Dal cinema all'arte / Harun Farocki. Pensare con gli occhi

7 Aprile 2018

Harun Farocki è un artista poco conosciuto in Italia, a parte l’omaggio dedicatogli un anno dopo la morte dalla Biennale di Venezia del 2015, intitolato Atlante di Harun Farocki, con rimando al grande tema dell’atlante, da Aby Warburg a Gerhard Richter e oltre, e poco dopo il seminario internazionale a lui dedicato allo Iuav. Figura singolare e al tempo stesso paradigmatica di un modo di fare cinema che è approdato nelle gallerie e nei musei d’arte, meritava uno sforzo ulteriore come quello che ha visto il convegno dedicatogli a Torino nel novembre del 2016 e ora il volume che ne riprende il titolo e lo amplia per ricchezza di materiali e di interventi, curato da Luisella Farinotti, Barbara Grespi e Federica Villa per i tipi di Mimesis: Harun Farocki. Pensare con gli occhi.

 

Nato nel 1944 in una cittadina allora tedesca oggi ceca, debutta nel cinema a metà degli anni ’60 con film di impostazione situazionista, di critica politica e della cultura: “cinema come forza antagonista e militante, strumento di lotta e di controinformazione, antidoto critico alla sua stessa fascinazione”, scrive Farinotti. Insegna, scrive, milita. Negli anni ’80 mette a punto il suo modo personale: le definizioni che ne sono state date, film d’osservazione e film-saggio, sono indicative della direzione e dell’originalità. Non si tratta di un cinema di finzione, ma neppure di documentario, dei due insieme quasi che essi si contrappongano è dire ancora troppo poco. Certo la provenienza è il cinema –  lo sguardo antropologico di Bresson, l’arte del montaggio in Godard, il cinema speculativo di Straub e Huillet, è stato sintetizzato – ma un cinema che condivide le preoccupazioni dell’arte – della cultura – contemporanea. Molti ne hanno tentato una descrizione sintetica: “poco riducibile alle definizioni, oscillante costantemente fra poesia e teoria, scherzo e gravitas, come fra fiction e documentario” (Christa Blümlinger); cinema “diagramma” (nel senso di Deleuze), per il modo in cui le immagini assumono progressivamente senso nel loro ripresentarsi, nel continuo riapparire entro nuove catene per incastri, deviazioni, continui ritorni (Raymond Bellour); cinema collage, sottolineando la varietà dei materiali usati e insieme l’aspetto di discontinuità nel montaggio (Farinotti). È stato definito “antropologo del presente”, Grespi giustamente sottolinea gli aspetti che ne fanno un campione della “cultura visuale”.

 

 

I suoi film, di lunghezze e carattere diverso, a volte ricostruiscono la storia di singole immagini in altri casi ne mettono a fuoco l’esistenza di classi, warburghianamente spaziando dal documento all’arte alle immagini di massa a quelle tecniche. L’aspetto di riflessione sull’immagine, sulla sua natura, la genealogia, le funzioni, i risvolti tecnici e il lavoro che comporta la realizzazione è centrale, ma non esaurisce né centra l’originalità di Farocki. Ora si fa appello al “gesto dell’immagine”, con riferimento a Horst Bredekamp, ora le si definisce immagini “operative”, la cui natura non è tanto riproduttiva quanto quella di “strumenti, e finanche soggetti dell’azione”. I film, tra i suoi più famosi e su cui diversi testi del volume si soffermano, sulle immagini di guerra, quella del Golfo o quelle simulate nei videogame o nei video di addestramento militare, hanno fatto parlare di “immagini-bombe”, rovesciando le bombe di sola immagine di quelli. L’operatività è senza dubbio anche uno dei concetti centrali per la riflessione sui rivolti politici sempre rimasti centrali nel lavoro e nella riflessione di Farocki: il cinema, l’opera, non come espressione del proprio pensiero personale, ma come “restituzione”, per usare la formula che Georges Didi-Huberman ha ripreso da Jacques Derrida, che acquista un duplice, se non triplice significato: restituzione alla collettività, resa pubblica e disponibile alla conoscenza di tutti, e resa visibile, nonché restituzione al visibile di ciò che vi si sottraeva o ne era rimosso.

 

Divisi in tre sezioni – precedute da una preziosa antologia di testi dell’artista – intitolate significativamente “Il cinema e oltre”, “Il lavoro con le immagini” e “L’iscrizione della guerra”, i testi del volume riprendono tutte queste tematiche e altre ancora, nonché l’analisi di singoli film, video o installazioni. Elenchiamone gli autori: oltre alle curatrici, Thomas Elsaesser, Rembert Hueser, Chiara Grizzaffi, Volker Pantenburg, Antje Ehmann, Pietro Montani, Christa Bluemlinger, Luca Malavasi, Maurizio Guerri, Alessia Cervini, Massimiliano Coviello, Riccardo Fassone, Clio Nicastro.

Il cinema, come giustamente ribadisce Villa, è il centro intorno a cui ruota tutta l’operazione complessiva di Farocki – altra “restituzione” –, il ruolo che svolge nei processi creativi altri, quelli del video, delle installazioni, ecc., il punto di ritorno costante dell’opera di Farocki, il suo “medium”, potremmo dire oggi nel senso più pregnante del termine, quello dell’insieme di regole che determinano il processo creativo. Proprio su quest’ultima questione mi si lasci deviare un momento per poi tornare e concludere.

 

È negli anni ’90 che Farocki effettua la svolta a cui si è accennato all’inizio, quella cioè che lo ha portato dalle sale cinematografiche alle gallerie e musei d’arte. Che cosa è successo? La questione non può essere risolta notando che in fondo tutti i media hanno azzardato tale svolta nello stesso giro d’anni; casomai questo evidenzia il carattere generale che può avere una risposta effettiva. E dunque: la prima opera che Farocki ha presentato come “opera d’arte”, in galleria piuttosto che in sala, è stata Interface, nel 1995, opera basata sulla presenza sullo schermo di due immagini invece di una sola, come si vede quando si fa il montaggio, dice Farocki, non come nella proiezione di un prodotto finito. Due, dunque non il flusso dell’uno, bensì di mano in mano i loro rapporti. Ebbene, non si tratta solo di metarappresentazione, di immagine nell’immagine, di discorso interno sull’immagine, sulla tecnica, sul linguaggio, ma di qualcos’altro. Sta qui anche l’importanza allargata di questo volume, che si aggiunge all’interesse specifico sulla figura di Farocki e sul cinema. Questo qualcos’altro sta nel titolo del volume stesso: Pensare con gli occhi.

 

Mi permetto di sintetizzare partendo da un’autrice che, mi pare, nessuno degli autori cita e quindi può forse essere interessante aggiungere. Farocki è infatti uno degli ultimi autori annessi da Rosalind Krauss, in Sotto la tazza blu (Bruno Mondadori, Milano 2012), alla sua rosa di artisti preferiti, che per l’occasione chiama “cavalieri del medium”. Li chiama “cavalieri” con riferimento alla mossa del cavallo degli scacchi, perché sostiene che il rapporto con il medium, con la sua specificità, vada oggi non più impugnato in termini di autoreferenzialità come nel Modernismo (greenberghiano in particolare), ma per effettuare appunto una mossa complessa, che comporta un passo laterale, uno scavalcamento, o, con altra metafora su cui Krauss insiste, per darsi la spinta come fa il nuotatore con il bordo della piscina. La doppia immagine, la metarappresentazione vanno per Krauss intese in questo senso, con tutta la forza del medium ma per andare oltre, ovvero, qui, per fare diversamente, cioè specificamente per pensare visivamente.

 

Che cosa significhi, lo estraiamo ancora dai testi del volume, ma in questa chiave, a partire dai testi di Farocki stesso. L’intenzione, ma è anche una chiave, la prendiamo da Campo-controcampo: “la presenza dell’Identico nel Diverso. Ciò dà forza al linguaggio: non ci si limita a inventare, ma comunica veramente”. È un rovesciamento determinante: non il Diverso nell’Identico, come ci ha abituato il pensiero della differenza, dello straniamento, dell’eterogeneo, ma l’Identico nel Diverso, ovvero ciò che è in comune, ricorre, slitta, si sposta, si trasforma, rimanda ad altro, tra oggetti apparentemente anche molto distanti tra loro. Il metodo lo prendiamo da un’altra distinzione introdotta in A proposito di documentario: “Nel film di finzione – nel film di finzione classico – la macchina da presa anticipa. Nel film documentario segue”. Che cosa significa “seguire”? A me sembra che significhi prima di tutto non precedere, non avere tutto stabilito in precedenza, di cui il film diventa la traduzione, la trasposizione in immagine (per restare al visivo, ma vale anche per la componente del sonoro), quindi, conseguentemente, procedere sviluppando di mano in mano, riflettendo mentre si realizza, interrogare in atto, pensare appunto, mentre si fa, sulle immagini, con le immagini, a causa delle immagini. Le immagini infatti inducono questa forma di pensiero, di osservazione, non predeterminato, non lineare, discontinuo – non montaggio senza smontaggio, direbbe Didi-Huberman –, nel suo svolgersi; verrebbe da dire: da dentro l’immagine, per questo è doppia, per questo Farocki si include così spesso. È il loro funzionamento “reale”.

 

Dunque, per concludere: che sia questa mossa del cavallo il “passaggio” all’arte, dalle sale cinematografiche alle gallerie? Che questo abbia a che vedere anche con il significato politico di questo tipo di arte?

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