Tra museificazione e mercificazione / Venezia, turismo, economia

15 Ottobre 2020

Tempo sospeso, questo incerto post-Covid. Per l’economia, va da sé. Ma anche per le scienze sociali: cosa cercare, di preciso? Insistere su un mondo che potrebbe non essere più; oppure lanciarsi in previsioni e presagi sull’immediato futuro? Oppure, ancora, attendere il deposito delle macerie sollevate dalla pandemia? Nel dubbio, iniziano ad affollarsi una quantità di ricerche pensate prima, scritte durante e pubblicate dopo lo spavento del lockdown. Un vero e proprio assembramento, di quelli vietati dal Dpcm, di introduzioni e prefazioni, precisazioni e postille, che avvertono il lettore dell’imprevedibile contingenza. Almeno per un altro po' sarà così, in attesa dell’invasione di studi stimolati dal confinamento sociale, che come al solito giungeranno o acerbi o troppo tardi, nel mentre di altre contingenze, e quindi di altre chiose e annotazioni. 

 

A cavallo dei due mondi si situa anche questo lavoro di Giacomo-Maria Salerno, Per una critica dell’economia turistica (Quodlibet 2020, pp. 253, 20 euro), pubblicato nel vortice della più grande crisi del comparto e dei suoi annessi economici e sociali. Ironia della sorte, davvero. Eppure molti dei ragionamenti proposti rimangono validi perché di lungo respiro, disancorati da ogni contingenza che non sia il normale sviluppo delle logiche riproduttive del capitalismo contemporaneo. Continuerà, il turismo di massa, perché collegato ad un’esigenza fondativa: la valorizzazione dei capitali privati, che trovano nella speculazione turistica uno dei pochi momenti di moltiplicazione reale. Non sarà una pandemia che fermerà esigenze che travalicano le volontà e i destini individuali. Con buona pace di quell’«universo della scelta» che ormai, a dire dell’autore, governerebbe l’orizzonte dell’uomo svincolandolo da destini preordinati. Ma andiamo con ordine. 

 

L’approccio di questa critica è tutto sommato canonico. Si viene introdotti nell’alveo delle proposizioni generalissime, tipiche di una certa sociologia politica, per poi scendere sulla terra dei problemi reali. Dapprima affrontando la questione urbana del XXI secolo; poi atterrando a Venezia, simbolo di turistificazione, di musealizzazione, di mercificazione e di un’altra quantità di epiteti ingiuriosi ma non per questo meno veri. Il filo che unisce le diverse scale (la globalizzazione, l’urbanizzazione planetaria, la città turistica per eccellenza) è l’unità di un ragionamento che rivendica il suo spaziare attraversando varie discipline, diversi punti di vista, molteplici visioni di un unico fatto sociale, anzi, di un fatto sociale totale: la turistificazione della città. Più in generale, la scienza urbana del XXI secolo non può che essere questo: collage di metodologie tenute insieme da un ragionamento complessivo e sistematico. Diremmo: da un’ideologia (se la parola non provocasse crisi di rigetto). Urbanistica, economia, sociologia, storia e antropologia: dalla sintesi virtuosa di questi approcci differenti, a volte opposti, può nascere il pensiero in grado di svelare le trasformazioni urbane del nostro secolo. Se una città potesse essere “pensata”, saremmo ancora al mondo di ieri. Ma la città, i suoi abitanti e i suoi decisori pubblici rincorrono gli eventi, reagiscono ad azioni già avvenute, decretate altrove da logiche impersonali ma non imprevedibili. La ricerca di queste logiche è esattamente l’oggetto della scienza urbana contemporanea. 

 

Intendiamoci: tutto o quasi tutto ciò che viene detto nel libro è giusto, o almeno possiede una sua verità di fondo. Il problema è però che ormai, nel 2020, questa verità inizia ad essere stanca di essere ripetuta. Non giungerà alla politica, alle orecchie degli amministratori pubblici, perché – come appena detto – non c’è azione politica possibile che non contrasti direttamente e clamorosamente con le logiche riproduttive del capitalismo attuale. La globalizzazione ha dileguato ogni resistenza intermedia, ogni riluttanza parziale: gli unici strumenti per governare la città sono gli stessi che entrerebbero in conflitto aperto, plateale, con le logiche stesse della globalizzazione. I bilanci comunali sopravvivono grazie alla privatizzazione della città, alla sua turistificazione; mercificazione che a sua volta deperisce i bilanci comunali e impoverisce ulteriormente la città stessa, contribuisce a snaturarla, trasformandola in qualcosa che ancora, per quieto vivere, definiamo città ma è già, da tempo, qualcos’altro. Spezzare questo circolo vizioso è necessario, ma chi può spezzarlo non è dato saperlo. Le fantomatiche soggettività continuamente evocate da certa teoria critica, a cui si rifà anche l’autore, continuano ad auto-declamarsi come risolutive, partorendo sempre il più classico dei topolini. La cittadinanza reale di queste malandate città alterna spirito corporativo, reazione plebea, a ghetti di resistenza possibili solo in quanto ghetti. Non tutto è pacificato, ma ciò che non lo è rimane strutturalmente confinato nell’innocuo, nell’eccedenza fisiologica e tollerabile. Bisogna prenderne atto, non per arrendersi ovviamente, ma per valutare meglio i possibili strumenti di cambiamento.    

 

 

Non torneremo sul problema turismo, di per sé evidente e già a lungo affrontato. Sono le soluzioni a questo problema che continuano a latitare. Il lavoro di Salerno mette giustamente in guardia da facili “ritorni all’ordine”, ovvero da quel certo spirito conservativo e a volte reazionario di chi vorrebbe impedire con la forza della legge la mobilità degli uomini e delle donne, da qualsiasi parte provengano. Eppure, è un dato di fatto che la forma parossistica della mobilità contemporanea (prendiamo in prestito questa efficace definizione dalla Prof.ssa Antonietta Mazzette) abbia bisogno di essere governata. Non – forse – limitata; ma gestita, questo sì. Se il turismo è un fatto sociale, e se questo investe direttamente i caratteri della cittadinanza, della qualità della vita delle popolazioni urbane, allora è necessario dotarsi di strumenti di controllo e di indirizzo. Non è possibile demandare tutto alle sole forze del mercato o alla libera scelta del cittadino globale di passaggio tra metropoli sempre più «generiche». Il caso si è trasformato immediatamente in caos, e questo catturato dagli investimenti privati, disciplinato e infine piegato alla speculazione turistica. Con annessa la costruzione di quell’immaginario, fatto di “autenticità” e di “experience”, che Salerno giustamente mette in risalto e demolisce nella sua analisi. 

 

Ma se il passato non è la soluzione al nostro futuro – e, ribadiamo, siamo d’accordo – non possiamo neanche sollecitare il movimento opposto, quello di un certo relativismo avalutativo in cui rischiano di cadere le posizioni di chi, polemizzando con le élite illuminate, rischia di rafforzare lo status quo. Ovvero, e questo con particolare riferimento alle città d’arte, o storiche: bisogna conservare o trasformare? Perché ogni processo di trasformazione reale, cioè non immaginario o idealizzato, è criticato e combattuto da quelle stesse “soggettività” che si convocano a difesa del “diritto alla città” di lefebvriana memoria. Viceversa lo spirito conservativo, apparentemente avversato, una volta cacciato dalla porta rischia di rispuntare dalla finestra. Insomma il paradosso è questo: il “modello Unesco” desertifica le città, le sterilizza dalla vita vissuta e le cristallizza come forma inerte, “museificandole” e quindi annichilendole; il modello opposto, cioè l’assenza di difese pubbliche, lascia queste stesse città alla mercé dei capitali globali, privandole similmente della propria vita vissuta, piegata alle esigenze e ai bisogni di city users locali e internazionali, comunque di passaggio. La contraddizione in cui una simile argomentazione va a sbattere viene rivelata nell’estrema chiosa dell’opera di Salerno: «Opporsi alla turistificazione dei centri storici significa in definitiva affermare che il comune che li ha costruiti e li abita non ha smesso di saper produrre». Ovvero, seguendo tale ragionamento: “prima” non erano le forze di mercato a costruire materialmente queste città; successivamente, in un qualche “post-” di cui abbonda il testo (nella fase “post-industriale”, o in quella “post-moderna”, che ha prodotto le “post-città” ecc…), sono intervenute tali forze che hanno deprivato la cittadinanza, ovviamente “comune”, delle sue ragioni di convivenza urbane, sottomettendole agli interessi del capitale privato.

 

Per ciò che ci riguarda, la città è sempre il prodotto di uno scontro tra le ragioni della produzione e quelle della sua popolazione. È sempre il risultato contraddittorio e instabile di questa relazione, in cui non c’è un prima e un poi, un età dell’oro e una del ferro. Discorso che vale ancor di più per Venezia, città di mercanti e di scambi sin dal Medioevo, città turistica prima di altre, attraversata e consumata oltre, e a volte contro, la sua stessa cittadinanza. La sua evoluzione è anche l’evoluzione delle forze di mercato che l’hanno generata. Se oggi si impone davanti a noi un modello distopico e dispotico, questo turismo di massa che distrugge territori (urbani e non) e colonizza ogni aspetto del tempo libero, ogni porzione di vita sottratta al lavoro dipendente e precario, è perché sono venute meno le capacità della politica di organizzare forme di resistenza, ovvero di controllo pubblico. E dunque le nude soggettività, oggi regressive domani progressive a seconda dei momenti e del caso, non bastano. Occorrono proposte praticabili, immaginando soluzioni percorribili dati gli attuali rapporti di forza. Soluzioni che demoliscano il binomio cieco della totale conservazione o della totale mercificazione, del museo o del centro commerciale, escogitando altre e coraggiose vie. Non è facile, ce ne rendiamo conto. Forse non è neanche compito di chi fa ricerca. Eppure, lo abbiamo detto: se la nuova scienza urbana è la somma virtuosa di urbanistica, economia, sociologia eccetera, allora dev’essere la somma anche di una visione politica. Politica, in questo caso, non intesa come “mobilitazione”, ma come proposta, come indicazione di soluzioni. Altrimenti la turistificazione sarà solo l’ennesimo oggetto sociologico che ha affiancato e sostituito la gentrificazione, in attesa anch’esso di essere pensionato anzitempo.

 

Ma questo è un discorso che trascende il libro in esame. Un lavoro che ha il pregio di “fare il punto”, facendolo da par suo, ovvero raccogliendo le istanze di quella filosofia ibrida di matrice francofortese e foucaultiana, traducendola in riferimento ai problemi dell’urbanizzazione. Alla fine, il vero valore aggiunto parrebbe essere il terzo capitolo, quello concentrato su Venezia, che si libera dall’astrazione indeterminata di un approccio abusato e si cala nel contesto specifico, e da questo particolare risale la corrente dei problemi. Dandoci un’indicazione di ricerca: partiamo dal concreto empirico e ricaviamone un astratto vieppiù preciso, ovvero un astratto determinato. Marx sarebbe stato d’accordo.   

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