Speciale
Verosimiglianza e liquefazione / Post-verità. La fine della verità o la verità nei post?
Avevo cominciato a raccogliere articoli sulla post-verità successivi all’ingresso del termine nel dizionario di Oxford. Come per i superalcolici, ho dovuto smettere. Troppi, la maggior parte dei quali maledettamente nocivi. Sembra che la questione appassioni chiunque, e per ragioni non sempre uguali, anzi il più delle volte contrapposte. C’è chi rimpiange la verità che non c’è più, dando la colpa della sua dissipazione a destra e a ultradestra. E c’è chi inneggia a un post- che più che ‘dopo’ sembra indicare i contenuti pubblicati su blog e social (“vorrei ma non posto”, canta il post-saggio). La post-verità è la fine della verità o la verità nei post? Per amor di significante, secondo certuni le cose coincidono. Così, c’è chi lancia strali contro le imposture, e chi sostiene che la verità è la vera impostura. Le bufale spopolano, come anche i loro cacciatori. A risentirne sono le mozzarelle, verso cui, peraltro, si dirigono i sospetti dei gourmet consapevoli. Che le bufaline siano una bufala? Povero Gesualdo. E l’alétheia greca, ormai postata nei Quaderni neri, che fa? gioca ancora a nascondino?
Si potrebbe continuare con i birignao, tutti attestati, tutti in odor di sanità. E allora facciamolo, quanto meno per ricordarne uno importante, che baratta la post-verità con la post-verificabilità. A saltare non è l’adeguamento delle parole e delle cose, a cui non credono manco i nipotini di Tommaso, ma la verifica quotidiana dei fatti: ossia la corrispondenza rassicurante fra il dispaccio di agenzia e l’enciclopedia che sta in redazione. Come mai? Per colpa di Internet che ci subissa di wikipedie? Macché. Piuttosto, le grandi testate anglosassoni, tagliando posti (ah!), chiudono il loro Ufficio Verifica dei Fatti, affidando al biondino tatuato con voucher d’ordinanza il compito di surfare a più non posso sul web; e quello, strafatto dalle canne, va su Facebook a sparare like con i compagni d’asilo. Insomma, la verità vera costa parecchio, e lavorando di spending review si finisce per congedarsi da essa. Come Vattimo nel titolo di un suo libro. Dal canto suo Jay McInerney, nelle Mille luci, preferiva la bianca boliviana all’erba di casa mia: e lavorava proprio a controllare la fattibilità dei fatti. Da cui logicissima, appunto, la post-verificabilità.
Proviamone un’altra, che non m’è capitato di leggere nella zoppicante rassegna stampa in mio possesso. E se alla verità sostituissimo la verosimiglianza? In fondo, è a quest’ultima che ci siamo appigliati per decenni, cercando di mostrarne, a valle, gli esiti euforici sul popolo bue e, a monte, i meccanismi della sua costruzione in mano ai tycoon dell’ultimora. Mentre i teorici del romanzo proponevano la sospensione dell’incredulità nella lettura di Cervantes e di Proust, i media la diffondevano per i loro prodotti, mescolando furbamente informazione e intrattenimento. La storia è nota, e non è una storia, cioè una bufala: è la verità, perché è verosimile. Insomma, la verità è un effetto di senso, l’esito finale di una serie di procedure di discorso che mirano a essa, che provano cioè a suscitare nel pubblico una buona dose di credulità. Dir vero è far credere. Dunque emettere fiducia, essere simpatici, cioè autentici, credibili: veri. Il marito di Hillary, lui, non perdeva le elezioni, nonostante fosse traditore, menzognero e puttaniere, perché ispirava simpatia, e dunque fiducia, e dunque verosimiglianza. Le prove provate della sua maramalderia, straordinariamente trash, non potevano far breccia un popolo perbenista e pruriginoso come gli abitanti dell’Iowa. La verità, verosimilissima, era dalla sua parte.
Qual è allora, se c’è, il problema? Con buona probabilità, a esser saltata è proprio l’esigenza di verosimiglianza, la necessità di ispirare fiducia e di aver qualcosa – o qualcuno – in cui credere. A forza di spacciare storytelling a basso costo, nessuna storia viene più costruita col chiodo appeso al muro nella prima pagina e il protagonista che vi si impicca nell’ultima (Checov? Maupassant? Pirandello?). Le storie che si raccontano nei vecchi e nuovi media – slabbrate, frammentarie, appiccicaticce – non hanno nerbo, cioè struttura, cioè coerenza, cioè verosimiglianza. E nessuno, abituatosi a quest’andazzo, sente l’esigenza di verificarne, non l’adeguatezza col reale, ma la verosimiglianza interna. Oppure, al contrario: dato che non è più un valore assoluto il famigerato tout se tient (linguistico prima ancora che narrativo), nessuno intende praticarlo. E si raccontano storie, cioè balle, come gli autoritratti pompati – e postati – sui social, i reportage giornalistici in zone di post-conflitto, le serie tv sui papi in erba.
Così, rimasti senza lavoro i narratori d’una volta, tutti chiacchiere e distintivo, devono parallelamente riciclarsi i critici a tempo pieno del Sistema: accettando di cambiare l’oggetto della loro decostruzione, o forse la decostruzione medesima, dato che niente viene più costruito, niente si vende come dispositivo brandizzato di verosimiglianza assicurata.
Resta il problema del post. Particella che si nutre della sua equivocità. Possiamo supporre che una delle ragioni dell’entusiasmo per la post-verità, o meglio per la formula linguistica che la designa (arruolata appunto nel dizionario), sia la memoria della post-modernità, o meglio della formula che la designa. Il cui successo, tanto inaspettato quanto planetario, ha creato, si sa, non poche invidie. Tutti a cercarne una migliore, nessuno a riuscirci. Tant’è che circola ancora adesso. Ma il povero Lyotard, spiegandolo ai bambini, ricordava che il ‘post’ del postmoderno non è un dopo ma un inveramento (oddio), e cioè lo sviluppo logico di alcuni presupposti taciti. Il postmoderno non è quel che c’è dopo il moderno ma quel che non poteva non succedere dati i presupposti su cui il moderno intendeva basarsi. C’è ormai nei manuali del liceo: solo i media non lo sanno. Messa così, la post-verità è la sua verità: e non poteva che finire in questo modo. Se essa, la verità, è la solidificazione di antiche metafore (Nietzsche), filando la metafora, ciò che è solido può anche liquefarsi, e poi divenire gas. Gas inerte, nobile, raro. Cfr. Primo Levi, Il sistema periodico, capitolo 1.