Guadagnino, cannibal chic
I film di Luca Guadagnino sono quasi sempre opere che rinascono dai resti di altre opere, attraverso un processo di combustione creativa. Siamo in presenza di un regista incendiario, che rifà e divora tutto, ossa comprese, trasformando situazioni e storie passate, in un certo senso già morte, nella bellezza impressionante di nuovi ricordi che tengono e sfidano il tempo. Un po’ come accade per la treccia di capelli fatta con le capigliature delle sue vittime costruita da Sully, una delle persone cannibali protagoniste di Bones and All. Sembra «un po’ Raperonzolo e un po’ Frankenstein», si legge nel romanzo omonimo (2015) di Camille DeAngelis, a proposito di quella treccia, con una battuta che non viene ripresa e che tuttavia funziona bene per mettere a fuoco il romanticismo gotico del film.
Le parole che di solito usiamo per i procedimenti di riscrittura – termini come intertestualità, rifacimento, adattamento – non bastano per definire un procedimento cinematografico costante, e che dunque vale come uno stile. L’opera di arrivo, rispetto al romanzo (per esempio Chiamami col tuo nome, 2017, o Bones and All), o rispetto al film di partenza (come nel caso de La piscina, il film di Deray del 1969, diventato A Bigger Splash, 2015; o per Suspiria, il capolavoro del 1977 di Dario Argento, rifatto nel 2018), l’opera di arrivo, dicevo, solo apparentemente è un remake, perché piuttosto intende agire, anche durante la visione, come una sorta di rituale performativo intorno alle emozioni suscitate dal testo originario, che è assimilato, incorporato e restituito al nostro sguardo come se fosse soprattutto un evento, che reinventa il mondo attraverso un sistema di reazioni, più che di rappresentazioni.
Bones and All per certi aspetti è una storia completamente altra rispetto al libro. Il romanzo di partenza, infatti, è prima di tutto il racconto di un’adolescente “mostruosa”, nel senso che fa azioni terribili (da quando è nata si è mangiata undici persone, a partire dalla baby sitter) e si fa schifo da sola. Non è difficile riconoscere, in questa trama di trasformazione così spaventata e piena di sangue, una vicenda di formazione (coming of age) piena di paure e metamorfosi legate anche (non solo, ma anche) alle prime mestruazioni e a un relativo sistema di insicurezze che – come accade alle ragazze – può assumere in effetti i tratti di un racconto gotico che ognuna prima o poi ha vissuto e molte autrici hanno rielaborato: «Già allora mi facevo schifo da sola».
Accanto alla protagonista, c’è una madre amatissima e che ricambia il suo affetto, ma a un certo punto (è quello che invece fa il padre, nel film), decide di abbandonarla. Così, come anche nel racconto di Guadagnino, ha inizio un percorso avventuroso di incontri on the road: dapprima con un vecchio cannibale come lei, Sully, che cerca di fare famiglia (e per ragioni che saranno chiarite alla fine); poi con un coetaneo, Lee, anche lui una creatura ai margini, con il quale, poco a poco, nasce una storia d’amore fatta di ostacoli e progressive scoperte, mentre intanto la ragazza va alla ricerca del padre.
Lo trova, finalmente, in un sanatorio, dove l’uomo le farà leggere, con l’aiuto di un infermiere che conosce tutta la storia, una lettera scritta molti anni prima proprio per raccontare alla figlia di essere scappato per proteggerla dalla sua natura divoratrice. Liberatasi dall’infermiere e da Sully, che l’avrebbe uccisa se non fosse stato per l’aiuto tempestivo di Lee, Maren finalmente può dormire con il ragazzo amato. Se non fosse che, a contatto con Lee, comincia a farsi strada nel corpo della ragazza un certo languorino... Una conclusione, questa del romanzo, carica di un paradossale vitalismo, che il finale del film (di cui nulla vogliamo anticipare) modifica e mortifica completamente.
Invece del padre, nel film è la madre il genitore cannibale fuggito dalla protagonista (Taylor Russell); Sully, vecchio disgustoso (con un nome parlante: “to sully” significa sporcare), magistralmente interpretato da Mark Rylance, diventa anche un predatore sessuale. Ma questi stessi cambiamenti possono essere intesi come tradimenti creativi, modi per impossessarsi meglio del testo. Così, per esempio, l’inversione stessa di funzioni narrative tra la figura del padre e quella della madre potrebbe in fondo proseguire e perfezionare una linea narrativa e simbolica matrofobica, già ampiamente esplorata in Suspiria (film di cui risuona un’eco anche nella scelta stessa di far interpretare la nonna adottiva a Jessica Harper, la protagonista della versione originale di Dario Argento).
Guadagnino è un autore bravissimo, pieno di trovate visive: lo pensiamo subito, dal modo in cui è girata, per stacchi, la prima scena nella scuola. Tutto il film, fino a toccare limiti di sopportazione che non tutti riescono a tollerare, è un esercizio di sguardo sull’inguardabile: lo mostra, per esempio, l’espediente, molto bello, di farci vedere la protagonista accanto alla sua prima vittima attraverso la superficie trasparente di un tavolo di vetro; o la scena, poco più avanti, in cui Maren, attraverso il riquadro profilato dagli stipiti di una porta, intravede Sully, in mutande, a quattro zampe, che sta sbranando gli intestini di una donna.
Dopo la prima ora, però, può capitare di cominciare a chiedersi se tutti questi artifici visivi aprano veramente sguardo: sull’America che i vari cartelli in sovrimpressione ci indicano, man mano che si procede; sulla domanda che aleggia su tutti gli horror, vale a dire chi sia il mostro vero; sull’ansia di divorare gli altri che fa parte, spesso, dei percorsi di ricerca e individuazione di sé.
È come se, dopo un po’, la trama diventasse una catena riproducibile all’infinito di sequenze che si mangiano a vicenda. Bones and All è, in fondo, un paradossale teen movie: un film che rielabora tematiche legate all’adolescenza e alla crescita, che, come prevede la struttura di quel tipo di racconto, ha due giovani protagonisti che incarnano il mito di “noi due, superoi così diversi ma così unici, da soli contro tutti”. Ma è un teen movie che forse, incendiando e divorando, corre il rischio di un carico estetizzante eccessivo.
Riportato a un’ambientazione anni Ottanta (mentre nel libro la vicenda si svolge alla fine dei Novanta) il film ci fa respirare un’atmosfera vintage fatta di particolari ormai desueti, dettagli e foto da mercatino (il nastro dell’audiocassetta, gli oggetti nelle abitazioni degli anziani). Giusta, perfetta la trovata di vestire Lee (Timothée Chalamet) con abiti improbabili che ci si immagina che siano raccolti nelle case d’altri dove i due protagonisti entrano di nascosto.
Giusta anche nel senso di inventare, attraverso i costumi, un’identità fluida per i protagonisti. Ma il maglioncino femminile a tinte pastello, se davvero è stato rubato e indossato da una creatura ai margini, non può avere ancora la fila completa dei bottoncini di perla, altrimenti si può correre il rischio della messa in posa estetizzante, che fa assomigliare la scena più alla copertina di un rotocalco di lusso che alle immagini di un film. Quello, insomma, è il problema, non i corpi sbudellati, non il sangue – che in fondo diventa anch’esso décor. Lo stato di inconciliazione diventa, attraverso la bellezza ammirevole delle immagini, un’utopia visuale, che cerchia e imprigiona sé stessa, dissanguandosi di immagini.