I giorni del terremoto: perché restare

21 Settembre 2016

L’immagine ricorrente dell’orologio del campanile di Amatrice che sovrasta un cumulo di macerie, fermo sulle 3.40, mi riporta alla mente le stesse immagini dell’Aquila del 2009 (incredibilmente l’ora 3.32 è pressoché la stessa) ma anche la torre di Novi di Modena, icona del terremoto più recente del 2012… Quasi che questi altari del tempo suggerissero una sorta di monito di natura etica (ethos, ci insegna Massimo Venturi Ferriolo, è non a caso “il luogo con la sua tensione dell’esistenza”) tale da minare la nostra supposta “incrollabile” hybris, da segnare uno spartiacque temporale al di là del quale niente è più come prima. Né i luoghi, né il tempo. 

 

A Conza, epicentro del sisma in Irpinia, il terremoto del 1980 ha riportato in superficie, paradossalmente, l’antico Foro romano. Interi abitati che rovinano al suolo – avevo pensato visitandola – mentre millenarie rovine ritrovano una nuova, pur inerte, esistenza. Un capriccio crudele quello del terremoto che gioca con la vita degli uomini così come con le successioni della durata e del tempo. Gioca con le stesse rovine: case sventrate al cui interno si disegnano forme imprevedibili. La linea curva di un muro perimetrale di una casa di Accumoli crollato a metà a mo’ di balcone l’ho associata all’interno di un bagno sventrato che ho visto a Onna: il tubo di scarico in basso (quasi un arto artificiale sbilenco), in alto la vaschetta bianca del wc che sormontava una piccola finestra in legno e a lato, sul fondale rosato delle mattonelle, l’armadietto verde tenero che esibiva ancora il bicchiere con il dentifricio. 

 

Scene, perturbanti di ordinaria intimità violata dove si misura in tutta la sua drammatica violenza l’unicità dell’abbandono da sisma. E non solo per la struttura dello strappo interno agli edifici: certo per le pietre che a cascata occludono, sbarrandole del tutto, le scale, o per i reperti di un modernariato dolente (schermi televisivi, vecchi computer) tutti, quasi simbolicamente, sbalzati a testa in giù (come nella Istanbul di Pamuk) e per le ante dei mobili inequivocabilmente spalancate, sotto l’urto di un movimento irresistibile o ancora per le pagine dei libri finite innaturalmente nei lavandini (ho negli occhi l’immagine ad Amatrice della Divina commedia di Dante aperta alle pagine dell’Inferno). Ovunque, tra le macerie dei terremoti, ciò che mi colpisce è “la scomparsa della verticalità”, quando gli edifici smarriscono ogni copertura: reticoli murari abbassati al suolo, ruderi delle fondamenta di edifici di epoca indistinta. 

 

Ecco perché perdere i propri luoghi (come è stato nel modello giustamente vituperato delle new town dell’Aquila) equivale a una sorta di crisi letale (per usare i termini di De Martino) della presenza dei gruppi. Ho ancora negli occhi le immagini desolanti dei paesi dell’Irpinia raccontati da Franco Arminio, raggelanti, per meglio dire: la nuova Conza, una spianata di cemento, chiusa tra la chiesa e il porticato squadrato. Al centro campeggia un monumento con due sagome in alabastro verde lattiginoso che erompono da un cratere squassato. A lato della Chiesa nuova, la vecchia campana, deposta al suolo. È vero che la Sella di Conza è stata l’epicentro del terremoto (184 vittime e l’85% dei vani risultano distrutti) ma il paese ricostruito mostra le parvenze di un grande sito cimiteriale. Imbiancato di fresco, ogni memoria interrata.

 

Memoria interrata del consueto abitare eppure drammaticamente vitale: è questo stato di reinterramento del proprio mondo vitale, ancora palpitante seppure violato, ferito, scardinato dalle fondamenta che spiega la reazione virulenta degli abitanti di Amatrice di fronte alla decisione (poi rovesciata) di celebrare i funerali di Stato a Rieti. Come si celebrasse, con l’addio alle vittime dei parenti e degli amici, la fine del paese stesso. Un mondo di ricordi e di memorie del futuro possibile a cui tutte le popolazioni terremotate si aggrappano con la disperazione di chi vuol continuare a vivere la propria vita – non quella di altri – in quartieri ignoti, dentro abitazioni asettiche. È non a caso il carico di affettività e di racconto di sé che fa dello spazio un luogo, secondo l’espressione di Michel de Certeaux. È del resto, passando dalle teorie alla vita reale, quanto ho imparato proprio a Onna dell’Aquila. Macerie: curioso – avevo considerato allora – che soccorritori e soccorsi vedano sotto le macerie cose diverse. Celestino, vigile del fuoco di Roma, autore di innumerevoli “recuperi” (è il termine tecnico) si imbatte con sgomento nella felpa di un giovane rimasto intrappolato fra le macerie e morto di lì a poco. A sua detta il padre non sembra dar alcun valore a quella maglia stracciata (“per me era come calpestare un’aiuola – confessa il vigile del fuoco – un giardino di fiori, così bello nella tristezza dello scenario”) per concentrarsi solo sulla catenina del figlio, rimasta imprigionata nella cassaforte, e stringerla a forza nel pugno. Anche una donna che ha perso le figlie implora Celestino perché recuperi due maioliche dal suo bagno. Alla domanda stupita del vigile del fuoco sul perché rischiare la vita per un recupero del genere, Tiziana risponde che le tazze riportavano i nomi delle due ragazze morte nel crollo.

 

Macerie: una parola che i sopravvissuti usano malvolentieri. Tutti gli scampati preferiscono ricordare le cose “intere” come erano prima: è ancora il vigile Celestino a testimoniare: “nella catenina, nei vestiti, nella bottiglia, notavo la felicità negli occhi della gente quando riusciva a recuperare qualcosa. Si sono attaccati a tutto”. Cose da salvare “intere” nella memoria – meglio si potrebbe dire per la memoria – in una strategia di sopravvivenza (e di investimento per il futuro) che trova, come oggetti simbolici privilegiati i propri luoghi, la rete di edifici e vie che disegnano il senso dell’esistenza lì e non altrove (penso al gran libro di Vito Teti Il senso dei luoghi) e spiega la determinazione di tutti a tornare .

 

Un paesaggio fragile eppure così strutturato dentro di sé. Mentre là dove il senso delle cose è smarrito e le immagini si perdono come nelle ombre, il paesaggio si fa opaco lasciando emergere in superficie il risvolto “interno” di ogni luogo con il suo carico simbolico ormai deflagrato in mille schegge. Nell’oscurità di un abitare revocato, testimoniato con intensità anche da tanta letteratura ciò che agisce nel profondo è l’abolizione del suo darsi come stato interiore che si fa spazio, ordine, dimora. Interno e esterno, vicino e lontano, lo stesso senso delle parole si confondono nei contorni deformati dell’ambiente ridivenuto non umano (ricorro allo psichiatra americano H. Searle).

È il corpo stesso, nel paesaggio perduto, a sentirsi ferito, dilaniato. Venuti meno quei suggerimenti di continuità che il luogo, inteso come spazio del dentro, sprigiona, ci si sente invasi, sommersi dal suo opposto, il fuori (Gaston Bachelard). O come succede alla memoria sommersa dei bambini nati in quei borghi e che non sarebbero mai potuti tornare e nemmeno saprebbero descrivere:

 

 “la sensazione ignota che li avrebbe raggiunti nella maturità, forse svegliandiosi da un sonno pomeridiano camminando lungo una strada, o entrando nella casa di un estraneo” (Anne Michaels, dal romanzo La cripta d’inverno). 

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