Il nuovo libro di Lawrence Wright / Covid: potevamo evitarlo?

1 Ottobre 2021

La storia si sa come va perché ci siamo dentro. Eppure questo è un libro che fa male al cuore. L’anno della peste, il nuovo lavoro di Lawrence Wright, è un racconto appassionato della pandemia e dei suoi retroscena che fin dalle prime pagine si presenta per ciò che è: un catalogo di occasioni mancate, incompetenze, lutti. Il resoconto di un fallimento che in retrospettiva appare ancora più incredibile perché era già tutto scritto – nel senso più letterale del termine. 

È impossibile leggere L’anno della peste L'America, il mondo e la tragedia Covid, da poco in traduzione italiana a ridosso dall’uscita negli Stati Uniti (NR edizioni, trad. Paola Peduzzi, 349 pp.), senza ricordare che proprio Wright, uno dei migliori giornalisti d’inchiesta statunitensi, aveva dedicato il suo ultimo romanzo a un virus letale che inghiotte il mondo mentre le autorità latitano e i cospirazionismi allignano. Intitolato Pandemia, era uscito nel pieno della prima ondata di Covid – un tempismo profetico, se si considera che era stato scritto molto prima.

 

Qualcuno lo aveva accusato allora di sfruttare la catastrofe in atto, i più gli avevano attribuito doti di preveggenza che nel nuovo libro l’interessato respinge secco al mittente. “Il motivo per cui il romanzo si svolge in modo così parallelo alla realtà – scrive – è che ho letto i manuali, ho osservato le esercitazioni, ho parlato con gli esperti. Sapevano tutti cosa sarebbe successo. La consapevolezza di come un virus avrebbe sconvolto il mondo era sempre presente. Ho soltanto preso i documenti degli esperti e li ho trasformati in fiction”. E quando la fiction è diventata realtà, quel bagaglio di conoscenze si è rivelato un’arma d’indagine formidabile.

 

Lawrence Wright, 74 anni, ha il gusto degli scenari complessi e il dono dell’empatia. Ha ricostruito il ruolo di Al Qaeda e i meccanismi dell’attentato dell’11 settembre in Le altissime torri (2006) con cui si è aggiudicato il Pulitzer. In La prigione della fede (2015) si è occupato del culto di Scientology (vedi la recensione di Michela Dall’Aglio) e in Dio salvi il Texas (2019; vedi la recensione qui) ha esplorato il più controverso degli stati americani, dov’è nato e oggi vive nella capitale Austin. 

Quando smonta il quadro della pandemia e lo ricompone sotto i nostri occhi al netto delle polemiche e delle distorsioni, lo scenario acquista subito un altro spessore. Imputare l’intero disastro a Trump, lo sport preferito del 2020, si conferma una spiegazione non sufficiente. Se le sue responsabilità sono innegabili, le ragioni per cui l’America – la nazione più potente del mondo, in teoria la più preparata ad affrontare la malattia – si è ritrovata “commiserata, incapace e sconfitta”, chiamano in causa l’intero sistema.

Nato da un reportage uscito a gennaio sul New Yorker, L’anno della peste è un libro che è una lezione di giornalismo e un’appassionata dichiarazione d’amore a questo mestiere. Dai laboratori di Wuhan, i silenzi colpevoli della Cina e i sospetti su una manipolazione umana del virus, Wright ci conduce nelle grandi istituzioni civili e sanitarie degli Stati Uniti in un tour de force fitto di scienziati, politici, medici e cittadini più o meno noti. 

 

In queste pagine incontriamo Matt Pottinger, consigliere per la sicurezza nazionale, che forte di una lunga esperienza in Cina lancia subito l’allarme su Covid e vede i suoi avvertimenti cadere nel vuoto. I ricercatori Howard Markel e Marty Cetron che disegnano con tempestività una strategia impeccabile di contenimento del virus che nessuno si degna di applicare. Gli scienziati che in una straordinaria corsa contro il tempo mettono a punto il vaccino e vedono poi la campagna vaccinale esitare fino alla paralisi. La giovane dottoressa Ebony Hilton, originaria di Little Africa, South Carolina, che invano si appella su Twitter al CDC e all’OMS denunciando le disparità razziali di salute che Covid rende drammatiche. 

E per un recupero di prospettiva, ecco Gianna Pomata, italiana che ha insegnato negli Stati Uniti alla John Hopkins University e in pensione è rientrata nella sua Bologna, dove Wright la intervista online durante il lockdown. In quello che è uno dei dialoghi più toccanti del libro, la comune esperienza della pandemia incontra la dimensione della Storia svelando le sue potenzialità di cambiamento sociale. Il paragone è con la peste del Trecento – “non nel numero di morti ma nella capacità di sconvolgere il modo in cui la gente pensa”. “Da un lato – spiega la professoressa – la peste funziona come una specie di acido; dall’altro, le persone cercano di ricreare i legami, e anzi forse creano i legami migliori”. 

 

 

Più il racconto di Lawrence Wright procede e si approfondisce, più diventa evidente che in America le premesse del successo c’erano tutte. “Quando l’amministrazione Trump entrò in carica, – scrive Wright – le erano state consegnate le chiavi del più grande establishment di ricerca medica nella storia della scienza”. Peccato che l’ipotesi di una pandemia cada nell’indifferenza più totale, l’inerzia burocratica si sommi all’incompetenza e la politica completi l’opera.

Il risultato è che il manuale di pronta risposta compilato dall’amministrazione Obama va al macero, il fallimento di un’esercitazione nazionale contro un possibile contagio passa sotto silenzio e così il fatto che il Fondo per le emergenze sanitarie è esaurito. All’esplodere dell’epidemia l’America si ritrova a corto di mascherine, camici, ventilatori meccanici e nessuno ha un piano.

 

Segue il caos. Gli stati sono invitati a fare da sé perché il governo federale rifiuta di farsi carico degli approvvigionamenti. “Sapete, non siamo degli addetti alle spedizioni”, dice Trump. “È come se l’8 dicembre 1941 Franklin Delano Roosvelt avesse detto: ‘Buona fortuna, Connecticut, vai a costruirti le tue corazzate”, ribatte il governatore democratico dello stato di Washington Jay Inslee ma non c’è verso.

I clientelismi si sfrenano, i contribuenti pagano e gli ospedali boccheggiano. 

Intanto il Centers for Diseases and Control, fino a quel momento un’inossidabile certezza, si morde la coda. Le mascherine non servono. Anzi sì, ma solo ai sanitari. Anzi no, mascherine per tutti. A quel punto non se ne trova una neanche a pagarla oro. I test sono un altro disastro: pochi, lenti e uno dei componenti non funziona. Salterà fuori che sono contaminati (un funzionario definirà il laboratorio del CDC senz’altro “lercio”) ma l’FDA ci metterà settimane ad autorizzare l’uso dei kit senza il terzo componente. Nel frattempo il contagio dilaga ma non si sa dove, come e quando. 

 

Quanto a Trump, parte bene. Blocca i viaggi dalla Cina e dall’Europa, raccomanda la chiusura di scuole e locali pubblici, la limitazione di viaggi e assembramenti. Da leader si trasforma però presto in sabotatore. Rifiuta la mascherina, consiglia rimedi miracolosi, minimizza il contagio, organizza comizi. Le elezioni sono alle porte e l’economia in picchiata non gioca a suo favore. Intanto alla Casa Bianca il gioco delle fazioni è feroce. Fauci è considerato “fuori controllo”, Deborah Birx odiata. Tutti litigano con tutti e sono fra le pagine più gustose del libro. Se non fosse una tragedia ci sarebbe da ridere. 

L’aspetto più impressionante, nota Wright, è che davanti alla pandemia l’America non trova il senso di un’unità nazionale né uno scopo comune. La fiducia nelle istituzioni è a picco e vista la situazione non c’è da meravigliarsi. Ciascuno fa per sé e per i suoi. Si combatte da soli e da soli si piangono i propri morti. I veleni della lunga corsa elettorale fanno il resto. 

Le tensioni crescono allo spasmo e l’assassinio di George Floyd è la goccia finale: Black Lives Matter divampa, l’estrema destra rialza la testa e la vendita di armi vola alle stelle. “Trump sapeva che siamo una nazione rozza”, scrive Wright. La pandemia non ha fatto che portare allo scoperto l’anima del paese – la sua vena irrazionale, il disprezzo della scienza, l’insofferenza nei confronti dell’autorità e le pulsioni autoritarie, le paranoie e la profondità di certe disperazioni, le povertà.

 

Le elezioni ci hanno riportato alla casella di partenza. La perdita collettiva è immensa. “La cifra che perseguiterà gli americani è che gli Stati Uniti rappresentano quasi il 20 per cento di tutte le morti per Covid nel mondo, nonostante abbiano soltanto il 4 per cento della popolazione globale”. Le diseguaglianze e le contraddizioni sono ancora più lancinanti. La rovina sociale della working class, la perdita dei posti di lavoro e la crisi degli oppiacei sono sempre lì.

Eppure questa pandemia regala affacci preziosi sul domani. Dopo la peste del Trecento niente è stato più lo stesso, spiega Gianna Pomata. “Quel che accade dopo [...] è come un vento, aria fresca che entra, l’aria fresca del buon senso”. È il tramonto del Medioevo, il preludio alla fioritura del Rinascimento. “Credo che siamo a un altro punto di svolta – scrive Wright – e la società effettuerà un radicale adattamento, nel bene e nel male”.

 

Cosa ne sarà allora di questa nostra peste? Questo è l’anno in cui abbiamo visto la faccia peggiore dell’America ma anche il suo volto migliore – nelle lunghe file pacifiche e ordinate per andare a votare alle elezioni, nell’abnegazione di medici e infermieri, nella dedizione di insegnati e scienziati, nel lavoro oscuro dei volontari che si sono presi cura degli anziani e dei più fragili. Nella fatica delle famiglie. 

È anche l’anno in cui a Venezia si è vista l’acqua nei canali diventare trasparente, le città sono state restituite ai pedoni e ai bimbi in bicicletta e l’Himalaya ha fatto capolino dallo smog che da decenni lo offusca. Il corso delle cose riprenderà, ma forse è l’assaggio di un futuro possibile. 

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