Ai Weiwei, il corpo e la rete

16 Aprile 2013

Ai Weiwei è iscritto a Instagram dall’estate del 2011, subito dopo i suoi 81 giorni di detenzione, ma è solo da un anno che ne fa un uso quotidiano. Ad oggi ha caricato 968 fotografie ed è seguito da più di 20 mila follower. Per chi non lo sapesse Instagram è un social network di sole foto, è una vetrina di immagini sulla vita privata e funziona con la stessa logica di Twitter del “ti seguo/mi segui”. E il fatto che Ai Weiwei abbia zero following, cioè che non segua nessuno, va a confermare ancora una volta quale sia per lui lo scopo dei social network e di internet in generale: non solo uno strumento di connessione fra persone, di condivisione e diffusione di informazioni, ma soprattutto un canale di dissenso, il più possibile irriverente nei confronti del governo cinese.

 

 

Il 25 ottobre 2012 Ai Weiwei pubblica un video, che in Cina verrà prontamente censurato dopo pochi giorni, in cui offre una personale versione del Gangnam Style, il tormentone estivo di portata mondiale del rapper sudcoreano Psy. Ai Weiwei  vestito in giacca nera e con una maglietta rosa shocking, balla con i suoi amici e collaboratori riprendendo le mosse di Psy e trasformando il gesto dei polsi caratteristico della canzone sudcoreana in uno sberleffo alle autorità di Pechino: in mano ha delle manette che sventola al ritmo della musica e che sembra voler sbattere in faccia a chi gli impedisce di espatriare.

  

   

Dopo nemmeno un mese un altro video viene pubblicato sulla pagina di Amnesty International. Sempre sul ritmo di Gangnam Style, sempre un artista vestito di rosa e nero, sempre una denuncia contro la politica repressiva cinese. L’artista è l’indiano Anish Kapoor che insieme ad altri artisti, attivisti e alcuni dei più importanti musei del mondo lancia un segnale di solidarietà ad Ai Weiwei, Gao Zhisheng e a tutti gli artisti cinesi che subiscono la violenza della libertà di parola negata.

   

Ai Weiwei non si nasconde, ogni giorno pubblica qualche foto oppure lancia un paio di tweet, si mette sotto gli occhi di tutto il mondo. È proprio questa la sua massima provocazione alla politica repressiva, superare i confini imposti dall’alto, espatriare attraverso la rete. Ma l’aspetto più interessante non sta tanto nel suo essere quotidianamente online quanto nell’uso che fa della comunicazione commerciale. Instagram è una vetrina di se stessi, la maggior parte degli utenti sono adolescenti e ventenni che pubblicano fotografie in cui il proprio corpo viene celebrato e spettacolarizzato; grazie ai filtri flou oppure sgranati o saturi che si possono applicare alle fotografie è facile ricreare uno stile backstage da shooting professionale, e la più classica delle immagini che si trova su Instagram è quella scattata davanti ad uno specchio, un viso ammiccante in primo piano e un cesso che si intravede sullo sfondo. Sembra difficile poter anche solo immaginare Ai Weiwei in un simile contenitore. Eppure.

 

Sono di appena una settimana fa tre autoscatti in cui l’artista mostra al popolo di Instagram il suo nuovo taglio di capelli, ovvero una rasatura a zero.  Primo scatto: si ritrae accanto ad una vecchia fotografia, in cui un bambino dall’aria timida guarda dritto nell’obiettivo. Districarsi fra i vari commenti lasciati dai follower non è facile; Ai Weiwei raramente commenta le proprie foto, e non risponde praticamente mai a chi gli scrive chiedendogli spiegazioni. Quindi non sempre l’interpretazione delle sue immagini è immediata. Chi è il bambino nella foto? Prima di leggere i confusi commenti non avevo dubbi: si tratta di Ai da piccolo, che ora con quell’aria un po’ sconsolata mostra il prima e il dopo, totalmente simili. Come dire, più si invecchia più si resta uguali, basta tagliarsi i capelli e il gioco è scoperto. Nel secondo scatto il suo viso riempie completamente l’immagine, un volto immenso che se non fosse così serio potrebbe rievocare alcuni ritratti del Buddha o di Mao Tse-Teung.

 

 

Ma la foto più interessante è senz’altro la terza. Ai Weiwei in preda a un raptus narcisistico, carico di un’auto-ironia strepitosa, fa la duckface: labbra protese in avanti e guance in dentro per meglio mostrare le gote sporgenti con sguardo ammiccante. Non c’è posa più cliché di questa, un altro tormentone degli ultimi anni. Migliaia di ragazze ogni giorno si fotografano con le labbra tirate in avanti a mo’ di papero ostentando espressioni sensuali. Ai Weiwei in questo scatto è tutt’altro che sexy: la luce violenta che lo investe dall’alto provoca delle ombre che deformano il viso, lo sconvolgono. E sullo sfondo l’immancabile termosifone che gli entra nella testa. Cavalca l’uso commerciale dell’immagine per deriderlo con leggerezza, e così facendo lo svela, smonta l’esibizionismo sfrenato denunciandolo con la propria faccia.

 

 

Nel maggio del 2009, poco prima che il suo blog venisse chiuso dalle autorità, scriveva: “Potete pensare, ma non potete parlare. Nessun altro sa cosa state pensando, e quando il dolore e la disperazione appartengono esclusivamente a voi stessi, non ci sono minacce. Ovviamente, stareste meglio senza la facoltà del pensiero indipendente; sarebbe più sicuro, più armonioso. (…) Una società alla quale manchi la libertà di parola è un buio pozzo senza fondo. Quando fa così buio, ogni cosa comincia a sembrare luminosa” (Ai Weiwei. il Blog, Johan & Levi /doppiozero, 2012). Ogni sua traccia su internet è una diretta accusa alla censura che quotidianamente calpesta le voci dissidenti del paese. Anche un autoscatto in cui si ritrae con buffi occhiali arancioni è un segnale di libertà e indipendenza. Come Larry Warsh e J. Richard Allen scrivono nell’introduzione al recente Weiwei-isms (Princenton, pp. 131, $ 12.95; in Italia è in corso di pubblicazione da Einaudi-Stile libero) la libertà di espressione per Ai Weiwei sta sia in quello sforzo quotidiano sui media sia nel suo lavoro di artista: “Le sue convinzioni politiche, la sua vita, la sua arte e le sue comunicazioni digitali si mescolano in un tutt’uno”. Come lui stesso ha detto, “tutto è arte, tutto è politica”.

 

 

È come se in lui fossero attivi due canali espressivi che agiscono contemporaneamente, da una parte la spinta dissidente contro le costrizioni politiche del governo cinese, quindi la denuncia, l’opposizione, e dall’altra parte la scaltrezza mediatica occidentale, conosciuta durante i suoi anni di formazione trascorsi a New York, che pur deridendo usa.

 

Il corpo di Ai Weiwei, imponente e statuario, in rete ha un effetto boomerang. Nel luogo in cui è ostentata la magrezza, dove la carta vincente è creare immagini che migliorino l’originale, lui si gonfia, riempie lo schermo, si fa gigante di se stesso. Molti scatti ritraggono anche l’ambiente in cui vive, gli amici, gli artisti, i collaboratori, quel suo gatto a pelo lungo che una faccia più cinese non potrebbe avere, suo figlio bambino; ma gli autoscatti sono i più irriverenti e originali. Così come Andy Warhol graffiava il contemporaneo con la sua polaroid, Ai trasgredisce le regole sottese dei social network attraverso lo scatto di Instagram (con lo stesso formato quadrato della polaroid). Ai Weiwei denuncia giocando con la rete.

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