Armine, Sister: canto per una strage

14 Maggio 2015

In principio era il verbo, anzi no, non il verbo, e neanche l’azione, in principio era la musica. Quando gli spettatori entrano nello spazio di Armine, Sister, la penombra è tale che a mala pena scorgono le colonne che sono l’essenza scenografica della performance-spettacolo che il Teatr Zar di Wroclaw ha portato sulla scena della Leopolda di Firenze per la XXIIma edizione del festival Fabbrica Europa; più che vedere intuiscono che in mezzo a esse qualcuno, un manipolo di ombre, si agita, striscia, si muove. Mentre la musica è già lì, alza una cattedrale di respiro, invade e pervade ogni cosa con il vento di una voce che si trattiene, si allunga, si condensa: è l’ipnotico bordone di un canto monodico sul quale affiorano altre voci, dapprima appena udibili, poi sempre più nitide e presenti, come arabeschi su un tappeto. È un tappeto orientale, certo, ma di un oriente che ha qualcosa di vicino e insieme di desueto, il gregoriano, il lamento liturgico ortodosso, le voci bulgare: la struttura delle otto voci che la musica tonale si è lasciata alle spalle. Solo la lingua, irriducibilmente altra, né latina né greca, è irriconoscibile.

 

Musici e cantori all’inizio sono nascosti da due teli neri, come il celebrante dietro l’iconostasi nel rito greco, ma il suono avanza comunque, investe lo spazio e ne modifica il sentimento, spiana la strada alla visione o meglio la genera, per focolai e per bagliori che scaturiscono dal basso, à la Latour, illuminando ora una scena ora un’altra: un uomo si stende a terra disegnando un crocefisso; una donna cerca di accendere un lume nella notte che l’assedia, un’altra si slancia come se volesse volare e finisce accovacciata tra le braccia di un compagno che non si sa se la protegga o la imprigioni; una terza fila da un gomitolo di lana rossa una specie di tela di ragno che la irretisce a una colonna; una quarta cade abbracciata a una porta assecondando l’inerzia dolce e fragorosa del suo crollo. Un rebus di gesti impossibile da abbracciare in unico sguardo perché si accendono e si spengono, si inseguono e si succedono anch’essi secondo un canone, mentre suoni e rumori – rintocchi di campana, clangore di porte sbattute, schiocchi di sferze – penetrano nella melodia, ma senza romperla, incorporandosi a essa.

 

Una scena da Armine, Sister

 

La scena cresce in convulsione, in violenza. L’impressione è quella di un’irruzione nel cuore della notte – le abiette sveglie all’alba dei rastrellamenti, come le chiamava Jean-François Lyotard, che accendono i motori della macchina del massacro – ma vista con gli occhi di chi continua a sognare e nella confusione non distingue se stesso dagli altri, il perseguitato dal persecutore. È come stare dentro Guernica, tra le sue madri dolenti, i suoi cavalli urlanti, le sue lampadine oscillanti, o tra i “disastri della guerra di Goya”, scoprendo che l’immagine non sta ferma, trema, sussulta, cambia di pelle: dentro l’immagine, come sempre, il tempo incalza e l’evento si perde fatalmente di vista. Finché l’azione sulla scena si precisa, le donne sempre più torturate – sempre più bianche e nude, solo una si veste con una tunica rossa e si arrampica su un letto di ferro messo in piedi, appollaiandosi in cima come un uccello – gli uomini sempre più torturatori, a petto nudo, accompagnandosi con un grido di incitamento, legano le colonne con corde e tiranti e le abbattono al suolo, una dopo l’altra, per poi rialzarle in un altro punto dello spazio e in una disposizione diversa rispetto a quella originaria.

 

Le colonne segate della chiesa di Sant Theotokos in Anatolia, ph. Magdalena Madra

 

Armine, Sister, ph. Karol Jarek

 

Questa distruzione, e ricostruzione del Tempio, è il cuore di Armine, Sister, più che uno spettacolo, un’evocazione – come lo stesso regista Jaroslaw Fret l’ha definita – dei massacri che cento anni fa di questi tempi rischiarono di cancellare dalla faccia della terra gli Armeni di Turchia. La vox clamantis che la intona è quella del canto modale dell’antica liturgia armena – guidato da Aram Veropyian, uno dei suoi estremi cantori che, ironia della sorte, lo ha appreso da ragazzo nelle chiese di Istanbul – le sue colonne massacrate sono ancora visibili in alcune fotografie scattate in anni recenti, ad esempio nella chiesa di San Theotokos a Tadem, in Anatolia, dove appaiono segate alla base, per consentire al tempo di ultimare il lavoro sporco che dopo aver colpito gli uomini azzera anche la memoria del loro passaggio sulla terra. E quella vecchia macchina fotografica che compare a un certo punto, sistemata sul suo treppiede a guardare in prospettiva a un altro treppiede da cui pende un gancio da macellaio, riproduce uno dei rari gesti di testimonianza compiuti durante i massacri del 1915: il gesto di Armin Theodor Wegner, fotografo e giusto delle nazioni (per armeni ed ebrei) che documentò gli effetti delle stragi ordinate dal governo – laico e progressista – dei Giovani Turchi e alle cui immagini Fret si è in parte ispirato per realizzare la performance.

 

Una scena di impiccagioni e una della deportazione degli Armeni, ph. Armin Theodor Wegner

 

A sfogliare questo agghiacciante album (pubblicato in Italia da Guerini e Associati) si scopre che è la fotografia di una fotografia, ma sulla scena, senza saperne nulla, è l’istantanea derisoria di quell’eccesso di visività e di spettacolarità nel quale è rimasta impaniata l’idea novecentesca di testimonianza. Il visivo, in Armine, Sister, è uno strappo nella partitura, la profanazione e il contrappunto di una liturgia sonora che agli oltraggi della Storia oppone la perennità della memoria musicale armena, il tempio malgrado tutto indistruttibile – “Templi sono ancora in piedi” scriveva Paul Celan in Singbarer Rest (resto cantabile) – del respiro di un popolo. Tutto resta dentro il canto, anche la visione che si nutre della vulnerabilità e della sofferenza dei corpi, posseduti da quel pathos sciamanico tipico del teatro di matrice grotowskiana da cui vengono i performer del Teatr Zar. Ma ugualmente, tutto finisce per avanzare nella luce, come i musici e i cantori che, in uno dei momenti culminanti di Armine, Sister, escono dall’invisibilità e si affacciano sulla scena, rimanendo assieme a tutti gli altri immobili, attoniti, ad ascoltare il rumore della sabbia che scende a fiotti dalle colonne ferite – e annuncia il deserto delle deportazioni. Soltanto nell’epilogo della performance anche la musica viene deposta e le luci si aprono per illuminare la sala, gli spettatori, perché è a loro che Armine, Sister vuole consegnare il senso, e il fardello, del proprio rituale di testimonianza. E qui, in un anticlimax totale, a tratti imbarazzante, Jaroslaw Fret sembra voler abiurare a qualunque spettacolarità e persino alla forma del teatro con una clausola fallimentare che espone una scena vuota e un corpo agonizzante, quello della donna vestita di rosso – che per altro è un’attrice italiana, Simona Sala – un resto, anzi un relitto ben presto semi-sepolto dalla sabbia.

 

Una scena da Armine, Sister

 

Dove lo spettacolo finisce, comincia la withness action, anche se tornati nel loro ruolo di testimoni – come Grotowski suggeriva in un suo testo del 1969, Teatro e rituale, riapparso proprio in questi giorni nel secondo volume della sua opera completa curata da Carla Pollastrelli (Grotowski, Testi 1954-1998, Il teatro povero, Firenze, la casa Usher) – gli spettatori non sanno letteralmente da che parte voltarsi, dove posare gli occhi, dove mettere le mani che non possono più sciogliere in un applauso. O almeno era quello che accadeva nella versione di Armine, Sister presentata nell’aprile scorso al Na Grobli Studio di Wroclaw, in una sala bruscamente sprofondata nel silenzio. “Respicio – scriveva Jerzy Grotowski in Teatro e rituale – è la parola latina che indica rispetto, ecco la funzione del vero testimone; non intromettersi con il proprio misero ruolo, con quella importuna dimostrazione ‘ci sono anche io’, ma essere testimone – ovvero non dimenticare, non dimenticare a nessun costo” (parole che tornano quasi alla lettera nell’opposizione tra rispetto e spettacolo teorizzata da Byung-Chul Han nel suo ultimo libro Nello sciame).  Un arte difficile, il rispetto, il pathos della distanza secondo il filosofo coreano.

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