Molteplicità dell’io / La sapienza della follia
Nicolas Dissez, nell’ouverture di questo libro collettivo sulla sapienza della follia (Il sapere che viene dai folli, DeriveApprodi, 2017, a cura di N. Dissez e C. Fanelli), scrive: «Poiché la follia è parte integrante della nostra umanità, può insegnarci molto su noi stessi. È la scommessa di questo testo: che il sapere che vi si dispiega possa permetterci d’interrogare in modo nuovo i grandi campi della conoscenza quali sono i nostri modi di concepire il linguaggio, l’amore, la coppia, il corpo, la bellezza, lo sguardo, l’universo femminile, la rappresentazione o ancora lo spazio e il tempo… accettando però che la follia non si lascia mai rinchiudere in un sapere costituito». Nessun sapere costituito, dunque, ma un intreccio di molteplici saperi dove avventurosamente si dirama il pensiero.
Con l’esperienza di Nietzsche, il filosofo rende visibili i sintomi della follia e il pensiero si mostra non solo come attività logica ma come azzardo del corpo e della mente. Crolla il luogo comune, ben radicato da Descartes in poi, che la follia sia una condizione che rende impossibile il pensiero. Il rischio di impazzire diventa intrinseco all’esercizio stesso della ragione. Nessuna logica può trincerarsi nel possesso di se stessa: incontrerà sempre insidie, pericoli, illusioni, terre ignote. Il percorso della conoscenza costeggia le sponde di una non-ragione dalla quale si salva con la volontà risoluta di mantenersi vigile, con il proposito, utopico, di dedicarsi “soltanto alla ricerca della verità”. Scrive Foucault: «Poco importa il giorno esatto dell’autunno 1888 in cui Nietzsche è diventato definitivamente pazzo, e a partire dal quale i suoi testi appartengono non più alla filosofia ma alla psichiatria; tutti, compresa la cartolina postale a Strindberg, appartengono a Nietzsche e sono imparentati con La nascita della tragedia. Ma non bisogna pensare tale continuità sul piano di un sistema, di una tematica e neppure di un’esistenza: la follia di Nietzsche, cioè lo sprofondamento del suo pensiero, è ciò che permette a tale pensiero di aprirsi sul mondo moderno». Durante l’intero percorso della sua scrittura, dalla giovanile Nascita della tragedia fino agli ultimi «biglietti della follia» indirizzati da Torino a vari destinatari (tra cui lo scrittore svedese August Strindberg), Nietzsche sceglie di confrontarsi con la “possibilità della pazzia”, feconda come idea universale che destruttura i concetti, sterile come sintomo individuale che tronca ogni linguaggio vivo.
I saggi di questo libro collettivo affrontano la “possibilità della pazzia” non come una regione oscura da controllare o da recintare ma come una grande zona d’ombra da cui si irradiano luci diverse e perturbanti. L’attenzione si orienta sull’opera di diversi psicoanalisti, da Jacques Lacan a Pavel Czermak, che lasciano emergere dalla pratica della non-ragione paradossi di un nuovo sapere, linee di forza “altre,” imprevedibili curiosità. Il libro è un manuale di eccentrici insegnamenti clinico-filosofici, e i titoli di alcuni capitoli sembrano confermarci la volontà di un dialogo della ragione con le forze che le si oppongono: L’uomo dalle parole imposte; La significazione nella psicosi; Il neologismo tra linguistica e psichiatria; La grammatica dei folli; Non è il dubbio ma la certezza a rendere folli; Lo spazio è il luogo da cui si parla; La dimensione del tempo nella follia; La bellezza, per errore; Quando il linguaggio non morde sul corpo; Chi è padrone del corpo? I folli, precursori della modernità; La sindrome del doppio; La follia come limite della libertà.
In questo libro il folle appare come un nostro fratello, che si è liberato, mentre noi siamo rimasti alienati dentro la conformità delle nostre vite. Ma le riflessioni non sono limitate a questo schematico capovolgimento, e passano attraverso il tema del doppio, del corpo, delle funzioni neurologiche e mentali. Cito da alcuni esempi clinici disseminati nel libro: «A 6 anni, guardavo gli edifici e le ombre. Si è fatta strada l’idea che c’era qualcosa da scoprire dietro le cose, che le cose si prolungavano. È una certezza di bellezza, una ricerca di senso. La foschia è ingannevole, qualcosa è rimasto, occorre spostare lo sguardo per vedere qualcos’altro oltre la verità sulle cose». Trapela la straziata, ricchissima “verità” dell’essere folle e la conseguente “povertà” dell’essere sano. Leggendo il libro, sentiamo di conferire alla figura del matto il ruolo di sentinella dell’invisibile.
Ma spesso è un “invisibile” cristallizzato in certezza negativa. «In che anno siamo? Non ci sono anni. Che secolo? Non c’è alcun secolo. Non c’è niente». La salute della mente sembra più una debolezza che una forza, più una cecità che una luce. «Io non ho vita, prendo la vita all’altro, è questo che cerco». Gli autori, da diverse sponde del pensiero e della clinica, ragionano di un equilibrio assente fra soma e psiche, dove spaventa la presenza assoluta di un corpo che non “parla” più col mondo. Emblematica è l’analisi della “Sindrome di Cotard”, dove il soggetto depresso arriva a non parlare, non mangiare, non defecare, non urinare, arrivando ai limiti del morire. Il suo essere non è più vivo nel linguaggio (il “parlessere” di cui scrive Lacan), ma è senza fessure, come una sfera separata dal mondo, e quindi il reale assomiglia solo a se stesso, all’Uno, senza la differenza dell’io. Ma, dove invece la follia è un tentativo di sottrarsi alle griglie del reale, alle sue sterili maschere, l’esperienza di impazzire assomiglia a quella del veggente che sposta il suo sguardo oltre i confini delle cose. Filosofi e clinici, in questo libro, osservano il peso della parola del folle e la sua potenziale rivolta. Sembra che rimpiangano di essere sani e provino la sottile nostalgia di leggere il mondo con la voce dell’altro. «Ho un’autentica voliera nella testa… uccelli blu o grigi… non so come fare con tutte queste frasi che mi assalgono».
A lettura ultimata del libro si comprende come l’esperienza di chi osserva la follia sia un’esperienza di condivisione, come stare sullo stesso ponte sottile e, pur provando l’ebbrezza di oscillare e la paura di poter cadere, restare in bilico, raccontare della vertigine, non sprofondare nell’abisso. La caduta è un grido, che si trasforma in un assoluto senza parole. Le parole appartengono a chi resta.
Scrive Jean-Jacques Tyszler: «Oggi, senza il riconoscimento umano della follia, è l’umano a sparire. Quel che dice il folle non sembra interessare gli psichiatri e gli psicoanalisti. Lo psicotico è il solo a sapere che la libertà non esiste: noi riceviamo il nostro messaggio dall’altro». Se dalla psicosi è assente l’io, un io occorre pur trovarlo, nella molteplicità dell’osservare e dell’osservarsi: «Com’è che non avvertiamo tutti che le parole da cui dipendiamo ci sono in qualche modo imposte? Ecco dove un cosiddetto malato va talvolta ben oltre un uomo definito in buona salute» scrive Lacan. Gli fa eco un paziente. «Non c’è qualcosa di pensato, arriva con il contatto, arriva tutto d’un colpo, sono delle frasi parassite che vengono ad innestarsi…Non ci sono più limiti, ho fatto questo, ho fatto quello, allora la vita è dettata…». Il folle ci mostra che l’uomo non è mai libero: che può essere guidato, comandato, arpionato dalla voce di un Altro divorante, che desidera la morte più della vita.
I pazienti psicotici sono ferite visibili, spesso cicatrici inguaribili: testimoniano che il tentativo dell’uomo di darsi un’unità somatopsichica non è cosa né acquisita né ovvia. Ognuno di noi è un luogo frantumato e parzialmente “riparato”. E ognuno di noi contiene virtualmente in sé diverse personalità che, a seconda delle circostanze, rimangono allo stato di latenza oppure vengono attualizzate, come testimonia il pensiero nietzschiano. Basterà richiamare alcune delle sue frequenti asserzioni in proposito: «Riconosciamo l’uomo come una pluralità di esseri animati […]. Secondo l’ambiente e le condizioni della nostra vita, un istinto emerge come il più stimato e il più dominante; in particolare, pensiero, volontà e sentimento si trasformano in suoi strumenti». E ancora: «Il concetto di “individuo”, di “persona”, contiene un grande sollievo per il pensiero naturalistico, che si sente soprattutto a suo agio con la tavola pitagorica. In realtà si annidano qui dei pregiudizi […]. Io ho usato una volta l’espressione: “molte anime mortali”, allo stesso modo che ognuno ha materiale per più personae».
La follia delle “persone” che ci affollano, ci esaltano, ci confondono, impone sempre nuovi interrogativi. Ma le procedure burocratiche e le prescrizioni restrittive tentano di ridurla al silenzio. Questo silenzio resta sempre ricco di voci, di ipotesi. La follia non è un deficit, un errore, una macchia da cancellare: è la virtualità permanente di una ferita aperta. Ancora secondo Lacan «l’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà». Chi riesce ad acquisire dalla psicosi nuovi elementi di conoscenza, riesce a guarire e a guarirsi: vive l’altro non fuori di sé ma dentro di noi, grazie a una riduzione del dolore individuale a favore delle rappresentazioni simboliche e artistiche che sempre ci trascendono. Se la mente non è invasa, e quindi imprigionata, dalla psicosi, ma è pervasa da pensieri psicotici, analogici, fluttuanti, la strada è quella giusta. Non sembra un caso fortuito che Gaetan Gatian de Clérambault, il solo psichiatra riconosciuto come maestro da Lacan, divenisse celebre oltre che per la sua concezione di “automatismo mentale”, studiando la dissociazione psichica nelle prime irruzioni psicopatologiche, anche per la descrizione dell’amour fou, l’amore che trasforma l’Altro da sé in un demone implacabile, irriducibile a qualsiasi realtà. De Clérambault chiuderà la sua vita non come psichiatra ma come fotografo, misterioso ritrattista di donne arabe velate. L’arte, nel suo spazio molteplice, può anche rappresentare ciò che è segreto (in questo caso il volto) attraverso le maschere che lo dissimulano e lo rivelano.
Il sapere che viene dai folli (DeriveApprodi, 2017) a cura di Nicolas Dissez e Cristina Fanelli.