Venezia 68. Visita guidata al cantiere Lido.
In questa seconda puntata del reportage dal festival di Venezia ci dedichiamo a Orizzonti e a qualche irrinunciabile titolo presentato fuori concorso.
ORIZZONTI
Da qualche anno a questa parte, la sezione di avanscoperta Orizzonti si è aperta sempre più a nuovi territori, sfondando i confini istituzionali col mondo dell’arte contemporanea, dove il cinema di ricerca trova linfa e soprattutto una disponibilità creativa e finanziaria che anche la produzione cinematografica più illuminata raramente può garantire. A questa ibrida sezione, quest’anno era degnamente accompagnata dalla retrospettiva Orizzonti 1960-1978, uno scavo che ha portato in superficie alcune gemme dell’underground italiano, come a mostrare le radici che innervano lo sguardo contemporaneo. L’intento è nobilissimo, il risultato un po’ rapsodico, visto che si sono privilegiati capitoli minori e primi abbozzi (alcuni preziosi, come l’esordio del grande marginale Nico D’Alessandria o il più noto Hermitage di Carmelo Bene, in cui c’è già tutto il suo furioso progetto di rinchiudersi nel cinema per farlo esplodere) piuttosto che una mappatura almeno sintetica, capace di redimere dall’invisibilità e dal culto di nicchia le scintille più resistenti di un cinema ribelle e visionario.
Ma le tante assenze sul registro sono compensate dal restauro di Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, che per fortuna non ha potuto ripulire l’instabilità dell’immagine video, il formato povero che ha permesso a Grifi non solo di emanciparsi dalle dinamiche coatte del cinema ufficiale, dove il richiamo imperioso del capitale risuona a ogni metro di pellicola sprecato, ma di far sì che il filantropismo un po’ schematico del progetto (documentare il ‘salvataggio’ di Anna, sedicenne tossicomane e incinta, prelevata dai marciapiedi di Piazza Navona da Sarchielli e ospitata in casa sua) si sfaldasse e si aprisse all’imprevisto: quando Vincenzo, l’elettricista del film, entra in campo e dichiara il suo amore per Anna, strappandola dal soggetto e lasciando emergere la sua soggettività recalcitrante, anche l’ultima infrastruttura del cinema crolla e il già permeabile set è invaso dalla vita stessa, con tutte le sue brucianti contraddizioni (perché Anna, come testimonia il discorso finale di Vincenzo, dirà no alla vita, all’amore, alla bambina). Oltre a essere un documento storico felicemente sfregiato da queste contraddizioni e uno dei momenti più importanti del cinema italiano, Anna è soprattutto un’esperienza unica in cui immergersi.
Passiamo a una drastica cernita dall’affollata sezione di Orizzonti, approfittandone per notare che una selezione più oculata gioverebbe alla ridefinizione identitaria in atto. Fa invece piacere sottolineare la coincidenza simbolica per cui la sezione è stata inaugurata e conclusa da due film diversissimi, ma accomunati da una riflessione viscerale sullo stato del cinema.
Con Cut l’iraniano apolide Amir Naderi va in Giappone per lanciare un rabbioso film-manifesto: Shuji è un regista che non riesce più a produrre film, gestisce un cineforum militante sulla sua terrazza e grida nel deserto della folla di Tokyo contro la mercificazione del cinema, che deve restare il connubio di arte e intrattenimento che è sempre stato e non “una prostituta”. Quando scopre che il fratello Yakuza ha pagato con la vita il debito contratto per finanziare i suoi film, si impegna a saldarlo offrendosi come sacco da boxe umano al sadismo dei gangster, che sganciano yen a palate per gonfiarlo di pugni. Tra squarci e tumefazioni, Shuji ripete come un mantra il suo pantheon cinematografico, incarnando il corpo-cinema immolato al denaro. L’ossessione su cui è costruito è la forza e la debolezza del film, che non manca di momenti di ingenuità (vedi la lista dei cento film sovrapposta ai cento pugni finali con cui Shuji salda il conto), ma dietro allo spirito duro e puro cova una malinconia che fa riflettere.
Tutt’altri toni e tempi si prende Siglo ng pagluluwal (“Century of Birthing”) del filippino Lav Diaz, che, con la consueta durata fluviale (sei ore) lascia permeare i suoi film dalla materia stessa del reale, distillandola nello scarno bianco e nero digitale, accogliendola nella grana sporca del sonoro, componendo per frammenti che gradualmente si stratificano in una riflessione sul cinema e sul sacro, sulla creazione e sulla violenza, ramificata in due tronconi principali: un regista che non riesce a terminare il montaggio del suo film (che è davvero un’opera incompiuta di Diaz, su una suora decisa a immergersi nella realtà attraverso l’esperienza carnale) e una setta di fanatici cristiani immersa nella giungla, chiusa nel delirio dei propri rituali spettacolari. Non è possibile riassumere qui i sottili rimandi tesi tra questi due rami, che si intrecciano nell’incontro finale tra il regista e una ex adepta, stuprata per essere liberata dal potere oppressivo della congrega. Diviso tra la melancolia per un mondo offeso e abusato e l’urgenza di una nascita sempre rinnovata, tra il timore che “il fondamentalismo distruggerà il mondo” e la certezza che “grazie al cinema ricorderemo il mondo”, Diaz ci consegna (con accenti heideggeriani) un atto di fede nel cinema come “essere”.
Arriviamo al degno vincitore della sezione, Kotoko di Tsukamoto Shinja, grande manipolatore di corpi e ossessioni biomeccaniche, che sembra qui arrivato a una felicissima maturazione e svolta autoriale. A partire da un forte investimento personale (la morte della madre, lo scambio intimo e creativo con la cantante-attrice Cocco), il regista è arrivato a incarnare la sensazione di un mondo in preda alla catastrofe. La coincidenza tellurica tra le riprese e il terremoto in Giappone è fatale, emerge dallo sconquasso delle immagini, dalla deflagrazione psichica della protagonista, ragazza madre affetta da un inquietante sdoppiamento della visione, che le fa vedere le persone scisse tra una parte buona e una cattiva e la conduce a un esaurimento nervoso in seguito al quale il figlio le verrà sottratto. Solo quando canta Kotoko ritrova un’unità, o quando taglia il suo corpo, per riafferrare una radice, il senso di una realtà che sfugge, si frantuma. Il suo attaccamento al bambino è intenso quanto il suo rifiuto degli uomini, che respinge a forchettate nelle mani; e anche quando, quasi come una compensazione allucinatoria del figlio, compare uno scrittore (interpretato dallo stesso Tsukamoto) disposto a condividere il suo disagio, il rapporto tra i due s’incaglia in una morbosità senza sbocco. Kotoko è un’esperienza intensa e lacerante, che riesce a integrare momenti di aggressione audiovisiva all’arma bianca con delicate aperture su un’intimità sconvolta, ma vibrante di poesia: sprofondare nella psicosi per stringere i nervi della realtà contemporanea.
Ma la rivelazione di questa edizione (anche se penalizzata in coda alla programmazione) è stato il primo lungometraggio di Ben Rivers, filmmaker già affermato nell’ambito di ricerca: Two Years at Sea è un omaggio e un ritorno all’amico Jake Williams (già protagonista del corto This Is My Land), eremita contemporaneo che vive nel cuore di una foresta scozzese. Il suo cottage sgangherato è un bricolage di rottami invaso dalla natura circostante, così come “casa” per Jake diventa ogni luogo in cui lo portano i suoi vagabondaggi: la pellicola di Rivers accoglie tutta la dilatazione spaziale di questo ritratto/paesaggio nel suo formato anamorfico, con pazienza geologica lascia depositare ogni molecola di tempo, che palpita nello splendore grezzo e incrostato del 16mm bianco e nero (orgogliosamente sviluppato in casa). L’approccio apparentemente documentario, nasconde una vena sottilmente visionaria (come nella scena in cui la roulotte di Jake viene misteriosamente sollevata in cima a un albero), che è parte integrante della poetica di Rivers, affascinato da queste esistenze distaccate, deterritorializzate: la sua visione post-apocalittica, immune da romanticismo o pessimismo, testimonia di un cinema resistente, che fa ben sperare per il futuro.
Sul fronte documentario segnaliamo un paio di titoli. Un pioniere del cinema in prima persona come Ross McElwee propone in Photographic Memory una coinvolgente riflessione generazionale e teorica, che affianca il suo difficile rapporto col figlio adolescente al confronto fra memoria analogica e digitale e sfocia in un viaggio che lo riporta nella Bretagna del suo apprendistato fotografico, dove scoprirà che i ricordi fissati sulla sua pellicola nascondono enigmi irrisolti, con cui dovrà confrontarsi. Con I’m Carolin Parker: the Good, the Mad and the Beautiful, Jonathan Demme condensa cinque anni di visite a una splendida regina del Lower 9th Ward, sobborgo disagiato di New Orleans, per tracciare un indignato diario del dopo-Katrina che è anche un ritratto ardente di normalità rivoluzionaria. Mentre la ricostruzione s’infanga tra false promesse e indifferenza, la camera a spalla di Demme viene sempre più magnetizzata dalla tenacia e dalla traboccante umanità della signora Parker, feroce angelo della comunità, che rioccupa da subito la casa ancora in rovina e protesta perché ai cattolici afroamericani venga restituita la propria chiesa. Un bell’esempio di cinema personale e civile al contempo.
In mezzo alla bella selezione di cortometraggi, segnaliamo un paio di titoli, senza dimenticare che Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi hanno presentato i loro appunti acquarellati per un film a venire, resoconto del loro viaggio in Russia alla fine degli anni ‘80, alla ricerca delle tracce e dei superstiti dell’avanguardia artistica degli anni venti (Notes sur nos voyages en Russie).
Mark Lewis in Black Mirror at the National Gallery, attraverso un complesso dispositivo, in una danza magnetica tra la camera che inquadra e uno specchio che riflette i dipinti, invade le sale fiamminghe pinacoteca londinese, offrendo con la sua consueta sobrietà una riflessione en abyme sul rapporto tra cinema e pittura, un motivo centrale per un artista che concepisce i suoi film quintessenziali come “moving pictures”, quadri in movimento. Altra presenza da segnalare, nel territorio interstiziale tra cinema e arte contemporanea, è quella di Ben Russell, che eredita l’approccio etnografico-sperimentale di Maya Deren e Jean Rouch, adattandolo ai nostri tempi, all’approccio critico dei post-colonial studies, all’estasi profana del noise rock (Black and White Trypps #3), al dominio del capitale globale (Workers Leaving the Factory – Dubai): in River Rites, presentato qui a Venezia, è un piano-sequenza estratto dal materiale girato in Suriname per il suo primo lungo (Let Each One Go Where He May), in cui la macchina da presa si muove sinuosa tra gli abitanti di un villaggio saramacco che si bagnano in un fiume. Ma il flusso delle immagini è stato invertito e in un’atmosfera di sospensione estatica emerge il volto straniato di gesti quotidiani, mentre le figure sono inghiottite e sbocciano dall’acqua: un vecchio trucco cinematografico testimonia l’inesausta potenza rivelatrice del cinema.
FUORI CONCORSO
Una celebrazione (per il centenario della nascita dell’autore) atipica e dinamitarda è stata la presentazione del restauro di We Can’t Go Home Again, testamento esploso del cattivo maestro Nicholas Ray. “Il cinema è Nicholas Ray” sentenziava il giovane critico Godard negli anni ‘50, ma il sessantenne regista di Gioventù bruciata e Johnny Guitar, finito dal ‘71 al ‘73 a insegnare cinema in un’università newyorkese, con questo film perennemente in progress, anche in questa versione “definitiva”, è andato oltre il cinema: benda sull’occhio, come il capitano di un vascello ammutinato, Ray trascina con sé i suoi studenti in un’impresa di rottura radicale, lasciandosi a sua volta attraversare dalle esperienze di questi nuovi ribelli orfani della causa, dall’estasi psicotropa e dalla disperazione esistenziale degli anni in cui Nixon sorgeva e l’onda del Movement andava ad infrangersi. Ne esce un oggetto fuori da ogni categoria, che Ray continuò a rimontare fino alla morte: un polittico psichedelico, dove lo split-screen moltiplica, incrocia, macina tutto, dal documentario diretto alla colorizzazione elettronica, offrendoci lo specchio rotto di una generazione che ha perso la verginità, un autoritratto espanso, dionisiaco, in cui il cinema si fa a pezzi per rinascere.
Dopo l’esperienza proustiana de La Captive, Chantal Akerman torna alla letteratura con La Folie Almayer, riducendo all’osso il primo romanzo di Jospeh Conrad e rimpolpandolo con immagini potenti che grondano follia tropicale: nell’intrico di una giungla impenetrabile la cultura europea manca l’incontro con l’Altro e si smarrisce, sprofondando in un pantano fluviale insieme alle proprie ambizioni. Almayer è vittima delle illusioni che lo hanno portato a stabilirsi in questa giungla alla ricerca di un’introvabile miniera e, per ottenerne il fantomatico possesso, ad avere una figlia da un’indigena che detesta; ma il marchio della sua abiezione è l’ossessione per la figlia Nina, la volontà di strapparla alle sue radici e farne un’europea, che condurrà invece la giovane meticcia a subire un’educazione repressiva in città, a perdersi in essa e ritrovarsi nella passione per un giovane criminale che la porterà sempre più lontano da Almayer. Akerman estrae e dilata gli episodi del romanzo, per immergere la trama coloniale in una sospensione atemporale e archetipica, in un punto volutamente imprecisato tra la Malesia del romanzo e la Cambogia del set: l’ispirazione, ha dichiarato, arriva dalla coincidenza tra la lettura di Conrad e la visione di Tabu di Murnau e Flaherty, ma i confini di questa palude visiva sembrano toccare anche autori contemporanei, come Lav Diaz o Apichatpong Weeresethakul.
Dopo aver esplorato La Danse dell’Opera di Parigi e una Boxing Gym texana, il grande maestro del documentario d’osservazione Frederick Wiseman continua la sua personale mappatura dei corpi in movimento, addentrandosi affascinato dietro le quinte del Crazy Horse: il suo sguardo silenzioso, meticoloso decostruttore di spazi sociali e istituzionali, sembra a tratti lasciarsi contagiare dalla filosofia della seduzione e della celebrazione della donna professata dallo staff, dalla professionalità e dall’ambizione estetica con cui il corpo femminile viene amministrato e sublimato nei numeri dello show, che Wiseman riprende con inquadrature mozzafiato. Ma oltre a essere un sapiente studio di luce e movimento (che non a caso si apre e si chiude con una performance di ombre cinesi), il film, attraverso questa apparente adesione, riesce a rendere sensibilmente la chiusura autistica di questa istituzione spettacolare, divisa tra il peso illustre del proprio passato e la continua ricerca della perfezione. Il primo agghiacciante varieté filmato da Wiseman, nel manicomio criminale di Titicut Follies, sembra così distante, ma forse non lo è.
Sempre fuori dai concorsi e da ogni categoria, concludiamo con qualcosa che è meno e più di un film: un gesto politico che dal silenzio recluso di un appartamento grida la libertà del cinema. This Is Not a Film di Jafar Panahi è un oggetto resistente e sovversivo, girato clandestinamente in casa del regista, mentre attende la sentenza con cui il regime iraniano lo condanna al carcere e all’interdizione dalla professione per i suoi film scomodi, e poi inviato oltre confine in un hard-disk nascosto in una torta. Il film costruisce per frammenti la quotidianità alienata del regista, che fa colazione, parla con l’avvocato, osserva l’iguana di casa arrampicarsi per la casa, convoca un amico documentarista per fare qualcosa: qualcosa che non sarà un film, perché è vietato, ma servirà a liberarsi attraverso le immagini da questa assurda e deprivante prigionia. La clausura domestica comincia a vibrare mentre il film si genera: Panahi, rivede alcuni momenti dei suoi film in cui la realtà si libera e gli sfugge di mano, come vorrebbe fare lui stesso, comincia a leggere la sceneggiatura del film che non può girare e arriva a rappresentarla in salotto, tracciando la scenografia con del nastro adesivo sul tappeto. Continua a chiedersi cosa stia davvero facendo, ma continua a farlo: finché l’incontro sul pianerottolo con il custode lo spinge fuori di casa, sull’ascensore a parlare delle prospettive di questo giovane studente d’arte e infine fuori, in cortile, dove in strada bruciano fuochi che sembrano di rivolta, anche se sono solo quelli del capodanno persiano. Ma il respiro del reale, che emana dai film di Panahi e degli altri maestri del cinema iraniano, ci insegna che tutto può accadere.
Per chi fosse arrivato alla fine di questo lungo articolo e non ne avesse ancora abbastanza, rimandiamo per approfondimenti alla corrispondenza speciale da Venezia curata dal periodico on-line FilmIdee, alla quale ha partecipato il sottoscritto.