva almeno scrivere, non come Paolina Leopardi, che non poté comporre poesie, come ostacolata fermamente dalla famiglia nelle sue attività musicali fu Fanny Mendelsohn-Bartholdy, giacché in entrambi i casi di fratelli poeti e musicisti ce n’era già abbastanza in casa.
La vela nel mare delle donne smarrite
Donne silenziate, private di spazio pubblico, confinate nello spazio domestico. Ma lasciamo la «sterile» polemica e seguiamo il libro di Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena; è la vela (Einaudi numero 190) che si muove tra le onde del gender, nel suo viaggio alla ricerca delle donne perdute. Non nel senso di donne traviate, ma proprio in quello di donne, soprattutto autrici di testi letterari, soggette al meccanismo di sparizione dalla considerazione e dalle pratiche di riconoscimento duraturo. Donne che non sono presenti nel canone, nelle mappe, nelle giurie, nelle pagine dei quotidiani in quanto personaggi di cui si scrive e firme di chi scrive, donne che sono assenti nelle collane dei libri (quante donne direttrici di collana?), negli elenchi di partecipanti a convegni e incontri prestigiosi (a meno che qualcuno non si accorga che ci vuole una donna in quanto donna, non perché brava, esperta, competente, quella donna con nome e cognome: ci vuole una donna qua donna, come per esempio per la successione a Sergio Mattarella alla presidenza della repubblica: «È ora che ci sia una donna!» come se l’ora fatale fosse scoccata adesso e non fosse sempre l’ora delle donne e degli uomini. E comunque donna non fu.
Lo studiolo
Insomma lo spazio nel quale ci troviamo è vuoto di donne, qualcosa di più rispetto al museo degli orrori del passato ma c’è molto da fare anche in questa parte di mondo. Daniela Brogi ci rammenta inoltre che per occupare lo spazio pubblico, non quello privato che viene ancora loro volentieri assegnato, le donne, le autrici, dovrebbero avere per scrivere uno spazio vuoto, l’empty space di cui parla Doris Lessing e che Brogi riprende: una specie di variazione della camera tutta per sé di Virginia Woolf, ovvero un ambiente liberato da tutto ciò che distoglie e distrae, uno spazio mentale di concentrazione, uno studio come quello di San Girolamo dipinto da Antonello da Messina o uno studiolo tipo la camera di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino (una mia amica di Bari lo studiolo ce l’ha, beata lei. È Emanuela Angiuli, una grande storica dell’arte ed esperta di cose museali e il suo studiolo pieno di libri e di carte è bellissimo, in una antica casa di Bari vecchia, con il soffitto a travi decorate con rami d’ulivo ricchi di foglie e frutti, che invidia).
Ropografia e megalografia
Insomma, per tornare a Brogi, la sottrazione di spazio pubblico, di visibilità, di «presenza nelle liste» è una forma di violenza di primo grado, la definisce lei, mentre violenza di secondo grado è sentire valutare come inferiori le narrative delle donne degli spazi privati loro concessi. Un po’ come la categorizzazione della pittura elaborata da Norman Bryson adattando due termini greci: ropografia (da rhõpos = merce di poco valore, minuteria), quindi pittura di soggetti mondani e banali, di cose piccole, di nature morte, e megalografia, o descrizione di eventi mitici o storici di significato non usuale o straordinario. Mentre la megalografia lavora a livello dell’atto eccezionale, unico, individuale, narrativo, la ropografia lavora sul piano materiale e creaturale, futile e ripetitivo. Inutile dire che la critica d’arte ha da subito disposto gerarchicamente i due livelli, facendo della megalografia il genere alto, maggiore, sublime, e della ropografia il genere basso, minore, grazioso e bello. La pittura di frutta, fiori, conchiglie, piatti, brocche e oggetti domestici in genere fu dai critici d’arte considerata inferiore alla pittura a contenuto narrativo ispirata alle Scritture, alla mitologia classica e ai grandi eventi della storia (ho ripreso le righe precedenti dai miei La filosofia delle piccole cose e Nuova filosofia delle piccole cose, Interlinea 2004 e 2014). Credo che ognuno, se dovesse attribuire un sesso a queste forme di pittura, assegnerebbe il primo al maschile e il secondo al femminile, naturalmente.
L’interruzione pubblicitaria
Invece di star lì a lamentarvi, oh donne, fate vedere come siete brave, fate bene come gli uomini e vedrete che sarete invitate e ricordate e accolte nel canone anche voi. Brogi chiama questo atteggiamento «paternalismo benevolo» e lo collega alle posizioni dell’ideologia meritocratica, criticandole educatamente, mentre a me verrebbe voglia di fare, come scrive Silvia Ballestra, una scenata, di urlare che basta, non si fa così, bisogna smetterla di non vedere e non ascoltare le donne, magari dopo aver dato loro la parola, per poi riprendere il discorso come se quella della collega fosse stata un’interruzione pubblicitaria. Ma già, il genio maschile è molto più autorevole e interessante del genio femminile. Non per questo il genio maschile, se non è di autore mediocre esaltato giusto perché è maschile, va boicottato, riconosce peraltro Brogi in maniera politicamente corretta, sì, anche se l’espressione e la modalità è antipatica a molti: non è che perché anche antifemministi, misogini, patriarcali e virili gli autori di tal fatta non vanno letti.
Si guardino i film di John Ford di Dino Risi e di Ettore Scola, si leggano i libri di Céline e Moravia o i testi filosofici di Lévinas – aggiungo – ma si conservi e si eserciti la libertà di metterne in rilievo e condannarne gli aspetti sessisti. Esattamente come ha scritto qui su Doppiozero Francesca Serra a proposito del risentimento di chi si trova escluso dal canone letterario, per es. quello elaborato da Harold Bloom: «C’è la scuola del risentimento, d’accordo, che con la furia della sua ignoranza avrebbe fatto piazza pulita dell’estetica. Ma dall’altra parte cosa c’è? Da lassù, dove Harold ci guarda insieme ai ventisei classici che ha scelto per rappresentare il canone occidentale, si vede qualcos’altro? Per caso si vede l’enorme, insopportabile narcisismo che ha fatto della critica letteraria un pollaio di maschi, giovani o vecchi, che scorrazzano in lungo e in largo come una banda di pavoni rampanti? E più grande, marmoreo è il monumento innalzato all’oggetto del loro studio, più loro stessi si levano sopra le nostre teste come palloni gonfiati da un paternalismo di bassa lega?».
Ringrazio Francesca Serra e proseguo e concludo invitando a seguire gli spazi plurimi di Brogi, anche spazi multiculturali purché non patriarcali, e a guardare e a ascoltare un capolavoro maschile-femminile, singolare-plurale: La danza delle ombre felici, oltre a leggere naturalmente l’omonimo racconto di Alice Munro – una delle 16 premi Nobel per la letteratura di fronte ai 102 maschili – in cui una bambina disabile sorretta e ispirata dalla maestra suona il pianoforte nel salotto di Miss Marsalles, dove c’è la possibilità, scrive Brogi, di «stare insieme mescolando culture e generazioni, e la possibilità di pensare identità altre». Allora, dicevo, per festeggiare questo 8 marzo nonostante Putin, si ascolti e si guardi su Youtube, tratto da Arte, La danza delle ombre felici: pace, con la musica di Willibald Gluck (da Orfeo e Euridice), nella coreografia di Pina Bausch.