Beatrice Pediconi / Diario di un tempo sospeso

24 Aprile 2021

Quale traccia lascia un ricordo?” si è domandata Beatrice Pediconi (Roma, 1972). E da questo interrogativo ha preso le mosse per i suoi recenti lavori, ora in mostra nella Galleria z2o | Sara Zanin. Domanda elaborata dopo un’importante perdita, che è stata la spinta a sperimentare, provare, forzare, ancora e ulteriormente, la propria espressione artistica. Che, sin dalle primissime creazioni, ha immediatamente attraversato discipline differenti. Una sperimentazione, quella di Beatrice Pediconi, che la pone nella zona di confine tra un linguaggio e l’altro. Area liminale che le permette di muoversi liberamente pure tra media diversi. Sfuggendo, in questo modo, dalle strette categorizzazioni che la vedono, infatti, variabilmente definita e altrettanto mutevolmente accolta addirittura in mostre di sola fotografia. In questa no man’s land Beatrice Pediconi ha realizzato la serie che rappresenta l’inizio di una nuova fase, un’ulteriore evoluzione di quanto finora realizzato. Seppur qualche piccolo cenno è stato esposto a New York, dove vive ormai da molti anni, tuttavia è proprio a Roma, nella sua città natale, che ha voluto presentare il corpus di lavori Nude, a cura di Cecilia Canziani. Nella costante della linea, del segno, di nuovo l’artista ci pone di fronte a qualcosa che non è come appare.

 

E, di nuovo, nella coerenza della sua prassi e della sua ricerca, fondamentalmente basata sulla decostruzione del media individuato e indagato, ci mette davanti a un racconto intimo, personale, fatto di emozioni, di sguardi, di quesiti. Come per le precedenti mostre (Dimensioni Variabili del 2017 e Red del 2012), anche il titolo è qualcosa da manipolare, modificare, cambiare. Nel 2012 dall’iniziale Untitled approdò a Red, creando altresì uno spiazzante cortocircuito visivo, dal momento che la tinta predominante dei lavori era il giallo. E anche nel 2017 da Untitled giunse a Dimensioni Variabili, dove espose delle opere realizzate con tutte le tecniche da lei esplorate, dalla pittura alla fotografia, al video e all’installazione, attestando, in maniera inconfutabile, la sua pratica interdisciplinare che sin dagli inizi la contraddistingue. Un’interdisciplinarità che in 9’/Unlimited del 2013 da Collezioni Maramotti, ha dimostrato di saper padroneggiare con assoluta disinvoltura, attraverso una videoinstallazione ambientale immersiva di notevoli dimensioni, che avvolgeva il visitatore in una calda atmosfera leggera e ovattata. Allora, ad essere decostruita fu la pittura, il cui tratto, non più rigorosamente steso su un supporto rigido, era (illusoriamente) lasciato libero su una superficie in movimento e in balia dell’acqua stessa, che ne determinava forme, scie, grazie, evoluzioni.

 

Beatrice Pediconi, Installation view, ph Giorgio Benni.


In realtà, ogni “lancio” di colore (effettuato con pennelli, spatole, siringhe) era preceduto da un’accurata ricerca dei materiali (tempera nera o bianca, olii, pigmenti di argento, di bronzo e tante altre sostanze), lungamente studiati e calibrati in base alla densità del fluido colorato e del liquido cristallino che doveva accoglierli. Fotografie e video ogni volta registravano la mutevolezza della “pittura nell’acqua”, l’attimo della fulminea e transitoria visione. E all’acqua era affidata l’attività di dare vita e essenza non soltanto all’idea del movimento, ma anche al concetto del divenire e dell’imprevisto. Stavolta, con Untitled Nude, è la fotografia stessa ad essere esaminata, indagata, decostruita, sondata fino alle viscere, nella sua valenza di tecnica, di medium e di immagine. Riprendendo il suo vecchio amore per le polaroid (che l’aneddotistica vuole creata su impulso del figlio dell’inventore Edwin H. Land che chiese al padre perché non potesse vedere subito la foto scattata), adoperate dall’artista anche per documentare le evoluzioni della propria pittura mobile e mutante, l’emulsione delle fotografie istantanee diventa medium per i suoi lievi e sinuosi segni. Mantenendo fissi alcuni elementi, quale l’acqua (elemento primario e simbolo di vita e rigenerazione, evocativo del liquido amniotico), e alcune modalità, quale l’azione fisica, ha dato corpo a un inedito “processo di sviluppo”.

 

Beatrice Pediconi, Diario di un tempo sospeso, 2020.


Non più in una camera oscura, con vaschette e liquidi rivelatori e fissaggio dell’immagine latente su carta sensibile, ugualmente ha “sviluppato” dei segni. Anziché carta sensibile, si è servita di fogli di carta Arches da acquerello cotone 100% da 365 gr da lei stessa ritagliati a mano; al posto delle vaschette, ha impiegato una vasca e, invece dei liquidi rilevatori e fissaggio, ha usato taniche e taniche di acqua distillata per catturare le immagini-segno. Facendo propria una tecnica variamente adottata da John Reuter, Sergio Tornaghi, Peggy Hartzel e Anna Tomczak, Beatrice Pediconi, anche in questo caso, ha dato una personale interpretazione al procedimento dell’emulsion lift. Sostanzialmente consiste nel distacco dell’emulsione esclusivamente delle fotografie istantanee, attraverso la quale si separano gli strati della pellicola autosviluppante, per riposizionarli su un cartoncino e ottenere così degli effetti artistici. Ma, anziché mettere in atto una trasposizione tal quale dell’immagine prelevata, Beatrice Pediconi, interessata ai momenti di transizione, al passaggio da uno stato a un altro, con la stessa gestualità dello sviluppo manuale delle fotografie, riduce lo strato dell’emulsione a una linea. E mediante movimenti flessuosi e ondulatori, variamente la dispone sul foglio di carta.

 

Una linea, un segno, un’esile traccia, un’impronta che leggera si libra nel foglio, a volte pressoché impercettibile, che però occupa una decisa posizione nell’ampia distesa bianca della carta e assume una propria definizione filiforme, peculiare nella sua unicità. Un segno intorno al quale è lasciato un ampio vuoto o un ampio respiro. Emulsioni prelevate da polaroid di precedenti lavori che tramuta in qualcos’altro, di inedito, nella forma quanto nelle soluzioni espressive. Impossibile non registrare l’ossimoro esistente tra la restituzione visiva di questa serie, tutta impostata sull’apparente leggerezza e ariosità, e la sua causa generatrice, strettamente correlata a un lutto, a un dolore, a un’assenza. Ogni elemento è investito, così, di nuove e ulteriori valenze. L'assenza e il degrado della memoria, come l’oblio, sono concretizzati col grande foglio bianco; l’azione di separazione accenna al distacco personale; la linea è la traccia di una storia, di un’esistenza, di un passaggio. Invero le linee, osservate da una distanza ravvicinata, perdono la loro assoluta astrazione perché racchiudono, al loro interno, dei piccoli universi, minuscoli elementi di significato compiuto quale un lampione o un pupazzo, evocazione di una situazione, di un momento. 

 

Beatrice Pediconi, Nude, Installation view, First room, ph Giorgio Benni.


Il tema del passaggio tra distruzione e creazione, che riflette la condizione transitoria dell’essere umano, centrale nella ricerca di Beatrice Pediconi, ha acquistato un nuovo senso nei mesi del lockdown, mesi che, improvvisamente, come tutti, l’hanno relegata nelle mura domestiche. Ma, trovandosi a Roma, quelle non erano le mura familiari della sua casa, e la pandemia ha maggiormente accentuato la valenza del concetto della precarietà dell’essere umano. Da tali premesse è nato “Diario di un tempo sospeso”, composto da 43 emulsioni. Seppur non è cronologicamente il primo lavoro della serie in mostra, per il significato e il valore assunti, ancor più per la pandemia, per essere il “recupero di qualcosa che faceva parte del mio passato e trasformato”, la memoria di qualcosa, è quello che accoglie il visitatore al suo ingresso nella galleria. 43 pagine, quanti sono stati i giorni di chiusura totale. 43 giorni di pensieri, angosce, riflessioni, domande. Anche questa è un’ulteriore costante dell’artista: la creazione di un diario (già con Something Alien, 2016), ogni volta in forme diverse, ma che, comunque, attestano una storia, uno scorrere del tempo, un fissare un momento.

 

Sara Zanin e Beatrice Pediconi, Nude, Installation view, Third room, ph Giorgio Benni.


Nelle altre due sale della galleria si dispiegano gli altri lavori, di diverse dimensioni (ognuna con un dispendio di energie e sforzo notevole), con o senza cornice, tra cui anche quello che ha dato avvio a questa nuova serie che, seppur nata da un momento triste e difficile, riesce a mantenere e trasmettere un senso di leggerezza e serenità, scrollandosi di qualsiasi residuo di malinconia. E di contro alla domanda iniziale che si è posta Beatrice Pediconi che è all’origine di questi lavori, davanti al risultato finale non possiamo che domandarci: è fotografia?

 

Beatrice Pediconi – Nude, a cura di Cecilia Canziani, dal 5 febbraio al 15 aprile 2021, z2o Gallery | Sara Zanin, via della Vetrina 21 - Roma

orari: lunedì - sabato 13-19 (o su appuntamento) nel rispetto delle vigenti norme anti covid

info: t. 06-70452261 - www.z2ogalleria.it - info@z2ogalleria.it

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