Goya a Gaza
La fila di uomini seminudi in ginocchio con le mani legate dietro la schiena corre lungo il marciapiede. Un’altra fotografia mostra altri uomini nella medesima posizione ma con gli occhi coperti da una benda. La macchina da presa, poi, ci propone l’immagine in movimento d’altri uomini ancora, in mutande seduti e immobili lungo una strada a testa china, chi accovacciato, chi a gambe intrecciate, chi riverso in avanti. Sono i prigionieri che l’esercito israeliano ha fatto in queste ultime ore a Gaza. Li hanno spogliati di tutto e privati delle scarpe. In una delle immagini, quella che ritrae il marciapiede sul fianco della strada in terra battuta della città, ci sono decine di calzature spaiate gettate all’intorno: sandali, ciabatte, scarpe da ginnastica, bianche e nere.
Sono immagini che colpiscono per la crudezza delle posizioni e per quei corpi denudati. Misure di sicurezza, ovviamente: che non possano fuggire via, che non possano offendere in alcun modo. Ricordano le incisioni di Goya, i Disastri della guerra. Sono diverse, ma analoghe alle immagini viste quel tragico 7 ottobre nel campo dove si celebrava un rave con migliaia di giovani israeliani: un pogrom programmato. Là erano i cumuli di corpi, alcuni morti e altri vivi trascinati via e ripresi dagli smartphone degli uccisori. Corpi, sempre corpi, ovunque.
In una delle tavole dei Disastri, la numero 32, una delle più crudeli incise su una lastra di rame dal pittore della Real Academia de San Fernando la didascalia reca: “Perché?”. Come ha scritto Tzvetan Todorov nel suo libro dedicato a Goya, è una domanda che non attende risposta. Nelle guerre l’orrore non ha alcuna spiegazione. Lo studioso bulgaro ricorda un passo di Primo Levi ad Auschwitz che pone in Se questo è un uomo la medesima domanda davanti a un piccolo ma immotivato atto di violenza: Perché? “Qui non esiste perché”, gli viene risposto.
Così sono tutte le guerre e anche questa condotta a Gaza ci offre ancora una volta le immagini consuete della degradazione e distruzione di uomini per mano di altri uomini. Goya che ha conosciuto l’invasione delle truppe napoleoniche, le gloriose armate francesi, i liberatori mossi da ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, le ha rappresentate una volta per tutte. Lui, che era un liberale, e non certo un oscurantista, ci mostra che la guerra è “un mezzo che pesa più di qualunque fine” (Todorov). Quelli che hanno scatenato la guerra, questa come ogni altra, hanno senza dubbio delle ragioni per agire come hanno agito; le motivazioni, viste coi loro occhi, possono anche essere legittime o giustificabili in termini ideologici oppure storici: “Ma l’esperienza stessa della guerra è così profonda che fa dimenticare tutto ciò che essa non è, trascinando nel vortice le decisioni antecedenti e le giustificazioni date in nome di effetti scontati. Ciò che conta in un atto di guerra è che si combatte la guerra, non il motivo per cui lo si fa, né il beneficio che ci si attende. La violenza degli atti neutralizza l’ideologia in nome della quale vengono compiuti” (T. Todorov, Goya, Garzanti).
A Milano al Palazzo Reale c’è da qualche settimana una mostra delle opere di Francisco José de Goya y Lucientes. Accanto ai ritratti dei suoi protettori, Carlo IV, Juan López de Robredo, delle dame di corte, degli intellettuali illuministi suoi amici, ci sono alcune delle acqueforti dei Disastri della guerra. Sono immagini d’estrema brutalità in cui traspare qualcosa che è ancora più orribile degli atti stessi di crudeltà dei combattenti: l’indifferenza dei torturatori, il loro atteggiamento pacato, distante, distaccato, l’altra faccia della furia distruttiva di chi colpisce con foga e bestialità: il rovescio della medesima medaglia. Sono esposte nelle sale semibuie del palazzo alcune delle pitture più eloquenti della sua carriera d’artista dal doppio volto: l’irenico ritrattista dei potenti, nobili e reali da un lato, e implacabile illustratore delle devastazioni prodotte dai conflitti armati e dalla follia ideologica della religione dall’altro: le scene di Inquisizione, i cortei dei flagellanti, l’insipienza degli uomini nei sacchi, i ritratti di umani con fattezze asinine.
Chi ha filmato le file dei prigionieri di Gaza, presunti membri di Hamas, e chi ha invece ritratto con il cellulare i bambini e le donne trascinati via dalle strade e dagli spiazzi di Israele probabilmente non ha mai visto le immagini di Goya, o se le ha scorte anche solo una volta nelle pagine di qualche libro le ha presto dimenticate come se non appartenessero alla sua esperienza presente o futura. Nessuno sa mai in anticipo cosa gli capiterà di compiere nel corso della propria vita, ma se questi giovani uomini avessero ben guardato e meditato le incisioni di Goya avrebbero saputo in anticipo che ogni guerra con le sue catene di atrocità è privata per sempre da quelle tavole in bianco e nero della pretesa di seguire nobili scopi. Il pittore di Saragozza ci ha trasmesso con la sua arte di incisore questa semplice verità: non si può più chiedersi chi ha cominciato e quali ideali superiori siano impliciti nella guerra che si combatte, dal momento che – come ha ben visto Todorov – “nella violenza i nemici, convinti di essere diversi in tutto, si assomigliano”.