Torino, 5 marzo, ore 17.23
La sensazione mi sorprende al semaforo di corso Novara, angolo corso Giulio Cesare. C’è qualcosa di nuovo nel paesaggio dei balconi che si affacciano dai casamenti multipiano dell’incrocio: anzi, d’antico. Ci metto un attimo, poi la sensazione si precisa: questo era un posto dove per anni hanno sventolato le bandiere arcobaleno della pace. All’inizio sgargianti nella loro fresca dichiarazione pacifista; poi sempre più stinte e opache, proprio come la coscienza dell’opinione pubblica. Adesso, invece, i terrazzi delle case popolari sono improvvisamente fioriti di tricolori. In effetti, non solo qui, ma in tutta Torino si vedono facciate imbandierate. Sono singoli appartamenti, ma anche più scenografici striscioni biancorossoverde che inglobano mezzo condominio. Il 17 marzo si avvicina. La prima cosa che mi chiedo è se il tricolore garrisce sugli stessi terrazzi dove prima sventolava la bandiera della pace. Sono incline a credere che in buona parte sia così: che quei balconi e quelle bandiere appartengano a persone che vogliono comunque esprimere un’idea, un’appartenenza. Se l’ipotesi è corretta, è singolare che il tricolore – esposto da pochi ai tempi delle “guerre preventive” come forma di adesione all’intervento – sia diventato adesso il segno di un Piave ideologico contro la deriva antiunitaria della politica italiana.
Questi tricolori sono un po’ come la parola “Patria” di cui parla Levi: un proteo dal significato apparentemente chiaro, ma in realtà mutevole e sfuggente. Forse addirittura camaleontico. Personalmente, sulla patria e sulla bandiera, da giovane, ci pisciavo. Lo dico così, brutalmente, perché è la pura verità. Però oggi – anche se non rinnego niente di quelle mie posizioni (evito di essere presente quando si suona l’inno, perché quella forma retorica di identità mi mette a disagio) – devo ammettere che “Patria” non è una parola che mi inquieta. Non sono cambiato io, è cambiato l’uso del termine. “Patria”, da giovane, per me rappresentava un’idea ben precisa, incarnata in un modello nazionalista-militaresco pieno di menzogne e ipocrisie; secondo baluardo, insieme a dio e famiglia, di una triade che schifavo. Rileggete il Manganelli dell’introduzione a I Neoplatonici di Luigi Settembrini per intuire che quel mio sentire non era certo individuale, ma più che condiviso (anche se con diversi gradi di eleganza, ovviamente). Ma oggi “Patria” è diventata una parola difensiva, nostalgica, accordata sulle note verdiane di qualcosa di “bello e perduto”. Un’assenza, forse un bisogno. Non si proclama più “Patria” con voce stentorea, la si sussurra. Con un tanto di vergogna, incertezza e – chissà – rispetto. Il modo in cui la si pronuncia la rende più sopportabile, persino simpatica. E soprattutto determina una differenza di campo con chi proprio non la usa. Per esempio, avete mai sentito un leghista parlare di patria? Non a proposito dell’Italia, ovvio – ma della Padania. I leader leghisti non si riferiscono mai a quella loro creazione ideologica come a una patria, “il luogo dei padri”; mentre non si peritano di usare l’altro vocabolo ottocentesco “popolo” a ogni piè sospinto. O addirittura “nazione”, tipo “Padania nazione”. È un lapsus linguistico interessante, che non nasce da una sorta di timidezza terminologica. “Padania” viene infatti utilizzato continuamente anche in contesti lievemente grotteschi. Alla radio di partito si salutano spesso gli ascoltatori con la locuzione “Buona Padania” (a cui l’etichetta prevede che si risponda con “Buona Padania a te”): un sorprendente salto mortale linguistico, come se uno dicesse “Buona Francia” o “Buon Trentino Alto Adige”. Evidentemente, nell’inconscio secessionista, Padania non è un parola che si associa a una storia, a un passato: è più vicina alla natura dello slogan pubblicitario, o del marchio di fabbrica. E infatti l’“ideologia” padana nasce proprio in ambito economicista, non territoriale. Basta vedere come si è esteso il concetto geopolitico di Padania dagli esordi ad oggi. La Padania non è un luogo o una comunità, è un set di rivendicazioni applicabili anche a Lampedusa (dove infatti è stata eletta al Parlamento una deputata nelle liste della Lega). L’etimo di “Patria” non pertiene a quella visione del mondo perché – come ho cercato di argomentare in un altro intervento sul sito – il leghismo non ha rapporti col passato, ma esclusivamente col presente. Ecco allora che, per opposizione, “Patria” finisce per essere una parola di nuovo spendibile con decenza; ed ecco che i tricolori sostituiscono le bandiere della pace in corso Novara. Le parole e le bandiere raccontano di un medesimo bisogno di riconoscimento, di sentirsi parte di qualcosa: anche se dubito che i “patrioti” concorderebbero su molti temi. Ma i simboli anche a questo servono: a sospendere la pura razionalità per fare appello a un moto dell’animo, a qualcosa di inspiegabile. Qualcosa già celato nell’ambiguità di un vocabolo che si riferisce ai padri ma che si vuole assolutamente e inevitabilmente di genere femminile.
Probabilmente, però, la verità dell’inconscio italiano non si nasconde in “Patria”, ma in un’altra parola, e cioè: “Paese”. L’italiano è l’unica lingua in cui questo termine indica sia il villaggio che l’insieme della nazione. In francese pays significa genericamente il luogo da cui si proviene, la campagna; e quindi, per estensione, la patria: non, come in italiano, il borgo. Cosa che è vera anche per l’inglese country. Di contro, l’heimat tedesco qualifica insieme la casa famigliare e il luogo natio (differente dalla vaterland). Insomma solo in italiano “Paese” funziona come una lente da zoom che avvicina e allontana, che ingrandisce e rimpicciolisce, mettendo in corto circuito la dimensione del posto in cui si è nati (con una forte connotazione non urbana) con quella della nazione tutta. In mezzo sembra non ci stia niente: quando invece sappiamo che è proprio la dimensione urbana a determinare la vita contemporanea. Siamo un popolo che riconosce la sua identità solo quando riesce a sovrapporre l’idea di nazione a quella di villaggio: andando, cioè, al contrario di come ha proceduto la storia moderna. E probabilmente dentro quella parola c’è tutto lo smarrimento che proviamo di questi tempi quando parliamo di sentirci (oppure no) “italiani”.