Lo schermo della psiche / Al cinema con lo psicanalista
Cinema e psicoanalisi, come ci ricorda Vittorio Lingiardi nel suo Al cinema con lo psicoanalista (Cortina editore, 2020, pp. 203, euro 15) nascono insieme: “nel 1895, mentre i fratelli Lumière proiettano al pubblico del Gran Café del Boulevard des Capucines le loro scena di vita quotidiana, Sigmund Freud pubblica gli Studi sull’isteria e Il progetto di una psicologia”.
E sebbene all’inizio sia Freud a restare “completamente ammaliato” dal flusso di immagini che usciva da quella che allora, come tutti, chiamava la “lanterna magica”, con il passare del tempo, fu piuttosto il cinema a subire il fascino della psicoanalisi, specie di quella junghiana benché nella vastissima produzione di Jung, a quanto mi risulta, non si trovi mai alcun esplicito riferimento alla settima arte. Tuttavia il suo approccio al linguaggio dei sogni, più simbolico e meno semiotico rispetto a quello di Freud, è stato considerato da molti registi cinematografici più adatto a rendere l’essenza del cinema, non a caso definito a lungo “la fabbrica dei sogni”. La ragione, secondo Federico Fellini, è che “Freud vuole spiegare ciò che siamo, mentre Jung è un compagno di viaggio, uno scienziato veggente (…) ci accompagna sulla porta dell’inconoscibile e lascia che vediamo e comprendiamo da soli” (F. Fellini, Sul cinema, a cura di G. Gazzanini, Il saggiatore, Milano, 2019, p. 131).
Il discrimine è probabilmente dovuto al diverso modo in cui i due si aprivano al materiale inconscio, specie per come appare in sogno, al quale molti registi hanno paragonato il cinema; mentre Freud sembrerebbe interessato soprattutto a rintracciare il significato latente e inconscio da portare alla luce della coscienza, sotto forma di messaggio decodificato, il fondatore della psicologia complessa, poi meglio nota come del profondo, guarda al sogno come a un linguaggio altro che non necessita “di nessuna interpretazione, rappresenta il suo proprio significato”, non è dunque “un travestimento di qualcosa di diverso” ma costituisce semmai un diverso modo di organizzare l’esperienza e il senso, che potrebbe aiutarci a ridimensionare quello che chiamava “il monoteismo della coscienza” e del quale, dunque, dovremmo fare tesoro (C. G. Jung, Psicologia e Religione, Opere vol. 11, Bollati Boringhieri, pp. 86 e 400).
Un approccio che sembrerebbe essere consonante a quello di Lingiardi se è vero, come scrive, che dopo aver visto un film si sente più analizzato che analista, “la mia poltrona, per una volta non è dietro per interpretare, ma davanti per partecipare”, l’analista è il cinema, definito “un supervisore attento dei nostri sintomi, la memoria della nostra commozione, il rabdomante di una sorgente erotica sepolta”, nonché un fenomenale dispositivo psicodinamico perché “una mente che incontra una storia non è più la stessa” (Lingiardi, p. 2).
Dichiaratamente junghiano è l’approccio di Angelo Moscariello, L’altra parte. I fantasmi della psiche al cinema, (Moretti & Vitali, pp. 117. Euro, 12) secondo il quale “davanti allo schermo Jung è meglio di Freud”, per il suo modo di invitarci a preservare il mistero che caratterizza tanto il linguaggio simbolico delle immagini, quanto, per Godard, quello del cinema (p. 20).
Moscariello ci invita infatti a sondare quei fantasmi della psiche che un certo tipo di cinema, non didascalico, si rivela capace di rappresentare offrendoci la possibilità di portare alla coscienza “l’altra parte della psiche che abita nascosta dentro di noi” e di rivelarsi così una straordinaria opportunità per il “laboratorio trasformativo” dell’inconscio per il quale, osserva Jung, “la fantasia è altrettanto reale quanto siamo reali noi come creature psichiche” (pp. 109-110). Ciò che interessa a Moscariello non è dunque l’interpretazione del film, men che meno la pseudo-psicoanalisizzazione del suo regista o dei suoi personaggi, ma gli effetti di risonanza e amplificazione che il film può produrre in chi lo vede, grazie a quello che chiama “il sovrapporsi di due flussi di coscienza: quello fatto di immagini che scorrono e quello che si attiva nella nostra mente di spettatori, secondo una dinamica di accordi e disaccordi emotivi con le immagini che vediamo”. (p. 107). Analogamente, secondo Lingiardi, il film è sempre “metà di chi lo gira e metà di lo guarda” (p. 9), potremmo dire, con Gaston Bachelard, che è il luogo fisico in cui “lo spazio intimo e lo spazio esterno, si incoraggiano nella loro crescita” (G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, 1984, p. 222).
Ed effettivamente l’attenzione al modo in cui il mondo interiore entra in risonanza con quello proiettato sullo schermo, è al cuore di questi due libri che fanno dei film che passano in rassegna – in appena trenta righe, quelle apparse per la rubrica PSYCHO del Venerdi di Repubblica Lingiardi, e in forma più analitica e ampia da Moscaariello – dei pretesti per indagare e mettere a fuoco le questioni che abitano la psiche, privata e pubblica e che la finzione, poietica, come sottolineava già Aristotele, permette di comprendere meglio di una loro analisi diretta, che alcuni fenomeni difensivi possono indurci a non guardare direttamente in faccia. (Aristotele, poetica, 141, a-b).
La negazione e la rimozione sono le sue due più celebri armi ma insieme alla proiezione, che è il vero fenomeno psichico che permette di tracciare una reale analogia con il cinema, come colse bene lo psicoanalista junghiano Erich Neumann, curiosamente ignorato da entrambi:
“Come nel cinema, dove sul piano di proiezione costituito dallo schermo appare un’immagine posta alle spalle dello spettatore, così i contenuti dell’inconscio vengono proiettati del tutto indirettamente, come contenuti del mondo esterno, e non vengono sperimentati come contenuti dell’inconscio. Così un demone non rappresenta una parte dell’uomo, ma un essere presente e attivo nel mondo esterno. Accanto a quello esterno esiste anche un piano di proiezione interno, sul quale si rispecchiano i contenuti dell’inconscio. In quanto fenomeni interiori, essi non vengono attribuiti al mondo esterno, ma mantengono, come nel sogno, il loro carattere proiettivo” (Erich Neumann, La grande Madre, Astrolabio-Ubaldini, 1978, pp. 30-31).
Spazio fecondo in cui la psiche può emergere, essere vissuta, e messa in risonanza con quanto vede nello schermo, il cinema non racconta solo la storia che narra ma aiuta spesso a svelare quella di chi osserva, inquadrandola da nuovi angoli prospettici o offrendo, indirettamente, nuovi strumenti di comprensione e inedite chiavi di lettura, come accade temenos della stanza d’analisi dove il nostro mondo interiore, e il suo funzionamento, possono emergere, essere vissuti, osservati e così, persino, trasformati.