Tomas Alfredson / La Talpa
Siamo all’inizio degli anni 70 quando Control, il capo del Circus, i servizi segreti britannici, è rimosso dall’incarico a seguito di una missione andata male. Con lui esce di scena il fido braccio destro, George Smiley, mentre subentrano Percy Alleline e Bill Haydon.
Proprio grazie alla fuoriuscita, Smiley si rivela perfetto per una missione segreta e delicata: scoprire l’identità di una talpa infiltrata ad altissimi livelli che lavora per Karla, ovvero il KGB, i servizi segreti sovietici.
La più classica delle trame spy per uno dei romanzi più venduti della storia, scritto dal guru del genere John Le Carrè.
Control, Smiley, Alleline e Haydon sono rispettivamente interpretati da John Hurt, Gary Oldman, Toby Jones e Colin Firth. Eccellenza di attori inglesi allo stato puro. Crème de la crème. Tutti perfetti e tutti grandiosi. Poco importa se i cultori di Le Carrè non riconoscono in Oldman l’omino basso e un po’ grigio descritto nel libro. Le Carrè con vezzo à la Hitchcock ha benedetto il film comparendo come cameo nelle vesti di Babbo Natale durante la festa del Circus. E Oldman non ha nulla da invidiare al Sir Alec Guinness che in questo ruolo lo precedette. E come lui il resto del cast è perfettamente in ruolo e assolutamente in forma. Una grandissima prova di attori orchestrati da un regista vero, che ha una visione personale fortissima e piena di convinzione, determinazione, rigore e musica.
Una scacchiera coi volti dei protagonisti appiccicati sopra con povero nastro adesivo: un’immagine che detta le regole stilistiche di tutto il film.
Squadrature, linee rette, diagonali. Porte, corridoi, finestre, ascensori, scrivanie.
La talpa (Tinker Taylor Soldier Spy)è un concerto di quadrature, toni grigi, carrelli lenti e inesorabili dove la storia gira su stessa e attorno ai protagonisti, facendo avanti e indietro, riuscendo a non incagliarsi mai e a scorrere, a tratti sincopata, verso un finale straordinariamente misurato, che esplode in una versione inaspettata di La mer, pezzo di Charles Trenet qui interpretato da Julio Iglesias. Una scelta perfetta per accompagnare quel guizzo da grande attore che passa sul volto, per lo più (apparentemente) inerte, di Oldman/Smiley.
Se Lasciami entrare (Let the Right One In) era una sinfonia di freddo, neve e bianco abbagliante, dove il movimento era verticale, qui Tomas Alfredson sceglie movimenti orizzontali, squadrature e colori grigio verdi, sempre un po’ polverosi, che ricreano non tanto l’atmosfera di una spy story delle più classiche, la caccia alla talpa, ma che riconducono in un’epoca, reale e cinematografica, l’Inghilterra degli anni 70, gli anni della Guerra Fredda. Mancano gli odori ma per ciò che resta i nostri sensi sono tutti colpiti e affondati dalla perfetta ricostruzione: scene, costumi, ambienti, musiche, pettinature, montature, luci, tessuti e quella fotografia quasi seppiata che tutto rabbuia e oscura. Perché non erano giorni di sole, quelli, erano giorni di silenzio e sospetto. Viene in mente il compianto Ulrich Mühe guardando Oldman: c’è la stessa solitudine, la stessa speranza soppressa, lo stesso esasperato numero di cose desiderate e mai osate, la stessa frustrazione, seppur un diverso grado di potere, in Smiley e nel Gerd Wiesler di Le vite degli altri.
Ma di lì a poco gli anni 70 finiranno ed esploderà la disco music, Julio Iglesias infiammerà l’Opera di Paris con la sua versione riarrangiata di La mer e tutto il sangue, che qui abbiamo intuito per lo più e solo blandamente visto, versato per una guerra invisibile e congelata sarà solo un debole ricordo. Gli omini grigi torneranno nell’ombra da cui provengono. Ma il mondo ne sarà cambiato per sempre, da questi anni, ed è in fondo questo che Alfredson ci racconta con ottimo tocco e grande coerenza visionaria: il nostro mondo, quello che conosciamo e viviamo oggi come diretta derivazione di quello degli Smiley, degli Haydon dei Wiesler e dei poteri a cui obbedivano.
Il ritmo è forse inusuale per un film di spionaggio e mancano stati fibrillatori o colpi di scena mozzafiato. Lo stile di Alfredson è molto più misurato, calibrato su una sceneggiatura, quasi troppo, perfetta e sceglie un’andatura elegante più che adrenalinica. Ma, per favore, non chiamiamola noia.