Con L’uomo della sabbia attraverso gli spettri della realtà

16 Novembre 2011

Scoprire in quali pieghe si addentra il percorso dei Menoventi – ovvero di Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele – è avventura per spettatori curiosi e attenti, felici di ancorarsi a una poltrona che quanto più sarà salda, tanto più potrà capovolgere e rimescolare i pensieri, rubando ogni certezza. Per la compagnia romagnola (per due terzi d’adozione) il tessuto della realtà e le sue infinite increspature sono quanto mai materia di lavoro, luogo denso in cui agire l’attore e i suoi strumenti. “In realtà sta a capo all’ingiù la realtà”, segnala il punto -18 del “termometro” alla rovescia che scandisce la ricerca dei Menoventi: un percorso che avanza per sottrazione, rubando allo spettatore tutto ciò che possedeva per sentirsi al sicuro nel buio della sala (perfino l’anima, come nel radiodramma Il contratto, ispirato al precedente Postilla, spettacolo per un solo spettatore).

 

 

Con gli ultimi lavori i Menoventi sembrano introdursi sempre di più nel fondo di labirintiche questioni. Per Santarcangelo 41, oltre a Il contratto, la compagnia ha costruito un “reale” e lucidissimo raggiro, Perdere la faccia, dove la menzogna agisce in maniera radicale fin dalla fase promozionale dello spettacolo. Pubblicizzato come un cortometraggio in collaborazione con il regista Daniele Ciprì, si scoprirà poi essere la ripetizione tendente all’infinito della presentazione del film (che in realtà non è mai stato girato). Il loop porterà infine il meccanismo finzionale a trasfigurarsi e implodere, illuminando qualche preziosa traccia di reale in fondo all’intima infinita libertà dell’attore.

 

 

Proprio in quella zona limite in cui ha luogo la corrispondenza tra spettacolo e spettatore, là dove vige il patto teatrale fondato sulla “sospensione dell’incredulità”, fa ingresso la scrittura di E.T.A. Hoffmann, che investe e attraversa l’ultima fatica della compagnia, L’uomo della sabbia. Capriccio alla maniera di Hoffmann. Prodotto da Emilia Romagna Teatro, presentato a Modena lo scorso ottobre in occasione di Vie Scena Contemporanea Festival, lo spettacolo vede in scena, per la prima volta insieme a Battiston e Miele, Tamara Balducci, Tolja Djokovic, Francesco Ferri e Mauro Milone. Il titolo è un gioco di rimandi che fa riferimento ad altri testi dello scrittore romantico (Pezzi di fantasia alla maniera di Callot e La principessa Brambilla. Un capriccio da Jacques Callot), ma fa leva sulle vicende dell’omonimo racconto del 1816, in cui si narrano gli accadimenti bizzarri che turbano la vita di Nataniele, il giovane studente tormentato dal ricordo di una fiaba dell’infanzia, quella dell’“uomo della sabbia”, per l’appunto. La meravigliosa creatura del sonno che getta manciate di sabbia negli occhi dei fanciulli perché cadano addormentati farà presa sulla mente del bambino e poi dell’adulto Nataniele, assumendo umane sembianze – quella dell’avvocato Coppelius, poi dell’ottico Coppola – e segnando il suo destino. Tra la struttura epistolare e quella narrativa in terza persona, L’uomo della sabbia di Hoffmann accompagna subdolamente il lettore in un percorso tortuoso dentro e fuori dalla mente del protagonista, replicando attraverso espedienti letterari la dissoluzione dei confini tra realtà accaduta e realtà immaginata. Il racconto, celebre per esser stato al centro delle teorie psicanalitiche sul “perturbante”, si annoda attorno al tema della visione e della sua perdita: tornano infatti più volte riferimenti a occhi, sguardi e strumenti ottici (autentici spettri, “strumenti per vedere”), che costruiscono nella storia un allegorico prisma dello sguardo, deformante e rivelatore dell’immagine della realtà.

 

 

Se per Hoffmann la scrittura trasporta e abbandona come un’onda continua il “carissimo lettore” da lui apostrofato, il Capriccio dei Menoventi si attiva come una grande macchina desiderante, proiezione della mente di Nataniele, i cui cardini ruotano sugli elementi concreti dell’arredo scenico. Il sipario, il boccascena, il fondale, una porta, formano insieme agli attori un sistema tanto perfetto quanto incoerente, scatenando un gioco di anomali incastri fra le vicende. Così smembrata, la storia dell’uomo della sabbia vive di propria immaginifica vita, producendo fantasmi su fantasmi, moltiplicando e intersecando i piani della realtà. La regia di Gianni Farina opera attraverso più strati finzionali, posizionando i personaggi su differenti livelli di rappresentazione, che corrispondono a diversi gradi di rapporto con la platea. Il pubblico si trova così di fronte a uno spettacolo che asseconda in un primo momento le sue attese di spettatore, mentre tutto lavora affinché il suo sguardo venga subdolamente assorbito nella voragine della scena; come se una fessura, un invisibile strappo si allargasse sul “cielo di carta” delle cose visibili, lasciandolo vagare, perduto nel flusso incontrollato della mente.

 

Ad abitare la trasparenza, il carattere fluido di questa rappresentazione a più piani, è proprio l’uomo della sabbia (ovvero Coppelius, oppure Coppola) interpretato da una fiabesca e luciferina Consuelo Battiston. “Motore” di tutti gli sguardi della storia, si muove con disinvoltura tra un livello e l’altro, inserendo una serie di errori nel sistema rappresentativo, e divertendosi un mondo nel farlo. Nataniele, la sua giovane fidanzata Clara, il dottor Spallanzani e sua figlia Olimpia (la fanciulla-automa che è ulteriore mise en abyme, simulazione di vita nella simulazione della vita) recitano le scene che sono state scritte per loro. Ma ci si accorge ben presto che non tutto va come deve andare, il nastro degli eventi si inceppa, poi si riavvolge, tutto viene destinato a ripetersi e a sovrapporsi.

 

 

È sufficiente che Coppelius sposti una sedia, che modifichi un piccolo dettaglio della scena a cui noi (e lui) assistiamo, perché i dialoghi e i gesti dei personaggi perdano ogni logica e la linearità del tempo si spezzi in infiniti frammenti non più ricomponibili, ma segretamente interdipendenti. I tendaggi si aprono e si chiudono, oppure si sollevano solo in un punto a rivelare una porta nascosta, una scrivania; gli oggetti utilizzati sono a volte invisibili per i personaggi, a volte per lo spettatore, apparendo e scomparendo nella ripetizione ossessiva: Clara porge un vassoio di tartine immaginarie, oppure versa più volte dell’acqua in un bicchiere già pieno, fino a farne “traboccare” la presenza. Uno sperduto individuo con una banana in mano, estraneo alla storia, s’imbatte a volte nelle scene (o sono le scene che s’imbattono in lui?) istaurando relazioni impossibili con i personaggi, in una dimensione senza sosta oscillante tra il familiare e l’estraneo, che ci riguarda molto da vicino. In un crescendo che spezza la storia in particelle sempre più piccole, lo spettacolo arriva a un limite oltre il quale non può più andare: come nei sogni i personaggi mutano voce, si scambiano le identità, il ritmo aumenta fino trovare tregua nella scena finale, dove Nataniele viene sottoposto – in un istantaneo tableau vivant – a L’estrazione della pietra della follia, con chiaro riferimento all’opera di Bosch.

 

A teatro con i Menoventi non è possibile dimenticarsi della propria posizione di “partecipanti”, pur rimanendo comodamente seduti per tutto il tempo al proprio posto. Come di fronte a un’incisione di Escher, è lo sguardo dello spettatore che deve spostarsi, scomporsi e reinventarsi continuamente. Gli appigli familiari vengono celati o trasformati, mentre in trasparenza emergono i confini dentro i quali ogni prospettiva è costretta, le cornici nelle cornici in cui precipita all’infinito la nostra percezione della realtà. I Menoventi si confermano autentici fabbricanti di immagini per la mente. Lasciando poi che queste immagini si allontanino da noi, che conservino la sacralità degli spettri, la separazione insanabile che questo termine porta con sé, il loro lavoro scava senza sosta, cercando di affondare verticalmente nello spiraglio che dalla realtà percepita apre al reale.

 

 

Nel disegno di Marco Smacchia, che accompagna su una cartolina le repliche de L’uomo della sabbia, gli strati di carta sovrappongono in parte due figure somiglianti, che vivono della tensione che le spinge a coincidere all’infinito, senza consumarla mai. E infatti: “Enorme è la distanza tra il desiderio e l’azione”, ci avvertono le note di regia. Solo un “capriccio”, una visione oltre la vista, una pura produzione della mente, può imitare il desiderio, tuttavia senza mai afferrarlo. L’uomo della sabbia ripete sogghignando: “Torno sempre. Torno sempre”. È lui a ricordarci che aprendo piega dopo piega non si può mai smettere di gettare lo sguardo sempre più avanti, che il vero senso di qualsiasi ricerca sta nel suo movimento incessante. Per guardare il mondo intorno a noi gli occhi non sono sufficienti, non è sufficiente la ragione: occorre rompere ogni volta l’automatismo del pensiero, provocare spaesamento, produrre sempre nuove inattese immagini della realtà.

 

Alessandra Cava

 

Foto di Chiara Ferrin, disegno per L'uomo della sabbia di Marco Smacchia

 

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