Giulio Questi. Il ritorno della letteratura partigiana
Giulio Questi ha avuto una vita lunga, piena di reincarnazioni, sprofondamenti ed emersioni. Prima tutta la Resistenza, dal primo all’ultimo giorno, nelle valli bergamasche in almeno un paio di bande piuttosto discusse; poi, a seguito della “smobilitazione morale” del Paese (per dirla con Nuto Revelli), l’avventura nella Roma del cinema. Nel frattempo aveva animato, con altri giovanissimi antifascisti, nei tempi ancora ricchi di fermenti del 1946-48, per cinquantatré numeri una rivista quindicinale di politica e cultura – «La Cittadella» – assai innovativa nel panorama provinciale dell’epoca. Tanto da aver avuto nove sedi esterne con responsabili quali Tullio Kezich a Trieste, Romolo Valli a Reggio Emilia, collaboratori come Bo, Cecchi, Contini, Malraux, René Clair magari solo per un articolo e, più diffusamente tra gli altri, Anceschi o Capitini, mentre Questi era il referente per la letteratura con recensioni (ad esempio sull’Antologia di Spoon River), riflessioni militanti e racconti quali La cassa. Quest’ultimo attirò l’attenzione di Vittorini, che gli mise a disposizione «Il Politecnico» per altri racconti. Il nostro però scelse allora il cinema, facendo da aiuto a Zurlini e Rosi, poche volte l’attore (un elegante nobile nero ne La dolce vita) e per cinque volte il regista: Se sei vivo spara (1967), che reinterpretava in modo visionario l’esperienza resistenziale in un western ampiamente censurato per le scene violente, ed un paio di commedie nere (La morte ha fatto l’uovo, 1968; Arcana, 1972) sono i suoi capolavori. Di nuovo Questi pianta tutto; dopo la rottura con Ponti parte per l’America, New York, dove contava di produrre nuovi film, e romanzescamente i Caraibi, la Colombia dove entra in buoni rapporti con García Márquez. Negli anni Novanta riaffiora la spinta alla scrittura attraverso lo scavo nelle proprie memorie del 1943-45 e all’alba del nuovo secolo la voglia di girare ancora corti.
Negli ultimi anni c’è stato un ritorno al narrazione della Resistenza da parte di autori postumi ai fatti, ed anche esordienti, a riprova di un periodo ancor acceso d’immaginario oltre che aperto e contrastato: Aldo Cazzullo (La mia anima è ovunque tu sia, Mondadori 2011), Paola Soriga (Dove finisce Roma, Einaudi 2012), Giacomo Verri (Partigiano Inverno, Nutrimenti 2012) e l’opera collettiva In territorio nemico (minimum fax 2013)1. La migliore riuscita è tuttavia indiscutibilmente costituita proprio dalla manciata di racconti raccolti da Giulio Questi in Uomini e comandanti (Einaudi 2014). La scrittura esprime il sapore dell’esperienza vissuta, di cui sono più o meno clamorosamente sprovvisti i romanzi sopra ricordati, abbinata ad una non comune misura e qualità letterarie. Ci troviamo in una geografia di paesi dalla maiuscola puntata, che s’alternano a toponimi quali Valle dell’Orso, Valle del Vetro, Lago Nero, Lago Marcio, evocativi ma concretamente rimontanti all’alta montagna bergamasca dove Costola (nome di battaglia dell’autore) ha combattuto. Altri (Valle del Bergamino Impiccato, del Prete Strozzato o della Ragazza Soffocata) appaiono invece inventati in quella commistione tra realtà e fiaba subito còlta dai primi recensori e che riguarda anche la rappresentazione del paesaggio. Esso è un'epitome della fatica, della desolazione protettiva e affamatrice, ma si carica di valenze ulteriori, talvolta visionarie. Un esempio il lago estivo, «bello e fresco come un miraggio» (p. 86), nel quale gli uomini, cauti e assetati, si ristorano e verso cui viceversa il Pantelleria corre nudo per tuffarsi e sguazzare in perfetta simbiosi, cambiandone il valore d’uso. D’inverno invece il lago diviene un’allucinata distesa specchiante dove vengono accesi i fuochi per un lancio, muovendo ad un’affascinata, pericolosa trasfigurazione:
Malgrado la nostra animazione, la pallida rarefazione del paesaggio aveva il sopravvento e le nostre grida si perdevano nel vuoto della conca. Imbiancati dalla luna, sembravamo fantasmi che facevano festa in un vasto palazzo inesistente dai pavimenti di ghiaccio (pp. 67-68).
Certo non si può non vedere nell’uccellatore de Il roccolo una sorta di orco solitario e sanguinario, nel bosco dei carbonai in Bucolica 1945 un luogo nero alla Grimm, o non sottolineare singole scene quale il crawl battuto dai partigiani nell’alta neve (p. 64). Ugualmente il sogno, la prefigurazione da parte dell’immaginazione esaltata per la guerra o sprigionata dalla paura, sono elementi che forzano il predominante realismo. Così il narratore di Una battaglia, in attesa del rapimento del podestà, entra e si impossessa dei suoi sogni, come di quelli del cane che presume dormire davanti al Caffè Sport. Sono sogni agitati che mescolano i discorsi sentiti nel dormiveglia su possibili rastrellamenti dell’antiguerriglia a fantasmi di compagni caduti che vengono a riprendersi i propri oggetti distintivi (pp. 84-85); sogni fisici che mescolano i bisogni primari del sesso e del cibo, grandi seni di donna trasformati in polenta. Ancora il sogno ha a che fare con la memoria, entrambi angosciosi, come per il vecchio partigiano di Documenti, che da sveglio vede alcuni uomini, da lui uccisi negli ultimi giorni di guerra, reggere muti bara e coperchio per condurlo alla morte. Significativamente Questi, in un’intervista riportata nella postfazione, dichiara «che memoria e fantasia sono la stessa cosa perché fatta di fantasia è la memoria» (p. 171) e in una nota d’autore si spinge ad apprezzare il camion nella copertina del volume, ovvero la fotografia documento per eccellenza, perché «così equivoco nella sua missione e persino nella sua identità. Il fantasma di una guerra lontana nel tempo». E però non bisogna calcare troppo la mano su tale elemento perché il disegno è nitido, la resa visiva vivida e precisa (l’inquadratura si direbbe, riferendosi all’attività artistica principale di Questi).
All’improvviso si accorse con spavento di “vedere”.
Vedeva i pomodori, riconosceva l’indivia tra i cespi d’insalata, vedeva il colore dei crisantemi, vedeva le foglie piegarsi colpite dai semi. Pareva che la luce salisse dalla terra anziché scendere dall’alto (p. 53).
Così il giovane Clem, dopo le sue prime battaglie amorose e in attesa di quelle partigiane, dal suo nascondiglio apre gli occhi sul mondo. Oppure, grazie alla sapiente infoltitura d’avverbi di luogo, ecco come appare il giro di una lama tra il lume di un interno e lo sfondo nero della notte:
Non so come accadde. Mi trovai intorno al collo la lama di una roncola la cui punta mi usciva sul davanti, da dietro un orecchio. E contro il viso la luce abbagliante di una lanterna (p. 4).
Sulla scia della prevalenza visiva arrivano le figure retoriche, in una lingua sciolta ma che si tiene lontana dalla mimesi del parlato. Qualche volta l’ispirazione è sonora («Gli abiti scricchiolavano come lamiere, gli scarponi tramutati in zoccoli di ghiaccio», p. 84), come per esempio nell’efficace sinestesia: «Saltata a piè pari la prima rampa, un lampo di luce ci arrivò addosso assordante» (p. 100). Ben più spesso metafore e similitudini hanno a che fare con la visone del corpo, animale di rado («Finché la rete nereggiò, stracarica di palpiti», p. 10; il galletto che «frullava su e giù per le pareti instancabilmente, ingoiando i neri peccati che macchiavano la bianca coscienza di quel muro intonacato», p. 132), di frequente umano: «[...] sprofondati nella neve fino al collo. Affioravano solo le teste, cavolfiori parlanti nell’orto di Alice» (p. 64); «Le sue caviglie erano bianche e grosse come colonne» (p. 88); «E ridendo, scopriva in bocca un ammasso informe di metallo come se si aprisse il capannone di un’acciaieria [...]» (p. 126); «[...] poté vedere da vicino le numerose cicatrici che gli segnavano il collo e il petto, lucide e tirate come l’interno delle conchiglie» (p. 159). Già qui con un’esemplificazione che vira verso la crudeltà, altre volte accesa da uno shock visivo più decisamente compiuto: «Vide uno scrigno di raso rosso, sul quale si chinò fino a capire ch’era una testa scoperchiata, vuota e sanguinosa » (p. 58); «Il petto era un rosone di sangue» (p. 89).
Nonostante tale prevalenza del visivo, per paradosso la maggior parte delle scene di violenza avvengono, con effetto di spiazzamento, di scorcio o in distanza. In Una battaglia, di fatto l’unico racconto dove si vede il nemico fascista (di nazisti non v’è mai nemmeno l’ombra), la scena più drammatica, ovvero la fucilazione di due camicie nere catturate, viene scorta dal narratore in lontananza con un binocolo. Clem invece ascolta, nascosto ai piedi di un muro, tutto il passaggio dei nemici per il paese senza vederli; poi, mentre raggiunge i boschi, gli sparano probabilmente dal campanile. La morte è già avvenuta (ne La cassa i compagni portano il partigiano ucciso al cimitero del suo paese, in Clem le vittime sono piloti inglesi di un aereo caduto), riguarda più spesso regolamenti di conti interni all’alleanza resistenziale, resi con incisiva rapidità (la chiusura de Il roccolo dove la violenza è stata tutta consumata dalla figura bestiale dell’uccellatore verso le sue prede) o fuori scena come per gli uomini del comandante D.B., tra i quali ci si sofferma sul corpo perturbante del Pantelleria in Il tuffo. Questa angolazione sghemba, che evita i luoghi comuni del racconto partigiano, è senz’altro uno dei pregi della raccolta4. Si consideri, per esempio, come in Uomini e comandanti tutto piombi nel sonno affaticato del protagonista, senza che al lettore siano concesse spiegazioni sull’esito dell’azione e dei suoi attori, al contrario che in tanti pedissequi romanzi (anche resistenziali) ligi alle presunte regole del buon narrare.
Al realismo più crudo ci rimanda il dato forse più macroscopico dei racconti, ovvero l’ossessione per il cibo. Resistere equivale a sopravvivere, dunque a mangiare: ancora una volta un punto di vista di taglio sulla vita partigiana, in continuità con l’antica durezza della montagna. Non sono mai espresse proposizioni morali, nemmeno odio per il nemico; l’ideologia propagandistica viene sbrigativamente irrisa («I tedeschi bruciano le nostre case e i nostri villaggi, calpestano il sacro suolo della patria, violentano le nostre donne... dobbiamo fare qualcosa! – esclamò Beniamino con la voce improvvisamente alterata. – L’hai letto su quei manifestini celesti che il vecchio adopera per accendere la pipa! – gridò Cleme smascherandolo», p. 26), così come le ragioni della scelta cadono nella parodia: «Angelo, dopo un attimo di sgomento, disse inferocito. – Ebbene sì! L’ho rubata giù in paese nel Bar dello Sport! È da piccolo che sognavo di bere un aperitivo. E ora ce l’ho fatta. Viva la guerra!» (p. 29).
Resistere è semplicemente resistere. La carne gelata, messa sotto la giubba, è necessaria al narratore di Una battaglia per affrontare l’estenuante marcia notturna, e tutta la banda, arrivata in quota, dissotterra di fretta un sacco di farina per farne polenta. Il comandante M., che conosce i suoi, per galvanizzarli alla prossima azione (ma pure per sostenerli), manda due uomini a procurarsi un maialino da arrostire, chiarendo le priorità: «Come faremo, ne parliamo dopo. Adesso dobbiamo solo trovare qualcosa da mangiare. Se non mettiamo nello stomaco qualcosa di veramente sostanzioso, al paese neanche ci arriviamo. A quelle parole ci sciogliemmo in un mormorio d’approvazione» (p. 70). Alla fine dell’incursione il gruppo ritardatario del protagonista ribadisce con i comportamenti quale sia il più prezioso bottino tra le armi e le pagnotte: «Oltre alle armi, avevano due mitra e un binocolo che avevano strappato ai morti rimasti sul sentiero. Ci mettemmo subito a mangiare» (p. 80).
Il cibo assume diversi significati oltre a quello primario della salvezza (già ne Il roccolo dove polenta e formaggio vengono offerti con malagrazia dal cacciatore al protagonista sfinito come ad un cane affamato e molesto), per esempio il significato dell’individuazione personale (la memoria del morto ne La cassa si identifica con il lavoro e la passione per le cotenne di lardo) o quello fondamentale della condivisione che cementa i rapporti: i ragazzi di Educazione di Clem, che vogliono entrare in banda, cominciano dalla colazione in comune. Il dato concretissimo della fame subisce anche una dilatazione verso il comico, tradizionale fin dalla Commedia dell’Arte, che è poi un altro modo massicciamente utilizzato da Questi per forzare le angustie del realismo:
Contendendosi un grande osso carnoso, viscido e sfuggente, il Campana e il Costola finirono per terra, dove continuarono a lottare, cercando di strapparselo di mano (p. 41).
Insieme all’evidenza contenutistica del paesaggio, della violenza e del cibo, la cifra che la vince sul dramma e la pietà, peraltro ben testimoniati, risulta, appunto secondo modalità del Fenoglio dei racconti e soprattutto de Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, quella del comico, dell’ironia ed in parte del grottesco «rivolto alla demitizzazione (o dissacrazione) degli avvenimenti». Tutti i comportamenti della squadra di Uomini e comandanti è giocato su quei toni: la guardia con l’orologio costantemente tirato in avanti rispetto all’ora di turno stabilita, fino ai cinque minuti del Cocincina, così da lasciare il campo incustodito proprio nelle cruciali ore notturne; la partita a carte per raccogliere munizioni e compiere un assalto al deposito di sale, che si risolve nel surreale ritorno sotto la pioggia dei raiders, «tre fantasmi incrostati di sale» (p. 45) ormai del tutto sciolto. Le azioni sono più raccontate che verificabili, come nel caso di Tom e Mix, la cui ferita nel posteriore sembra anzi smentire l’eroico combattimento contro venti o trenta nemici. Su questa mandria indocile e sciamannata tenta di imporsi l’impotente e grottesco comando di «un vero Capitano dell’Esercito, superstite dell’Armir» (p. 37), arrivato lì per uno dei molti accidentati sentieri della Storia, che spia i suoi uomini dal primo piano della malga e freneticamente incita l’attendente a prender nota di tutte le malefatte e insubordinazioni: «A verbale! Sotto processo, li mando! Sotto processo!» (p. 39).
A contraltare di tale situazione di sbandamento tra il 1944-45 ecco l’apparizione redentrice del Comandante M., il «profeta» (p. 63) che, con i suoi modi olimpici e decisi, restituisce fiducia agli uomini e se li porta dietro come discepoli combattenti. Se di «un mito» (p. 51) si tratta, come per il giovane Clem che voleva entrare nella sua brigata, sarà di certo quello di Orfeo, il cui esempio, e la breve parola, ammalia e trascina con sé chi lo vede e lo ascolta. Il suo sguardo celeste, distaccato e astratto, intravvede un futuro possibile, che nessuno sa quale sia ma che è «forse qualcosa di bello» (p. 47).
Non che il Comandante M. non sia anche un uomo pratico, consapevole di dover venire a patti con la realtà bassa e comica dei suoi «raccogliticci, sbandati o disertori di altre brigate» (p. 61). Il narratore di Una battaglia lo constata quando, per aprire un varco alla colonna nella neve alta, titilla con una ricompensa gli istinti venali degli uomini, promettendo «Cinquecento lire a chi batte cinquanta metri di pista!» (p. 65): la posta si alza beffardamente insieme alla metratura; ciò non diminuisce, ma rafforza l’ammirazione per la sagacia del Comandante. Egli è anche rapido nel passare dal pensiero di un piano illustrato con linee tracciate nella neve alla sua temeraria attuazione. Il saper «rendere concreto e naturale ciò che era pazzesco» (p. 94) lo espone però a rovesci e conseguenti critiche del Comitato Militare; il comico insomma un poco lo lambisce. L’uccisione del prefetto di B. non riesce e ancor più ingloriosa è la spedizione parallela guidata dal narratore, ovvero la cattura d’un non ben precisato generale («un generale qualunque» come si dichiara al momento dell’irruzione, p. 97). Sorpreso in camicia da notte, grazie alle urla della moglie che distraggono gli assalitori, afferra la pistola da sotto il cuscino e mette in fuga gli improvvisati gappisti: il Comandante, con un po’ di sarcastico masochismo, scriverà nella relazione al Comitato Militare «che nell’azione era stata gravemente danneggiata la serva del generale» (p. 101).
Insomma dopo alcuni tentativi più o meno riusciti, di cui abbiamo brevemente reso conto all’inizio, Questi ha offerto la sorpresa di restituire un senso di verità e nel contempo di pregnanza letteraria ad una narrativa resistenziale che sembrava ormai consegnataci immutabile ed inarrivabile dai grandi del passato. C’è riuscito certamente giovandosi della sua completa esperienza dei fatti. La memoria, che è anche una condanna – come ben si vede dalla persistente e disturbante rievocazione dei fatti a distanza di decenni in Documenti –, ha saldato l’arco delle prime pubblicazioni nell’immediato dopoguerra sul «Politecnico» alla ripresa, piuttosto clandestina ma impellente, negli anni Novanta, dopo il lungo periodo del cinema e della sparizione sudamericana. La spinta biografica fa dunque la differenza sul piano della credibilità che qualsiasi lettore immediatamente avverte. Se ci si fermasse lì però saremmo ancora nell’ambito della memorialistica, laddove proprio la concreta freschezza dello sguardo, il tono smagato e lo stile incidono ancora una volta personaggi e situazioni di una parte di storia che resiste.
Questo articolo è un'anteprima della rivista "NUOVA PROSA", n. 65, Maestri ritrovati, a cura di Giacomo Raccis, Greco&Greco editori, Milano 2015.