Gladwell, scrittore post-Apple

4 Maggio 2012

Malcom Gladwell ha poco meno di cinquant’anni, scrive articoli brillanti e acuti sul “New Yorker”. Nelle foto che compaiono nei suoi libri – quattro sin qui – appare come un giovane con i capelli crespi e la pelle leggermente scura; somiglia, seppur vagamente, a Michael Jackson. È figlio di una giamaicana, psicoanalista, e di un inglese, professore di matematica, e rappresenta in tutto e per tutto l’anti-Tom Wolfe, ovvero quello che è diventato il giornalismo americano di punta negli ultimi vent’anni. Gladwell ha un grandissimo talento, quello di insinuarsi nei luoghi comuni e di ribaltarli, o almeno di farli ruotare di novanta, o più, gradi. Da poco è stato tradotto in italiano il suo ultimo libro, What the Dog Saw (Avventure nella mente degli altri, Mondadori), una raccolta di suoi pezzi apparsi sul “New Yorker” tra il 2000 e il 2006, piccole e saporite indagini: perché ci sono tanti produttori di maionese mentre il ketchup della Heinz è unico e risulta insuperabile? cosa voleva davvero fare John Rock, il cattolico che ha creato la pillola anticoncezionale? come è stato possibile l’imbroglio della Enron quando anche gli studenti universitari di economia sapevano tutto? come funzionano i colloqui di lavoro?, e altro ancora.

 

Gladwell possiede una lingua elegante, secca, precisa; si fa leggere e non dice mai cose scontate, anzi. In lui vive il meglio dell’America post-Bush, padre e figlio: intelligenza, duttilità, anti ideologismo, semplicità. È anche uno scrittore post-Apple, dato che, se Steve Jobs apparteneva alla generazione dei figli dei fiori, narrata da quel dandy di destra che è Tom Wolfe, Malcom Gladwell è il fratello maggiore di Mark Zuckerberg. Insomma, è il principale descrittore della rivoluzione mentale che è avvenuta negli ultimi trent’anni, e marcia compatto insieme a lei. Per spiegare cosa scrive Gladwell, e come funziona questo cambiamento avvenuto in America, bisogna tornare al suo primo libro del 2000, The Tipping Point (Rizzoli). In quell’inizio di millennio il giornalista spiegava come un oggetto, un paio di scarpe o un libro, potesse diventare all’improvviso un simbolo di moda, avere uno strabiliante successo. Enunciava tre regole: l’importanza del contagio; i piccoli cambiamenti possono avere grandi effetti; il cambiamento non è mai graduale bensì frutto di un’impennata improvvisa, cui segue un crollo subitaneo. Nella schematica, ma efficace, sociologia della vita quotidiana che metteva insieme nel saggio, c’erano poi tre protagonisti: gli Innovatori, a volte persone qualsiasi; gli Utilizzatori, che sono sempre degli opinion maker; e la Maggioranza, scettica all’inizio, poi entusiasta. Il libro fu pubblicato contemporaneamente in sei paesi ed ebbe milioni di lettori.

 

Nel secondo, Blink (2005, Mondadori) il metodo giornalistico di Gladwell si è perfezionato, e pur non ambendo a una teoria generale del cambiamento, offriva una serie di esempi davvero interessanti. Aveva cominciato a narrare. Blink significa battito di ciglia, bagliore, colpo d’occhio, ammiccamento. Come faceva Federico Zeri a colpo sicuro, con una semplice occhiata, a sentenziare che la statua greca comprata dal Paul Getty Museum era falsa? O John Gottman, psicologo di Washington, a capire da un video registrato di quindici minuti di conversazione tra coniugi se la coppia resisterà nei prossimi quindici anni? Gladwell non è interessato come Wolfe al cambiamento, all’anticonformismo, di cui ha dato prima dei ritratti appassionati, come in The Electric Kool-Aid Acid Test (1968), per poi passare alla demolizione in Radical Chic (1970). Il giovane new-new journalist è attratto dai meccanismi segreti che albergano nelle menti umane e diventano abilità, mestiere, successo economico o politico, ma anche, e qui sta il punto, possono sortire madornali errori. Essendo figlio di un matematico – voleva fare l’avocato all’inizio della carriera – l’autore di Blink ama indagare le statistiche; così scopre che nella popolazione maschile americana gli uomini alti almeno 1,83 metri sono il 14,5 %, ma tra i manager delle aziende censite da  Fortune la loro percentuale sale al 58%: la maggior parte delle persone associa, senza averne coscienza, la capacità di leadership alla statura fisica imponente.

 

Il terzo libro, Outliers (I fuoriclasse. Storia naturale del successo, Mondadori), spiega come mai i giocatori di hockey della nazionale canadese siano nati quasi tutti a gennaio e non, invece, a giugno: hanno avuto il vantaggio di cinque mesi sugli altri; sono più allenati e quindi più bravi. È la regola delle “diecimila ore”, come titola un capitolo, dove spiega come mai Bill Gates e i Beatles abbiano trionfato su altri bravi, o quasi bravi, come loro: “Non ci si esercita quando si è diventati bravi. Ci si esercita per diventare bravi”. La storia merita di essere letta con attenzione, partendo dall’esempio di Bill Joy, il leggendario creatore di programmi informatici, fino ad arrivare a Bill Gates, Steve Jobs e Paul Allen, la generazione nata negli anni Cinquanta che ha ridato all’America il primato tecnologico, ed economico, che sembrava sul punto di perdere.

 

Gladwell è senza dubbio ossessionato dal successo, alla pari di Tom Wolfe, dai suoi meccanismi segreti, ma mentre il papà del new-journalism era attratto dai “diversi”, gli anticonformisti, il suo più giovane erede è attratto dai “diversi” di successo. Tutto si è rovesciato nell’arco di trent’anni e gli “inventori” americani, pre- e post-Nerd, sono il vero oggetto dell’indagine di Gladwell, che non è così conformista da preferire chi è arrivato a chi ha fallito, ma ci mostra come il confine tra le due cose sia sottile. La nuova American way of life di Facebook e Twitter ha trovato il suo cantore migliore, il più bravo e intelligente, leggero e intenso a un tempo. Non lo si può negare: ogni volta che si prende in mano un libro di Malcom Gladwell non si può che finirlo a rotta di collo. Ha ereditato la capacità induttiva della madre psicoanalista e la sottigliezza e l’agilità del padre matematico. E pensare che è nato in Canada e vissuto in un piccolo paese. O forse proprio per questo è così bravo.

 

 

Questo articolo è apparso su “La Stampa”

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