Verona / Paesi e città

25 Aprile 2011

Da qualche anno vivo nella città dell’Amore, a Verona. Credo che la propaganda comunale l’abbia definita così per via di un balcone: Giulietta, Romeo, la tragedia di Shakespeare… Tutto il mondo conosce a pezzi e bocconi la vicenda. E gli amori sfortunati sono sempre degli ottimi stimolanti per sciogliere le ghiandole lacrimali degli uomini e delle donne di ogni latitudine. Così tutti, innamorati o solitari, da Shangai a Los Angeles, desiderano stare almeno un minuto sotto il balcone di Giulietta, con gli occhi velati di malinconia, fotografando l’assenza, pigiati in uno spazio minuscolo, incatenati al palo della Storia e dell’arte.

 

Ma non solo. Tutti vogliono lasciare un segno del loro passaggio, una traccia della loro esistenza. Per questo i muri dell’androne sono interamente ricoperti di meravigliosi messaggi: dall’universale “I love you” a frasi amorose comprensibili solo a qualche migliaio di abitanti della foresta amazzonica… Non bisogna sottovalutare la Conquista, Cortés, Bartolomé de Las Casas, i missionari gesuiti e che cosa può l’amore cristiano nei confronti di bipedi ritenuti a fatica esseri umani. Del resto, la radice della tragedia amorosa non la dobbiamo certo ai guaraní o agli antichi greci.

 

Forse Verona è la città dell’Amore perché, oltre al balcone di Giulietta, è la sede di mille parrocchie, dove la ricca borghesia veronese, aperta al mondo come un’ostrica, si reca ad amare il suo prossimo come fosse l’ultimo indio sopravvissuto al turismo di massa, o alla deforestazione delle anime in cerca di una casa popolare. Ma l’amore cristiano, anche quello meno gesuitico, produce poi strani cortocircuiti.

 

Un infermiere si rifiuta di assistere un malato senegalese. Un conducente di autobus non si ferma a raccogliere alcuni passeggeri di colore. Alcuni figli di buona famiglia ammazzano un ragazzo in centro storico, colpevole di portare i segni di una tribù nemica: un orecchino, una coda di capelli troppo lunghi. Una signora di bella presenza, genuina e autentica come una zolla della sua campagna, si stupisce che i “negri” possano depositare dei soldi nella sua stessa banca e li vorrebbe tutti ammassati in via XX settembre, nel “Bronx”, dove abito e dove un italiano è merce rara, come uno di quei cani di razza che nel centro storico a decine guardano i negozi in preda a un consumismo ancora più canino di quello dei loro padroni. Mi dico: è la tragedia dell’amore! Infermieri, conducenti, figli di buona famiglia, signore dal conto in bianco ne hanno troppo e non riescono a trovare il modo di donarlo!

 

Forse Verona è la città dell’Amore perché a causa di questa tragica sovrabbondanza è un bordello. E, come ogni bordello sorto sui resti di una città apparentemente liberata dal permissivismo, quello veronese è frequentato da professionisti cocainomani e giovani universitarie costrette dalla concorrenza di segretarie, commesse e aspiranti comparse alla serata finale del Festivalbar, ad acquistare senza sosta nuove griffe. E come ogni bordello ricco e cattolico, anche quello veronese possiede la sua coltre di silenzi, la sua élite politica, la sua mafia economica, i suoi riti di iniziazione, la sua polizia zelante, le sue leggi. Per tutti gli altri c’è il grande supermercato della prostituzione en plein air… L’infinito repertorio dell’Europa centrale, delle ex repubbliche sovietiche, dell’Africa subsahariana, dell’America Latina, dell’Estremo Oriente meno industrializzato, con le sue proteste di quartiere, le levate di scudi, le manifestazioni cittadine, le liste di proscrizione, i parroci moralizzatori, i fedeli che si scambiano un segno di pace.           

 

Ma forse Verona è la città dell’Amore perché, oltre al balcone di Giulietta e allo straripante amore cristiano per il prossimo, c’è l’Arena, un antico teatro romano dove ogni anno si tiene la più importante stagione lirica del mondo. Verdi, Puccini, il melodramma, tenori, soprani, cornificazioni, delitti efferati, intrighi, roboanti proclami di vendetta, inchini di reietti in cerca di allori, insomma la quintessenza italiana della tragedia, che è sempre una tragedia d’amore, dove qualcuno muore o viene lasciato morire perché il suo inquisitore non riesce, per quanto alzi il tono della voce o gesticoli come un forsennato, a dimostrare alla sua vittima tutto il suo affetto, la sua bontà, il suo senso di comunione. E, in effetti, ci vorrebbe una lingua meno affettata, meno rosa dai demoni della retorica, perché questa disperazione non sfoci in un delitto. Si tratta di una tragedia nella tragedia. Ma una tragedia al quadrato è una farsa, un vaudeville nero. E il suo ambiente più idoneo è un bordello en plein air a forma di antico teatro romano nella città italiana con il più alto tasso di missionari nel mondo che per quanto spaccino la loro religione come la religione dell’amore, non sono ancora riusciti a convincere i loro concittadini che Bartolomé de Las Casas più di cinquecento anni fa, al tempo della Conquista del Nuovo Mondo, aveva ragione, che quegli esseri di altri continenti che a migliaia si aggirano per la città dell’Amore non sono homunculi idolatri, cannibali, o servi a natura che devono essere sfruttati o spontaneamente sottomettersi ai domini veronesi… A meno che questa mia breve nota non sia una citazione tratta da un’opera apocrifa e mai ritrovata del sacerdote sivigliano, la sua Brevissima relazione sulla distruzione dell’Occidente.

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