Giorgia e i due meloni
L’altro ieri Giorgia Meloni si è presentata nei social con un video, rompendo il consueto silenzio elettorale. Imbracciava due meloni con un gesto decisamente trash e ha pronunciato una frase: “Ho detto tutto”. Senza ombra di dubbio la vittoria elettorale è intesta a lei. Di più: si identifica con lei che ha raggiunto la quota del 26 % di votanti, sette punti più del secondo partito italiano, il Pd.
I due meloni esposti nel breve video hanno anche un loro senso al di là dei significati più o meno reconditi che veicolano: suoi avatar linguistici per via del cognome; sono metafora dei due seni della leader di fratelli d’Italia, prima donna a diventare Presidente del Consiglio della Repubblica; alludono agli attributi maschili secondo l’espressione maschilista: Ho due coglioni così. E poi la frase: “Ho detto tutto” è esplicativa dello stile non solo comunicativo, ma anche caratteriale di Giorgia Meloni.
I due meloni – con la minuscola – sono però anche il simbolo delle due facce che Meloni, con la maiuscola, possiede. Di sicuro Giorgia ha dimostrato che si può salire lo scalone del potere e arrivare a Palazzo Chigi in un tempo abbastanza breve: FdI è stato fondato dieci anni fa e ora conquista il maggior numero di deputati e senatori del nuovo Parlamento. La cosa era già evidente nella vittoria dei “5 Stelle”, partito nuovo, anzi nuovissimo, che ha ottenuto nelle precedenti elezioni la leadership elettorale. Due partiti d’ispirazione populista, due partiti nuovi di zecca, anche se poi nel caso della Meloni c’è dietro la storia del neofascismo italiano, dal Movimento Sociale, e la successiva Alleanza Nazionale, il cui simbolo del partito, nato dalle ceneri fumanti della Repubblica fascista di Salò, permane nel logo di FdI, cosa che ha fatto scrivere ai giornali stranieri: il partito più a destra dopo Mussolini conquista l’Italia.
In quel 26% non ci sono solo gli elettori tradizionali della Meloni, gli eterni fascisti italiani, ma una fetta dell’elettorato che ha deciso, come ha detto in modo fulminante Filippo Ceccarelli: proviamo lei! L’Italia è un paese che da almeno trent’anni, dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo Mani pulite cerca un sostituto alla Democrazia Cristiana, il partito che per decenni era rimasto al centro del sistema elettorale e dunque politico. Perciò sarà a questa fetta di elettorato che Meloni dei due meloni deve ora guardare.
E l’altro frutto della pianta rampicante della famiglia delle Cucurbitaceae cosa significa? Per capirlo ci aiuta un libro di due studiosi della comunicazione appena apparso: La politica dell’inciviltà di Sara Bentivegna e Rossella Rega edito da Laterza. Il termine “inciviltà” sta ad indicare il sistema di demonizzazione e screditamento degli avversari politici che ha sostituito in questi ultimi trent’anni la politica in senso stretto, ovvero l’arte di risolvere le controversie e i conflitti per il bene della collettività di cui facciamo parte, l’Italia. Non ha cominciato Meloni, ma lei lo ha fatto con una bravura unica mettendo in sordina la carica di partigianeria che possiede, facendo intendere che la rabbia, e la voglia di rivalsa presente in lei, si trasformasse agli occhi degli elettori in grinta – sono i due meloni nel loro significato maschilista. Il personaggio, come ha mostrato la sua autobiografia, Io sono Giorgia (Rizzoli), è complesso e articolato.
Per tornare al libro delle due studiose di comunicazione il problema è presto detto: l’inciviltà, ovvero l’insulto, l’irrisione, la menzogna, le fake news, e altro ancora, sono “una risorsa strategica di grande valore nelle mani degli attori” che appaiono nell’agone politico, che, non dobbiamo dimenticarlo, funziona come uno spettacolo. Senza questa “inciviltà” – termine che sintetizza e insieme semplifica il problema che descrive – Giorgia Meloni non raggiungerebbe il risultato che ha ottenuto. I media digitali hanno avuto un significato fondamentale nel determinare questo tipo di comunicazione, che divide e non certo unisce. Nel “mercato dell’attenzione”, come lo chiamano le due studiose riprendendo termini americani, si impone attraverso la forza “espressiva”, che a sua volta crea aggregazione – il Noi contro il Loro – e spinge alla mobilitazione chi lo sostiene: Noi e Loro. Si tratta del tema della costruzione del personal brand che comporta l’affermazione di una identity politics. Quello del personal brand è la strada percorsa da Matteo Salvini nel passato prossimo, e che ora non sembra aver pagato in queste ultime elezioni. La rabbia e il risentimento verso gli immigrati, gli stranieri, i diversi, del Capitano hanno funzionato fino a che non si è presentato sulla scena un altro personal brand in grado di competere con lui. Giorgia Meloni non sostiene valori molto diversi da quelli di Salvini, poiché alcune sue parole d’ordine sono senza dubbio comuni, ma l’ha fatto in un modo che per ora – nel caso dei personal brand, come per tutti i brand, tutto resta sempre fluttuante e incerto – sembra funzionare meglio.
Nella manifestazione intitolata Orgoglio italiano del 19 ottobre 2019 la leader dei FdI si è presentata così: “Difenderemo la nostra identità. Io sono Giorgia. Sono donna. Sono italiana. Sono una madre. Sono cristiana. Non me lo toglierete”. Uno slogan perfetto per lanciare il proprio personal brand, dal momento che ciascuna delle “qualità” o “doti” con cui si definisce ha un significato importante e specifico, cosa che Salvini non è riuscito a dare alle sue parole d’ordine. Come spiega benissimo il libro Io sono Giorgia, l’elemento personale crea un’identificazione, o quanto meno un rispetto e persino un’adesione: donna, italiana, madre, cristiana, sono componenti di un’identità più complessa e di maggior presa di quella messa in campo dall’ex Ministro degli Interni. L’identity ownership di Giorgia Meloni, come la chiamano con un termine politologico anglosassone le due studiose, appare più capace di attrarre. Perché? Pur contenendo un tasso di aggressività, come la stessa formulazione sintattica della frase evidenzia, riesce a trasformare la sua violenza in qualcosa d’altro. La chiave del successo della Meloni consiste proprio nel trasferire la rabbia e il risentimento di una parte non indifferente di italiani in un’affermazione di valori.
Per quanto noi tutti viviamo in una realtà dominata dal personal brand (da Berlusconi a Salvini, passando per Bossi), la forza di Giorgia Meloni è di trasformare il brand in una ideologia senza tuttavia dirlo apertamente. L’ideologia è quella del neofascismo da cui viene – la sezione del Movimento sociale Italiano della Garbatella – addomesticata e resa più friendly dall’essere donna, madre, italiana, tutti valori, insieme con il cristianesimo, espresso qui in questa forma identitaria ed escludente verso gli altri. L’anima è quella, ma l’involucro è diverso. C’è nella Meloni qualcosa di Craxi, della sua anima decisionista, espressa per la prima volta nella politica italiana da una donna, la cui vita personale, raccontata nel libro autobiografico, è stata quella del riscatto e della rivalsa. Come ha scritto ieri un giornale: la ex baby sitter è diventata Presidente del Consiglio. Il sogno americano in chiave italo-romana. Non solo il figlio di un nero e di una bianca può diventare Presidente degli Stati Uniti, ma anche una ragazza abbandonata dal padre e cresciuta dalla mamma e dalla nonna in una zona proletaria di Roma può salire lo scalone del Palazzo.
Meloni ha ereditato le strategie della politica incivile della Lega di Bossi e Salvini, e ha afferrato per la coda il fluttuante spazio della disaffezione alla politica tradizionale, così da infondere un senso di responsabilità intorno alla sua persona – “responsabilità” è oggi la parola chiave. Ha trasformato la rabbia in grinta, come accade nello sport, in particolare in quello tennistico così aggressivo; il tennis è la metafora perfetta del conflitto oggi in atto delle società neocapitaliste: siamo tutti presi dal gettare con forza la pallina dall’altra parte del campo, per sopravvivere, per affermarci, che non vediamo più nulla di noie della nostra condizione. La rabbia che hanno i giovani e gli esclusi contro il capitalismo finanziario del mondo, in cui siamo diventati imprenditori di noi stessi, non si trasforma in una risorsa politica, in una richiesta di cambiamento. Tra lei e l’avversario – il Pd razionalista e perdente di Letta – Giorgia Meloni ha saputo mettere una rete e una distanza che lo sbragato Capitano leghista non è capace di tenere con il suo attivismo pasticcione di ragazzotto ondivago, sbraitone e poco dotato di talento politico.
Ha rassicurato tutti la Giorgia coi due meloni in mano, per quanto l’ideologia neofascista da cui viene e la sua stessa personalità, trasmettano un senso d’aggressività piuttosto elevato. Possibile che i suoi elettori non lo percepiscano? Ma come sempre è difficile mettersi nei panni degli altri, entrare nella loro testa. L’empatia in ambito politico, come ha dimostrato Letta, o ce l’hai o non ce l’hai; mentre un vero leader deve averla, o almeno farsi aiutare a interpretarla da chi gli sta attorno o lo consiglia. La rabbia e il risentimento sono un carburante straordinario, e questo carburante Meloni ha saputo iniettarlo nel suo motore per compiere la svolta che ha portato a Palazzo Chigi gli eredi del Mussolini repubblichino, seppure in forma modificata e rivista.
A questo si aggiunge la narrazione che ha costruito con i suoi spin doctor e ricorrendo alla sua istintività di donna-della porta-accanto, di popolana, di borgatara, di autentica politica trash. Qui utilizza la sfiducia nei confronti della politica – capitale su cui lucra anche 5 stelle di Giuseppe Conte – che i politologi chiamano “una spinta al cinismo” (Dale Jamieson). La società italiana è storicamente cinica, come hanno capito Machiavelli, Guicciardini e i loro successori, per motivi storici e anche antropologici, per l’essere stata pervasa dal cattolicesimo, la religione che ha inventato il Purgatorio, come ci ha spiegato Jacques Le Goff , su cui si è arricchita. Ora il nuovo cinismo – perché il cinismo ha anche connotato storico oltre che caratteriale –, è quello che Pasolini aveva ben identificato nella “mutazione antropologica” degli anni Sessanta e Settanta –; lucido PPP lo è stato, ma senza dare alcuna soluzione praticabile, rinchiudendosi invece nell’Italia del passato. La amalgama inventato con puro istinto da Giorgia Meloni e dai suoi consiglieri – scaltri politici, alcuni di ascendenza democristiana – funziona e funzionerà almeno per qualche tempo.
Inutile stracciarsi le vesti: il razionalismo del Pd e di Letta appartiene al passato. Nella società dello spettacolo, dei social network, del mercato della attenzione, l’impasto meloniano di Giorgia funziona meglio dello slogan: Scegli, che ha una assertività che non comporta alcuna risposta performativa reale. La narrazione della Meloni ha convinto un numero ampio di elettori, che non sono la maggioranza assoluta, ma che le hanno consentito di raggiungere il risultato a cui aspirava grazie una legge elettorale pasticciata e infelice, che nessuno ha voluto cambiare.
Capire cosa succederà non è facile. C’è però una parola che nella notte del suo personale successo Giorgia Meloni ha usato e che è la chiave psicologia e politica del suo, e nostro, immediato futuro: “responsabilità”. Cosa significhi è ancora tutto da capire, ma, poiché la ex-baby sitter vuole stare al potere il più a lungo possibile, “responsabilità” significa che vuole governare, cioè fare politica, cosa che chi l’ha preceduta non è riuscito a fare. Responsabilità vuol dire mediazione? Abbassamento del conflitto? Non lo so. Di certo l’anima partigiana che c’è in lei, la sua rabbia, o grinta che dir si voglia, esiste e continuerà a offrirci l’immagine dei due meloni: da un lato la politica trash dei social e dall’altro l’aspirante statista, postura che dovrà assumere se vuole dialogare con il resto dell’Europa. Non era così anche Mussolini delle origini? In camicia nera e con il cappello a cilindro in testa, come l’ha descritto mirabilmente Italo Calvino in un suo articolo. La dualità è una specificità di molti movimenti politici dell’ultimo secolo e mezzo; ora con lei bisogna vedere dove cadrà l’accento, cosa prevarrà: l’arrabbiata tribuna trash delle piazze italiane o quella con l’abito prêt-à-porter da esibire a Bruxelles. E poi, soprattutto, cosa dirà e cosa farà il 74% che non l’ha votata?
Ora la ragazza bruna tinta di biondo dalla parrucchiera sotto casa, che ama Ed Sheeran (“Se finirà nel fuoco/ Allora dovremmo tutti bruciare insieme/ Guarda le fiamme che salgono nella notte”), dovrà trovare una forma per mantenere vivo il suo brand e insieme governare. Non facile senza creare un regime.