Clorofilla / Gigli, a piene mani!
Stan bene «sugli altari e in processione» i gigli, scriveva Corrado Govoni (Dove stanno bene i fiori). Difficile, in effetti, toglier loro quel sentore misto d’incenso, quella dolcezza molle, un po’ guasta, intrisa d’umidor di chiesa, con cui s’accampano nel nostro immaginario. S’aggiunga poi – e il guaio è fatto – l’iconografia cimiteriale del fiore spezzato sugli avelli di giovani vittime, cadute troppo presto sotto l’impietosa roncola della signora morte, nostra sorella, certo, ma che si preferirebbe abbracciare non dico mai, però almeno dopo una lunga e piena vita.
Proprio un giglio schiantato al mezzo del gambo era inciso a rilievo sul marmo chiaro della lapide della mia omonima, fidanzata di papà e sorella maggiore di mamma, falciata poco prima delle nozze da un pirata della strada rimasto impunito. Capirete che questa storia famigliare, dai tratti pascoliani, che gettò tutti i componenti del clan in un lutto insuperato, anzi, tenuto vivo con quotidiane e obbligate visite al camposanto anche di noi figlie incolpevoli della mala sorte, capirete – dicevo – che ci mise del suo ad alienarmi la bulbosa in questione.
Nemmeno l’inflazione di trombe immacolate o dorate nei decori e nelle stampe della Belle Époque, che hanno su di me un certo qual fascino, riescono a promuovere il giglio come fiore di una nuova stagione, rimanendo circonfuso dell’alone languido della fin de siècle.
Peccato, perché il fiore è superbo, se ben scelto e ben impiegato può dare al giardino estivo note coloristiche e olfattive per nulla trascurabili.
Sei sono le specie spontanee nel nostro paese tra le decine distribuite sul vastissimo areale della fascia temperata che dall’Asia va all’America passando per l’Europa. Il mio prediletto, benché poco affabile al naso (rara deroga al costume del genere), è il giglio martagone o “Riccio di dama” (L. martagon). Alberga in boschi radi di latifoglie e nei fertili pascoli montani dove dalle squame giallastre del bulbo s’erge un fusto robusto, striato di violetto, foglie verticillate al mezzo, sparse e ovate le superiori, con un racemo lasso di fiori penduli, cerosi, dalla foggia a turbante: sei i tepali assai revoluti, tinti d’invidiabile rosa antico spruzzato di porpora, altrettanti gli stami liberi e sporgenti con antere miniate di rosso.
Regala le giuste soddisfazioni se inserito tra cespi di rosmarino o lavanda in un terreno sia ricco sia calcareo.
All’umido di prati e boschi vegeta il giglio di san Giovanni o giglio rosso (L. bulbiferum) dai bei fiori accesi, eretti e campanulati, in apice al rigido fusto con foglie alterne, lanceolate che, alle ascelle, possono portare i bulbilli, gran risorsa (più agile del seme) per la moltiplicazione. E poi, certo, c’è lui, il più noto, il più coltivato, il più iconico: il Lilium candidum. Già sacro ad Era, simbolo di purezza e castità, brandito come vessillo dai molti arcangeli annuncianti il mistero mariano della nascita, nonché da sant’Antonio da Padova. Ci è giunto dai Balcani, evaso dai giardini si trova selvatico in Italia, ma è incontro raro. S’alza fino a sfiorare i due metri da foglie basali sempre attive, lunghe e lanceolate, per sfoggiare trombe candidissime, olezzanti caramellosa fragranza attirante nasi a rischio d’impollinazione. Le vistose antere approfittano d’ogni mezzo per spargere la loro polvere gialla: difficile poi stingerla da pelle e tessuti.
Innumeri gli ibridi classificati in gruppi in base alle specie di derivazione o alle fogge dei fiori. Tra i più omaggiati nei bouquet dei fiorai, ma che meglio possono fare bella mostra di sé nelle bordure con emerocalli e agapanto, vi sono i nipponici e profumati L. longiflorum, dai raffinati bianchi imbuti, e il L. speciosum sia nella variante alba sia nella rubra, con grandi fiori dai tepali indietro volti e lunghe, vezzose antere.
Celebrati dall’antico testamento come modello di intatta bellezza: «come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle» (Cantico dei cantici, 2:2); mostrati come esempio di vita semplice nel Vangelo: «osservate come crescono i gigli dei campi…», Mt. 6, 28), i gigli ripiegano le teste sotto le cascate di versi di una nutrita schiera di cantori.
Virgilio li sceglie quale omaggio di Anchise al giovane Marcello, nipote di Augusto che, manco a farlo apposta, morì nel fiore degli anni: «manibus date lilia plenis!» (Eneide VI, 883). L’emistichio è poi riproposto da Dante – con quell’«oh» incistato a misura di endecasillabo – nel XXX canto del Purgatorio, giusto nel momento topico dell’incontro con quella Beatrice, ormai beata e assunta in cielo dopo morte prematura. La Clorinda di Tasso muore anch’essa sotto liliacee insegne: «D’un bel pallore ha il bianco volto asperso, / come a’ gigli sarian miste viole» (Gerusalemme liberata, XII, 69-70). E sull’acqua nera Rimbaud vede «fluttuare bianca come un gran giglio Ofelia».
Sono gigli di voluttà e morte quelli di D’Annunzio (I gigli, in La Chimera), sempre funebri ma materni quelli di Pascoli (I gigli, in Myricae), che devono aver influenzato quelli pure mammaroli di Biagio Marin (I gigli, in Luci e ombre).
Allora, ascoltiamo due voci femminili che pure alludono a quei sovrasensi simbolici con tocco lieve e misurata grazia.
Sono versi, organizzati in due strofe che ci arrivano da opposte plaghe: dalla Russia quelli di Anna Achmatova e, dritti dal giardino di Amherst, Massachusetts, quelli di Emily Dickinson, eccoli in sequenza:
Ho colto gigli splendidi e profumati,
pudicamente chiusi,
come una schiera di fanciulle innocenti.
Dai tremuli petali, bagnati di rugiada,
ho bevuto profumo, felicità, pace.
Il cuore batteva e tremava, come per un dolore,
i pallidi fiori dondolavano la corolla
di nuovo sognavo quella lontana libertà,
quel paese dove sono stata con te...
(Anna Achmatova, I gigli)
Entro la nera zolla, per essere iniziato,
passa sicuro il giglio.
Non trepida il suo bianco piede, né la sua fede
ha mai timore.
E poi, sul prato,
agita una campana di berillo,
la vita primordiale ormai dimenticata
per la delizia e l’estasi.
(Emily Dickinson, Entro la nera zolla)
Ma nessuno è affascinante e misterioso quanto il giglio della sabbia (Pancratium maritimum), che lilium non è poiché inserito nella famiglia delle Amarillidaceae. Sulle dune sabbiose del nostro mare lo coglieva Gabriele D’Annunzio per Barbara Leoni. Lo allegava a una lettera amorosa in cui le scriveva: «Ti mando un fiore, colto su la rena. È una specie di giglio selvaggio, bellissimo quando è vivo, e così profumato che spesso nel calice io trovo qualche insetto morto di voluttà e di ebbrezza. Tutta la spiaggia d'intorno è costellata di questi gigli appassionati che sbocciano in un attimo e durano poche ore, al sole torrido, su la sabbia ardente. Anche morto, guarda com'è spirituale questo fiore! Com'è fino e diafano e feminino! Addio. Ti bacio tutto il corpo dolente, con una tenerezza infinita. Gabriel».
E nel Commiato in coda ad Alcyone, rivolgendosi a Pascoli dall’opposta balza d’Appennino con ammirazione non priva di calcolato interesse, si congeda dall’ode raccomandando di portare a Maria, la mesta sorella fedele al poeta, «l’ultimo ch’io colsi in su l’aurora giglio del mare».