Il barocco ovvio
Un marinaio grida “mare ti amo” ai flutti, due suore accudiscono un ragazzone in coma, un’anziana rivive il suo amore che non c’è più evocandolo sulla scena. Sono le tre situazioni presentate nella Trilogia degli Occhiali di Emma Dante, che torna alla sintesi della scrittura scenica con la sua compagnia dopo produzioni internazionali, romanzi e regie alla Scala. Il teatro della regista e autrice palermitana procede per visioni che si sviluppano tramite picchi emozionali, fabbricando effetti che negli anni hanno costruito un linguaggio: situazioni drammatiche presentate per segmenti narrativi affiancati; iperboli grottesche di una superficie della rappresentazione che cela significati metaforici; musiche ad alto tasso di emozionalità che esaltano il tono delle azioni; oggetti e scene usati simbolicamente, che parlano quanto la marcata carica espressiva delle partiture fisico-gestuali degli attori. Sono i caratteri che ritroviamo in questa trilogia, tre parti di una sola commedia umana ma pure frammenti autoconclusi che ambiscono a contenere in sé il mondo.
S’inizia con Acquasanta, un marinaio di fronte a un metonimico scheletro di barca: è legato a terra da funi alle cui estremità sono appese ancore. Il suo è un monologo rivolto allo spettatore, personaggio consapevole del pubblico che racconta momenti di sopraffazione. L’uomo s’abbandona a canti liberatori e si agita a scatti, nel suo corpo si sovrappongono le voci di mozzi e capitani che lo accusano di omosessualità. Vorrebbe correre, forse fuggire, ma può solo ciondolarsi avanti indietro e in alto, attirato dalle ancore. Il suo mondo è visto dal mare, è un mondo che «si allontana» inesorabilmente perché nemmeno tra pari esiste più speranza di conforto. Fra braccia tenute a mezz’aria sulle note di Titanic e lamenti di solitudine venati da refoli di Sigur Ros, le parole sembrano susseguirsi all’infinito per dire tutta la sofferenza di chi ama e non è amato. Non resta che rivolgersi all’impassibile mare, ma anche qui sono schiaffi delle onde, “doppiate” dalla voce dell’attore (Carmine Maringola). Serve a poco il candore della schiuma, sempre appesa al labbro con un gioco di saliva: nel mondo di oggi la purezza è messa ai margini, sfruttata, vilipesa.
Il Castello della Zisa si presenta colmo di indizi: altarini, croci, due bambole di ceramica ai lati. Due suore nevrotiche accudiscono un uomo (Claudia Benassi, Stéphanie Taillandier, Onofrio Zummo), mollato su una sedia e stimolato a reagire da birilli giocattolo, palle di pezza e hula hoop lanciati dalle religiose. La coppia s’aggira nello spazio, bisticcia, sussurra alterchi in francese, fino alla risposta del malato, che lentamente prende vita. Saranno grida di gioia, corse e cadute nello spazio, subitanei innamoramenti di corpo e occhi per un mondo nuovo: la caricatura di come c’immaginiamo debba avvenire un “risveglio”. Biascicando parole, il ragazzo chiede di sua Zia, lui che è «della Zisa»: ma nel passato è accaduto qualcosa che non può essere rivelato e che soffoca un presente solo in apparenza ilare. Intanto le bambole di ceramiche si sono fermate, nonostante le ripetute cariche delle donne e i loro goffi gesti sincronizzati. L’anima dell’inanimato ha vita breve se il presente è arido: oggetti o carne fa poca differenza.
Ballarini ha una luce crepuscolare. Sui lati due bauli, nello spazio due giovani travestiti da vecchiardi che tossiscono, scatarrano e indossano maschere che raddoppiano la finzione (Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco). Passi faticosi, abbracci lenti, poi il sussulto di una palpata e torna la vita: la prima “moneta” per far scorrere un Juke-box dell’amore che è stato, partendo da E se domani per arrivare al Tango delle Capinere. Non ci sono parole, le due figure scivolano gioiose sullo swing del Ballo del mattone, compaiono un velo da sposa, un pancia gonfia, un bambino di pezza; infine viene rubato un primo bacio, preludio del “naturale” matrimonio siciliano. Nel frattempo scorrono ininterrotte le canzonette popolari, difficile dire se fungano da sfondo per le sequenze di azioni o viceversa. Dopo che Morandi è andato a cento all’ora e a decibel sparati calano buio, tristezza, solitudine della fine: l’uomo s’adagia nel baule, la ragazza rimette la maschera da vecchia e raccoglie i resti delle gioie di una vita. Anche le lucine da festa del patrono devono spegnersi, è stato tutto un sogno, forse l’ultimo, forse l’unica possibilità rimasta. Applausi scroscianti.
All’inizio degli anni zero, l’apparizione di Emma Dante era stata salutata come una ventata di aria nuova in un panorama teatrale che spesso si è accontentato di etichette: da una parte la reinvenzione della sintassi scenica dei gruppi nati all’inizio degli anni ‘90 (giunta a un pieno riconoscimento, quindi già non più nuova...), dall’altra una nuova emersione di opere che rimettevano al centro elementi più tipicamente teatrali: il lavoro dell’attore sul personaggio, una testualità che finalmente poteva ambire a divenire drammaturgia scritta, una ritrovata linearità del racconto. Fra gli addetti ai lavori è circolato un refrain: dopo i teatri ‘90 e prima dei puntiformi anni zero, le uniche novità degne di nota sono state il fenomeno dei narratori e il teatro siciliano di Emma Dante, divenuto linguaggio e come tale spunto più o meno volontario di ispirazione a partire dalla vittoria al Premio Scenario nel 2001. Quel teatro, allora, aveva colpito un po’ tutti: forte era la potenza visionaria, il “teatrale”, ma altrettanto vigoroso era il programma di non rinunciare al racconto, sebbene asciugandolo, riducendolo all’essenziale, presentando e indagando situazioni già date più che svolgimenti di conflitti e azioni: dalla siccità che esplode in una doccia liberatoria di vapori nel primo mpalermu (2001) al tavolo da pranzo che funge da bara nell’interno famigliare asfissiante di Vita Mia (2004), dall’assenza della madre che si transustanzia nel travestitismo del figlio in Mishelle di Sant’Oliva (2005) alla sfilata di moda dei Cani di Bancata (2006), intenti a celebrare un rito mafioso che ha tutti i caratteri di una funzione eucaristica.
Di fronte alla Trilogia degli Occhiali, che ha debuttato circa un anno fa (lo abbiamo visto a gennaio ai bolognesi Teatri di Vita), si resta ora con una sensazione di inattualità, di storie che evadono dalle nostre lenti cercando un riparo in un mondo che negli ultimi dieci anni è mutato radicalmente. Da un punto di vista puramente linguistico lascia non pochi dubbi la semplicità dello stile antifrastico che corre lungo le opere: vecchi che si palpano, suore che corrono, bisticciano, si prendono a calci. Dieci anni fa non stavamo tutto il giorno su Facebook, non eravamo abituati a interagire, a cliccare spostando pagine e creando mappe mentali nevrotiche. Ora lo spezzettamento dei piani è la normalità, il multitasking un’ovvietà, lo stile grottesco e paradossale la quotidianità dei video di YouTube. Il barocco, inteso banalmente come sovrapposizione, giustapposizione, accumulo di elementi inizialmente non assonanti è divenuta la sintassi dei nostri sguardi sul mondo, e anche delle nostre interazioni: il disegno di questa trilogia sembra invece tornare indietro ad accostamenti semplificati, dove una musica trasognata evoca la solitudine di un marinaio reietto e la frizione sulla superficie dovrebbe prodursi grazie a gesti di suore che lanciano palle di pezza sul viso di un ragazzo inerte. Ma questo è ciò che vediamo ascoltando i nostri politici in tv e i loro imitatori, navigando nelle maglie dell’intrattenimento del web, creando contenuti per i social network. L’immobilismo antropologico che affligge i nostri costumi è forse lo stesso che fotografa la Dante, ma si è insinuato nei gesti che compiamo tutti i giorni, rendendo il problema se vogliamo ancora più spesso. Dieci anni fa eravamo nel pieno degli anni televisivi italiani e forte era la necessità di fotografare il presente, per rilevarne i contorni e così provare a capirlo. Dieci anni fa era fondamentale che qualcuno si prendesse la responsabilità di farlo – come ha fatto insieme ad altri la Dante – come se fosse il primo doloroso passo per prepararci a invertire la rotta, a dire qualche no in più, a reagire. Ma oggi assistere ai bozzetti di questi circoli senz’aria che spingono a fughe nel sogno ci porta a spostare sull’opera domande divenute ineludibili, a maggior ragione per l’arte. Viene da chiedersi quale sia la proposta affinché il disincanto che resta fra le mani dopo la Trilogia possa diventare pungolo per agire, per spostare i termini di un discorso che conosciamo troppo bene, per evitare di crogiolarsi nell’autocommiserazione. Per fare in modo, per dirla con Giorgio Vasta, che l’intelligenza non faccia parte della resa, o peggio di una distrazione che si è insinuata quasi ovunque.
Lorenzo Donati