Sorj Chalandon, la vita come storia
Quanto Ken Loach fa nel cinema, Sorj Chalandon lo realizza nella narrativa. Il vento che accarezza l’erba del primo lancia le cime a Chiederò perdono ai sogni del secondo, riguardando la guerra civile irlandese, mentre The old oak richiama da vicino da un lato Il giorno prima, perché compresi nel mondo delle miniere, e da un altro, interessando istituti minorili di recupero, La furia, ultimo titolo dell’autore francese di origini tunisine. Il mondo com’è, senza concessioni e infingimenti, è per entrambi la terra desolata e irredimibile della sopraffazione, della divisione di classi, del sopruso, ma anche del sacrificio e della barbarie, dove non c’è spazio per indulgenza e buoni sentimenti, ma solo per riscatto e vendetta.
Il premio Tiziano Terzani (che fu giornalista, corrispondente di guerra e viaggiatore) ottenuto nel 2017 testimonia in Chalandon, anch’egli per molti anni giornalista e inviato di guerra, l’appartenenza a una weltanschauung rivolta alle sole classi sociali svantaggiate e alle vite derelitte di individui comuni. Quanto alla tecnica narrativa Chalandon si rifà a un genere, il new journalism, che recupera Truman Capote e Tom Wolfe, ma nei contenuti richiama il romanzo storico nel quale il contesto è reale e i personaggi fittizi, allo stesso modo dunque di Loach che evoca, con toni drammatici forse più acuti, il neorealismo italiano, come egli stesso ha più volte ammesso. Per tali ragioni è labilissimo il limite oltre il quale l’aderenza al reale di Chalandon si muta in invenzione letteraria. Vediamo meglio.
Presente negli anni Novanta nei principali teatri di guerra, Chalandon ha maturato una profonda esperienza del vero che ha trasfuso da narratore in una potente rappresentazione del nostro tempo, elaborando una debenedettiana “epica della realtà” coniugata, con lo stesso sguardo e nello stesso orizzonte, con una “epica dell’esistenza” che, intridendo la sfera interiore, cala l’individuo nel divenire storico e sociale. Se infatti il letterato medionovecentesco tiene distinte le due formule di narrazione realistica escludendo una loro reciproca contaminazione, l’autore franco-tunisino riesce invece a integrare la seconda nella prima con mirabile tecnica diegetica e senza sforzo, offrendo una visione prismatica dei fatti narrati e muovendosi abilmente tra faits divers e res gestae, quotidiano ed epico.
È il caso di La professione del padre del 2015 (uscito in Italia nel 2019 con la Keller di Rovereto che per prima ha tradotto lo scrittore), dove lo scontro tutto domestico e privato tra padre e figlio monta sullo sfondo pubblico della lotta di indipendenza algerina, l’omicidio Kennedy e la fuga di Nureyev dall’Unione sovietica. Unica eccezione, davvero sorprendente, nella produzione di Chalandon è Una gioia feroce (Keller 2023) che è del 2019. Qui l’ambito rimane costantemente privato senza dichiaratamente schiudersi a rivolgimenti politici e sociali, riguardando l’esperienza drammatica di una donna quarantenne, Janne, che nella Parigi di oggi scopre di avere un cancro e deve perciò fare i conti con la vita futura, con il pavido marito incapace di affrontare la nuova condizione e anche con la propria circostanza, fatta di nuove amiche anch’esse in chemioterapia. Il genere è quello della illness narrative, della malattia e del dolore, del tutto estraneo a quello abituale di Chalandon del romanzo engagé. E tanto più questo titolo fuori misura appare nell’orbita più decadentista che naturalista che Janne, in omaggio alla tisica Margherita Gautier di Dumas figlio, chiama “camelia” il tumore che la colpisce.
Si tratta dunque di un’eccezione che, se dimostra la versatilità dell’autore, ne rivela una vocazione intesa a spogliarlo della sua veste tipicamente giornalistica di chroniqueur, sia pure profilata nella ricerca di un contraltare generale che stavolta può essere individuato nella spinta alla ribellione da parte di un gruppo di donne contro la convenzione sociale, le apparenze comuni e i valori consolidati. Volendo dunque tenere anche questo romanzo nel solco del più identitario Chalandon, il penchant realistico è dato proprio dal camusiano spirito di rivolta che lo anima: in un’esaltazione tesa a mutarle da “sorelle di lacrime a sorelle di armi”, le quattro amiche trovano la forza per vincere la loro minorità ordendo un atto ostile contro la società nei modi di una rapina a una gioielleria. La “gioia feroce” che scoprono in loro stesse è allora la rabbia altrettanto feroce che pervade gran parte dei protagonisti dei romanzi di Chalandon votati a maturare sempre propositi di vendetta.
Così è per Michel Flavent di Il giorno prima (Keller 2021, in Francia 2017) che dopo moltissimi anni prende la decisione di vendicare il fratello morto il 27 dicembre 1974 nella miniera di Liévin con altre quarantadue persone; così è anche per Jules Bonneau di La furia (Guanda 2024, prima edizione francese 2023) che odia la colonia penale dalla quale evade e cova, novello Edmond Dantès, sentimenti di giustizia nella forma del taglione; ma anche in La quarta parete (Keller 2016, Guanda 2024, in Francia 2013) e in Chiederò perdono ai sogni (Keller 2014, in Francia 2011) il tema della vendetta fa da basso continuo: nel primo – meno marcato ma più suggestivo – traluce nell’escalation di rappresaglie e scontri che nel martoriato Libano degli anni Ottanta (dove un regista francese vuole inscenare la tragedia “Antigone” con attori di tutti gli schieramenti in guerra) culmina nella strage di Sabra e Shatila e nel secondo si esprime in modo collettivo nei confronti di Tyrone Meehan, il traditore che da eroe della resistenza nordirlandese diventa informatore inglese. Anche il prequel Il mio traditore (Mondadori 2009, in Francia 2008), dove un liutaio francese sposa la causa dell’Ira e diventa un seguace di Tyrone Meehan fino a quando non apprende che è una spia al soldo nemico, riflette un rigurgito di rivalsa che si costituisce come legge morale data da un sentimento necessario.
In Una gioia feroce la vendetta è più sottile perché rivolta in prima istanza contro il cancro, ma è la vita in sé che è chiamata in causa nella sua doppiezza tra un prima e un dopo. Le quattro donne riunite in una comitiva che degenera in banda non concepirebbero una rapina a mano armata se non fossero state, tre su quattro, colpite da un tumore e soprattutto se la loro vita di prima non fosse stata segnata da tribolazioni e torti, sofferenze e inganni gran parte dei quali dovuti a spregevoli compagni e mariti. Matt, il marito di Janne, per esempio: finisce per lasciarla non riuscendo a sopportare un dolore che gli ricorda la perdita del figlio di sei anni e nella caduta dei capelli della moglie vede la propria derelizione, sicché quel che fa è scappare. Janne che rimane sola ad affrontare il “mostro” diventa l’ipostasi delle donne nelle stesse condizioni di menomazione che suscitano solidarietà negli estranei e repulsione nei parenti più vicini. Sono come marinai, ci dice Chalandon con efficace immagine, che a terra stanno ognuno per conto proprio ma in mare si cercano per darsi forza: così è nella sala della chemioterapia dove bisogna trovare compagnia per sostenere un’oltranza anche psicologica qual è la invasiva terapia antitumorale.
Nel caso delle donne amiche per bisogno, pur se la perpetrazione di una rapina quale rivalsa si valga di una doppia sventura, il cancro e i guasti personali della vita passata, non viene però meno il fattore umano, per cui accettano di diventare criminali allo scopo di trovare i soldi necessari a una di loro per riavere la bambina che il marito le cederebbe solo in cambio di molto denaro. La verità si rivelerà ben diversa ma alla fine ecco la catarsi ed ecco l’eccezionalità nella produzione di Chalandon di questo titolo: il desiderio di vendetta contro la messinscena montata da una di loro si traduce in un atto di grazia e di perdono. Straordinario finale di un romanzo palinodico che, se letto a ridosso degli altri due usciti ultimamente in Italia, La furia e La quarta parete, fa pensare a un improvviso testacoda.
Serve forse studiare meglio Una gioia feroce per trovare, quanto a dati di realtà, le commessure con gli altri sei romanzi tradotti in Italia, al di là degli sparsi riferimenti all’identità bretone, alla gioielleria Ritz di Place Vendôme, all’icona della “bimba più bella del mondo” proposta ogni anno su Internet e degli altri rimandi all’esperienza comune. Ma almeno per il momento il Chalandon più autentico rimane quello della denuncia civile, dell’urlo gridato al mondo sordo, il reporter querelante degli sfagli sociali e politici. La furia lo rappresenta appieno.
Lo spirito del romanzo (che richiama l’evasione nell’agosto 1934 di cinquantasei ragazzi dalla colonia penale di Belle-Île-en-Mer, isola francese sull’Atlantico, tutti catturati tranne uno) si fonda su un interrogativo: un minorenne può essere considerato un criminale e trattato come tale? Se lo è, allora può apparire giustificata la sua ribellione come pure la vendetta contro le angherie subite dagli adulti. Jules Bonneau (nome preso in prestito dal bandito degli anni Dieci Jules Joseph Bonnot, simbolo dell’anarchia al servizio del crimine) è il solo detenuto che sfugge ai gendarmi e a tutta la popolazione dell’isola impegnata nella caccia agli evasi. Chalandon ne immagina le peripezie in tre ambiti diversi: l’iniziale dramma umano vissuto nella colonia, la successiva avventura per mare e la vicenda politica nella quale finisce invischiato.
L’intento è di fornire un quadro esaustivo del tempo, essendo proprio di questo tenore la cifra dell’autore, che non si obbliga a un solo genere e passa con nonchalance dal romanzo sociale a quello d’ avventura: la stessa disinvoltura con cui, adottando sempre la prima persona (anche in Una gioia feroce esprimendosi da donna), non si fa velo di migrare da una focalizzazione individuale, per cui può raccontare solo quanto accade in presenza dell’io narrante, a una condizione di onniscienza, nella quale è capace di riportare persino dialoghi svolti in assenza dello stesso narratore. Per modo che in La furia seguiamo i pietosi eventi che capitano a un calco di Tom Jones o di David Copperfield degno di “Mare fuori”, poi la rocambolesca fuga in un’isola e quindi in mare alla maniera di Jan Baalsrud, il protagonista del film Caccia al 12° uomo del 2017 che racconta le gesta del patriota norvegese preda nel 1943 dei nazisti, il solo del commando a non essere catturato, infine leggiamo le disavventure sulla terraferma di Jules alle prese con le mene politiche del comandante fascista Francis Mével. Troppa roba, verrebbe da dire, senonché Chalandon è uno scrittore che non concentra ma dilata nella smania di creare plessi armonici entro un poligono di certezze.
Lo vediamo in La quarta parete, dolente epicedio agli orrori della guerra in Libano. Il progetto di rappresentare a Beirut, in una scenografia fatta di macerie, “Antigone” di Jean Anouilh implica la scelta tra leggi statali e leggi morali, ovvero tra guerra necessaria e ragion di Stato da un lato e pace agognata e convivenza umana da un altro. Chalandon riprende l’inesausto parallelo politica-cultura per tentare di anteporre il bene della conoscenza al male dell’insipienza, madre di ogni stortura. Così facendo carica il romanzo di un effetto ideologico che gli altri, a cominciare da La furia, non hanno. Dice Georges, il regista che deve scritturare nemici quali sono falangisti, maroniti, arabi, drusi assegnando ad ognuno un ruolo: «Volevo mettere in scena la rabbia, quella vera». Per farlo gli occorre abbattere la quarta parete, immagine diderotiana che indica la presenza del pubblico con il quale gli attori interagiscono o che, come sarà in Pirandello, partecipa alla scena, ma che in Chalandon assume il significato di muro eretto tra attori e mondo esterno. «La quarta parete è quella che impedisce agli attori di scopare con il pubblico» dice a Georges Samuel Akounis, il produttore malato terminale che cede il posto all’amico perché il progetto venga realizzato. E allora la quarta parete è “il confine del reale” che separa bellezza e bruttura, pars costruens e pars destruens, nella consapevolezza che, come dice Akounis, «l’internazionalismo è il lusso di un uomo che ha una nazione».
Un’altra opera virtuosistica di mescidazione tra storia e finzione Chalandon la compie con Il giorno prima. Il titolo indica un fatto che avviene non il 27 agosto 1974, quando quarantadue minatori muoiono per colpa del grisù, ma il 26, quando Michel e il fratello Joseph hanno un incidente in motoretta e il secondo, atteso alla miniera, finisce in ospedale dove muore qualche settimana dopo. Trattandosi di una sciagura realmente accaduta e non potendo il nome di Joseph figurare nel marmo delle vittime, l’autore adotta l’espediente della morte ritardata ma nondimeno collegata alla miniera perché il minatore vi era diretto, accompagnato dal fratellino. Morto dunque come gli altri per colpa della miniera, il padre lascia una lettera che nel 2014, all’età di cinquantasei anni, Michel trova e fa sua quanto alla richiesta di vendicare Joseph. La forzatura, che rende implausibile come ci si possa vendicare dopo quarant’anni dando la morte a vecchi pensionati che l’aspettano da un giorno all’altro salva però per intero il clima nel quale matura la catastrofe e opera l’industria estrattiva del carbone. La rappresentazione della realtà è esemplare.
Altrettanta fedeltà al dato storico, senza indulgere in nessuna inverosimiglianza, si ritrova in Chiederò perdono ai sogni, dove Chalandon narra la storia di un militante dell’Ira, Denis Donaldson, attraverso il personaggio di Tyrone Meehan che, ormai vecchio, si ritira nel paese natale (“Ritorno a Killybegs” è il titolo originale) aspettando la vendetta dei vecchi compagni dell’Esercito di liberazione. Il titolo molto evocativo mutua l’auspicio di Tyrone di mettere la pace aiutando gli inglesi e i protestanti a vincere la guerra, così da poter chiedere, sia pure per una causa giusta, perdono del tradimento ai compagni rimasti uccisi come anche ai sogni personali di una Irlanda del Nord libera. Rabbia e vendetta dominano la trama («Eravamo pazzi di rabbia, ubriachi di vendetta» dice l’io narrante) in un crescendo di odio, di morte, di martirio ed eroismo. In perfetta linea con il complesso dell’opera di Chalandon. Che se un registro non cambia mai è quello stilistico: sempre sincopato, fatto di proposizioni nominali, essenziale e povero di aggettivazioni. Brillante, epperò troppo insistito nelle descrizioni; piano e scorrevole, ma incline a divagazioni e digressioni che sembrano voler prendere la mano all’intreccio.
In questa prospettiva lasciano davvero perplessi le cadute formali e i modi espressivi ai quali lo scrittore cede senza ragione molto spesso. Un rapido e sintetico florilegio, titolo per titolo, è sufficiente. In Una gioia feroce leggiamo: “Le pieghe delle lenzuola sposavano le nostre forme”, “Il giorno piangeva sulle piastrelle”; in La furia “La tempesta urlava la forza delle onde”, “La pioggia sottile che si invitava al tavolo della nostra disfatta”, “Mi sedetti su una sedia impagliava che sonnecchiava alla finestra”, “Una luce che già mormorava l’autunno”, “Il rumore dell’auto che faceva spazio al silenzio del mare”; in La quarta parete “Il mio corpo era stupefatto. Una luce polverosa squarciava l’asfalto”, “Ho aspettato la risata dei gabbiani per respirare”, “Ho applaudito fracassando il silenzio delle mascelle contratte”, “Sussurrava la seta delle parole”; in Il giorno prima “Quando nascondevo una lacrima nelle mani lei era con me”, “Il mio corpo si mise a urlare, come all’alba le vedove piangono le tragedie”; e in Chiederò perdono ai sogni “Avrei aperto il suo letto di terra e ci avrei gettato la mia infanzia”.
Perché Chalandon senta di dover colorare con immagini icastiche e tutto sommato superflue, così stridenti con il tono giornalistico che osserva, è incomprensibile. Assecondare certo bellettrismo a danno di un rigore stilistico che fa sempre premio nell’autore appare una brusca frenata, una nota stonata come quella fin troppo recidivante di personaggi che, trovandosi a disagio, non riescono mai a respirare. Ma tra le tante espressioni di maniera, fatte per suscitare sospiri e destinate a determinare sussulti, una va senz’altro conservata e posta a egida dell’intera opera. Si trova in La furia: “La luce in fondo al tunnel può essere un treno che viene addosso”.