Sapere, fare e saper fareVerso la modernità / Sapere, fare e saper fare: Guido Marangoni
Tra gli antesignani del nostro design nazionale va annoverato anche il critico d'arte e giornalista Guido Marangoni (1872-1941), conservatore del Castello Sforzesco, socio onorario delle Accademie di Brera e di Venezia, sovrintendente dei musei Civici di Milano, deputato socialista alla Camera in tre legislature, dal 1909 al 1921, che nel 1928 fondò e diresse le riviste “Pagine d’Arte” e “La Casa bella”, la cui testata nel 1933 muterà in “Casabella”, per volontà di Giuseppe Pagano Pogatschnig, suo nuovo direttore.
Il Marangoni, infatti, dopo aver dato vita, nel 1919, a Milano, nella sede dell’Umanitaria, alla I Esposizione Regionale Lombarda di Arte Decorativa (allora il design si chiamava ancora così, dal termine francese décorer, traducibile con: concernente l'arredo), nel 1923 promuoverà l’istituzione delle Biennali di Arte Decorativa che hanno dato impulso a questa disciplina permettendole di svilupparsi e di arricchirsi nel confronto internazionale. Delle prime tre edizioni, tenutesi nella Villa Reale di Monza, appena ceduta dai Savoia al demanio statale, sarà anche il perspicace direttore artistico.
Unitamente al CAMMU, Consorzio autonomo "Comune di Milano-Comune di Monza-Società Umanitaria", l'anno precedente, insieme ad Augusto Osimo e a Eugenio Quadri, accanto alle mostre Biennali, il nostro aveva già promosso l'Università delle Arti Decorative, divenuta in seguito Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA), una scuola-laboratorio inaugurata il 12 novembre nell'ala meridionale della villa Reale del Piermarini e aperta a studenti di provenienza europea (vi erano annessi anche un Convitto e un Pensionato).
Nel precipuo spirito dell’Umanitaria, il cui motto era: “Sapere, fare e saper fare”, la nuova scuola veniva intesa quale:
«centro propulsore, confortatore, creatore di attività volte al lavoro chiamato a dare segno di bellezza alle cose della vita, anche alle più umili (davvero un’egregia anticipazione della futura definizione di design!), e anche per quelli che finora furono e sono i più umili e che non devono essere privi della gioia della bellezza.»
Così scriveva Augusto Osimo, Segretario Generale dell’Umanitaria, nel volantino di propaganda della nuova scuola indirizzato ad enti, a aziende e a associazioni. E concludeva, rivolgendosi agli industriali e agli amministratori pubblici:
«industriali che non sanno spesso dove trovare operai o dirigenti tecnici specialisti dovrebbero capire che questa Scuola è fatta per loro e dovrebbero interessarsene al massimo grado come di una Scuola a tutti loro comune e di un comune gabinetto sperimentale. Amministratori della cosa pubblica dovrebbero saper vedere quale fonte d'incremento economico, di elevamento e di pacificazione sociale è racchiusa con queste scuole considerate nel doppio aspetto degli individui che in esse vi studiano e del miglioramento ch’esse apportano alla produzione industriale del paese».
Le menti illuminate dei fondatori dell’Università delle Arti Decorative sapevano molto bene che la possibilità di riscatto sociale per le classi meno abbienti era insita soprattutto nella loro istruzione, così come non ignoravano quanto una didattica specifica nel campo delle Arti Applicate fosse assolutamente necessaria alla formazione tanto delle maestranze addette, quanto a quella dei progettisti, che di lì a breve avrebbero assunto la denominazione ben più moderna di designers.
Ad insegnare all’ISIA di Monza, sotto la direzione di Guido Balsamo Stella, furono reclutati i più bei nomi della cultura artistica italiana del tempo: da Raffaele De Grada, che vi insegnava pittura, al maestro del ferro battuto Alessandro Mazzucotelli; dallo storico dell'arte Matteo Marangoni, allo scultore Arturo Martini; dal saggista Edoardo Persico, al maestro orafo Natale Vermi, ai pittori Aldo Salvadori, Pio Semeghini, Mario Vellani Marchi e Ugo Zovetti. Quest’ultimo, insegnante del corso di decorazione, si era formato presso la Kunstgewerbeschule di Vienna con Josef Hoffmann e Koloman Moser (fondatori delle Wiener Werkstätte) e, prima di giungere a Monza era stato assistente dello stesso Moser e membro del Werkbund austriaco. A lui si devono molte delle aperture internazionali di questa scuola. Quando poi, nel 1932, a Stella succedette Elio Palazzo, vi chiamò ad insegnare: Marino Marini, Marcello Nizzoli, Giuseppe Pagano Pogatschnig, Agnoldomenico Pica e Raffaello Giolli.
Se gli industriali italiani d’allora non avessero mancato l’appuntamento con la storia, per la levatura culturale dei suoi insegnanti e per le straordinarie doti dei suoi allievi (molti dei quali saranno protagonisti della nascita del design italiano), l’ISIA di Monza avrebbe davvero potuto diventare il Bauhaus italiano.
Al Marangoni si deve anche la pubblicazione, tra il 1925 e il 1928, dell’“Enciclopedia delle Moderne Arti Decorative italiane”, un’opera in otto volumi, inizialmente edita a Milano da Ceschina e successivamente a Torino dalla Utet, concepita come un vero e proprio prontuario sui diversi tipi di produzione, dai vetri ai tessuti, dal legno al ferro battuto, dalla ceramica all’oreficeria, che per molto tempo fungerà anche da manuale della nuova disciplina sia nelle scuole d’arte applicata che nelle botteghe artigiane, non esclusa quella di mio nonno, la cui copia, gelosamente custodita da mio padre, mi è spesso occorso di sfogliare con curiosità fin da bambina.
La vita dell'ISIA di Monza durò purtroppo soltanto ventuno anni; la scuola venne infatti chiusa nel 1943 per mancanza di fondi. Le Biennali, invece, divenute Triennali nel 1930, avevano già lasciato il capoluogo brianteo nel 1933 per trasferirsi a Milano nel Palazzo dell’Arte, appositamente costruito da Giovanni Muzio, dove hanno continuato a scrivere pagine importanti della storia del design e dell'architettura non solamente italiane.
Star molto discussa della I Biennale di Arte Decorativa è stato Fortunato Depero (1892-1960) che con la sua “Sala futurista” e con quella per la sezione del Trentino, riuscì a catalizzare, in positivo e in negativo, l’attenzione del pubblico e della critica. Sebbene l’avventura futurista si fosse conclusa, annientata dalla Prima guerra mondiale, alla quale i suoi membri avevano pure inneggiano, gli epigoni deperiani del Secondo Futurismo costituiscono un interessante ibrido fra l’invito alla modernità di Marinetti e gli influssi dell’Art Déco, di cui l’artista di Rovereto finì per essere un originalissimo rappresentante. Depero allestì a Monza una sorta di wunderkammer ludica, scanzonata e persino irriverente che costituisce la premessa di quella che sarà poi “La Casa del Mago” di Rovereto, ovvero la sua casa-museo, da lui personalmente creata nel 1957, al rientro dal suo lungo soggiorno americano, e recentemente restaurata dal MART in occasione del centesimo anniversario del Futurismo.
Ma alla Prima Biennale era presente, se pure in sordina, anche Gio Ponti (1891-1979), astro nascente dell’architettura italiana alla sua prima uscita pubblica. Reduce dall’aver combattuto nella grande guerra, si era da poco laureato al Politecnico di Milano ed era appena stato nominato direttore artistico della Manifattura di Doccia Richard-Ginori, della quale non curava soltanto i progetti ma anche le fasi di produzione e di commercializzazione. Come i grandi maestri della classicità ai quali si ispirava aveva messo a punto anche un colore, ancora oggi denominato ‘blu Ponti’ (come non riandare con la memoria al mitico blu di Duccio?), in due diverse tonalità, più chiara e più scura, per le sue raffinatissime ceramiche che facevano bella mostra di sé alla rassegna monzese.
Se la sala futurista di Fortunato Depero era dominata da una palese ironia, quella più sobria di Gio Ponti non era scevra di un sottile divertissement: nei suoi labirinti, ad esempio, gli angeli portano una sacca da golf e sui davanzali delle finestre del vaso Prospettica compaiono, sapientemente ritmati, solidi geometrici, coppe, anfore e tutto un armamentario di chiara derivazione classica ma per nulla aulico, anzi da lui reso domestico e a momenti confidenziale. Per non dire della levità quasi fiabesca delle sue donne che galleggiano sulle nubi, o di quelle sospese su architetture classiche, o ancora delle barche che veleggiano su mari agitati da onde sinuose e avvolgenti. E poi ad animare le sue ceramiche sono animali in corsa, acrobati, clown e pierrot. In questa frase da lui scritta alla figlia Lisa è racchiusa la cifra della sua leggerezza, vera essenza della sua poetica: «Ciao, cara Lisa, gli acrobati ci insegnano che tutto è immaginabile e possibile, al di là dei limiti, ma con lietezza, forza, coraggio e giovinezza, immaginazione, bontà.»
I protagonisti di queste due sale della rassegna monzese del 1923 rappresentavano di fatto due delle tre differenti anime della situazione artistica italiana d’allora (l’altra era la Metafisica, per sua stessa definizione indifferente al dibattito sulla creazione di oggetti d’uso) e finirono per ignorarsi a vicenda, così come accadrà anche di lì a due anni a Parigi, alla Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes dove si fronteggeranno, pure lì non curandosi gli uni degli altri ma riscuotendo unanimi consensi, Balla, Depero e Prampolini con la loro sala futurista e Gio Ponti con la sua sala di ceramiche neoclassiche per Richard-Ginori, vincitrici assolute dell’ambito Grand Prix.
Depero tornerà a Monza nel 1927 in occasione della III Biennale di Arte decorativa, dove allestirà il Padiglione del Libro per gli editori Bestetti-Tumminelli e Treves, un’architettura da lui stesso definita “tipografica" la cui forma era imitativa degli oggetti che ospitava al proprio interno. Ed ecco allora grandi lettere tridimensionali sovrapporsi in forma di totem come pile di libri e altrove comporsi generando spazi, in un lettering tridimensionale evocativo dei caratteri mobili dei tipografi. Questo suo sarà l’unico approccio all’architettura, mentre Gio Ponti vi si dedicherà con sempre maggiore successo, soprattutto a partire dal 1933, quando le Biennali, divenute già Triennali, si trasferiranno a Milano: della V sarà lui l’assoluto protagonista.
Ma alle Biennali di Monza non furono esposte soltanto le ceramiche di Ponti per Richard Ginori. Accanto a quelle di Guido Andlovitz per la S.C.I. (Società Ceramiche Italiane) di Laveno, c’erano anche quelle dell’esordiente Lenci (acronimo di Ludus Est Nobis Constanter Industria). Fondata a Torino nel 1919 da Elena König e dal marito Enrico Scavini come ditta specializzata nella produzione di giocattoli in legno e divenuta poi famosa nel mondo per le bambole e per gli arazzi in panno colorato (pannolenci), dal 1927 esordirà anche nel campo della ceramica artistica. Si specializzerà nella produzione di terraglie smaltate e invetriate di ineguagliabile raffinatezza tecnica e di eccezionale qualità pittorica. Questa nuova attività aveva preso vita dal desiderio della König di tradurre in ceramica le sue famose bambole di panno.
Sarà così che nasceranno quelle piccole figure femminili eleganti e altamente decorative che incontreranno da subito il gusto del pubblico borghese decretando anche in questo campo il successo del brand torinese. Accanto a queste figurine, rappresentative del prototipo dell’adolescente e della donna contemporanea, sportiva e smaliziata, mutuata direttamente dall’immaginario cinematografico e pubblicitario (specialmente quelle di Sandro Vacchetti, direttore dell’azienda fino al 1934, quando, lasciatala, aprirà una propria manifattura ceramica, la EsseVi che diverrà altrettanto famosa) la Lenci annovera anche una produzione più colta, affine alle tendenze della contemporanea art déco, dell’orientalismo, delle ricerche cubiste e futuriste resa possibile dalla collaborazione con pittori, scultori e grafici quali: Mario Sturani, Giovanni e Ines Grande, Elena Scavini, Felice Tosalli, Gigi Chessa, Abele Jacopi, Nillo Beltrami, Claudia Formica, Giulio Da Milano e il già ricordato Sandro Vacchetti.
"Il design prima del design. Guido Marangoni e le Biennali di Monza 1923-1927", è il titolo della mostra allestita alla Villa Reale di Monza dalla Triennale Design Museum, nell’ambito del 21st Century Design After Design, XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano e aperta dal 12 giugno all’11 settembre 2016, curata da Renato Besana con l'allestimento di Lorenzo Damiani. Vi è presentata una selezione di oggetti degli Anni Venti, suddivisi secondo la partizione attuata dal Marangoni nella sua Enciclopedia delle Arti Decorative: il mobile italiano contemporaneo; le arti del fuoco: ceramica, vetri, vetrate; l’oreficeria; il ferro battuto.
La possibilità di ammirarli, unitamente ai cataloghi delle tre Biennali e ad alcuni volumi storici, tra cui le annate della rivista “Le Arti Decorative”, anch’essa fondata dal Marangoni, costituisce un’ottima occasione per visitare la mostra riappropriandoci così di una bella pagina della nostra storia e rendendo al contempo omaggio a quella di un italiano progressista e anticipatore del futuro.
A lui si deve pure, infatti, quand’era deputato del Regno d’Italia, durante la XXV Legislatura (1 dicembre 1919 - 7 aprile 1921) un Progetto di legge "Per lo scioglimento del matrimonio" (Atto C.471), firmato purtroppo soltanto da lui e dall’onorevole Costantino Lazzari, progetto di legge che, ovviamente, non arrivò mai all’esame della Camera e per la cui trasformazione in legge dello Stato si dovranno attendere altri 50 e più anni e, ovviamente, altri presentatori.
Ma questa è un’altra storia.