Howard Gardner: avere una mente sintetica
All’età di settantasette anni, lo psicologo Howard Gardner decide di riavvolgere il nastro della sua vita e di raccontare com’è andata. In questo caso la prima edizione americana – A Synthesizing Mind, A Memoir from the Creator of Multiple Intelligences Theory – è particolarmente importante non solo perché costituisce la traccia del momento preciso in cui la mente di Gardner ha sentito il bisogno di volgere in trama la sua esistenza (correva l’anno 2020), ma pure perché il titolo contiene «memoir», cioè la parola più precisa che c’è in circolazione per rendere conto delle 214 pagine del libro. A prima vista, potrebbe sembrare un desiderio autoreferenziale o pretestuoso da parte di un bravo studioso, affermato e stimato, di non accontentarsi della propria notorietà, o approfittarne per dare in pasto al mercato del libro una sua autobiografia, magari compiaciuta. Si potrebbe pensare che tanti altri pensionati vorrebbero farlo ma al contrario di lui non hanno il privilegio di avere un buon editore, e così si accontentano di figli e nipoti. Si potrebbe persino maturare il pregiudizio che un’intenzione simile porti a un risultato pedante o noioso. Ma la verità è che basta addentrarsi di poche pagine in Una mente sintetica per capire che non c’è nessuna vanagloria da parte di Gardner: lo scrittore non si parla addosso, non si perde a commemorare i bei tempi andati, né approfitta della pazienza del lettore o del proprio buon nome. L’operazione è integralmente onesta e, per dirla con una parola a lui cara, davvero ‘intelligente’.
Senza giri di parole, già nelle prime tre pagine Gardner denuncia il suo programma: mostrare che il pubblico americano tende ad associare ciascuno studioso all’idea di maggior successo che ha avuto, ignorando tutte le altre; per una volta lo studioso vuole trascurare le menti degli altri per concentrarsi sulla propria – una mente sintetica. Tra l’inizio e la fine del libro entrambi i punti vengono effettivamente trattati, ma in più c’è una terza tensione che si somma a queste, per quanto non compaia sulla mappa. Con grande lucidità e generosità, Gardner conduce una specie di efficace visita guidata, accompagnando il pubblico nelle tappe fondamentali della propria carriera di figlio, di scolaro, dopo di ricercatore e infine di pluripremiato scrittore e divulgatore. E non lo fa tanto a scopo commemorativo, ma soprattutto con un intento pragmatico.
Il suo non è un tour di aneddoti, non si tratta di un safari nella savana di Harvard, l’enfasi è tutta sul percorso, sulla sua accidentalità, sulla poliedricità: vi si trovano alcuni buoni consigli e qualche definizione precisa. Il taglio è pratico e concreto. Così, più che l’intervista a un grande maestro, sembra una specie di manuale per sapere come potrebbe andare, casomai si abbia intenzione di scalare una montagna simile. E il riferimento alla montagna non è casuale, perché nella prima parte del volume scopriamo che Howard Gardner è stato a lungo negli scout e che questi gli hanno insegnato il piacere di percorrere la strada. Forse gli hanno insegnato anche – si direbbe da quest’ultima opera – una certa genuina attenzione nel tornare utili agli altri mostrando ai prossimi scalatori le pietre stabili e quelle che presto franeranno. È una cosa che l’autore fa, per esempio, quando sottolinea l’importanza di affidarsi ai grandi maestri, oppure quando scoraggia la scrittura di libri troppo tecnici, che saranno in grado di parlare soltanto a una ristretta cerchia di specialisti senza immettere cultura generale nel mondo.
Per spiegare il proprio successo a chi si è imbattuto per caso nell’autobiografia, Gardner confida che è dipeso da una sola parola: «intelligenze». All’inizio degli anni Ottanta, infatti, ha intrapreso uno studio che gli ha permesso di individuare e descrivere sette differenti abilità, che ciascuno di noi esercita in sé con un grado differente di fioritura e di sviluppo, e che può scegliere di ascoltare o di allenare. A distanza di quarant’anni, l’impressione di Gardner è che la sua teoria non sarebbe diventata altrettanto nota se la parola utilizzata per descrivere queste aree fosse stata diversa: ‘talento’, ‘capacità’, ‘stile di apprendimento’ o ‘competenza’ non avrebbero affascinato il pubblico allo stesso modo.
Anche se il contesto era quello di un serissimo dipartimento di psicologica cognitiva, l’autore sottolinea che una parte fondamentale del lavoro consiste sempre nello scegliere i nomi. L’intelligenza linguistica, quella logico-matematica, la musicale, la spaziale, la corporeo-cinestetica, la interpersonale e la intrapersonale hanno cambiato le cose. Il merito dell’impresa tassonomica, infatti, non è stato tanto quello di definire una volta per tutte le capacità umane, che è possibile riorganizzare e rinominare sempre senza mai avere la pretesa di giungere a un insieme perfettamente stabile. Il vero carattere rivoluzionario della ricerca è stato aprire un fuoco di fila contro una forma più statica di genialità e di intelligenza: «avevo lanciato la mia sfida: addio, forse a mai più rivederci, singola forma di intelligenza misurata dagli onnipresenti test del QI; benvenute intelligenze multiple, i cui metodi di valutazione erano ancora di là da inventare». Ecco il motivo per cui Howard Gardner è famoso in tutto il mondo e ha pubblicato svariati libri, oltre ad aver ricevuto tanti premi e una cattedra stabile ad Harvard.
La seconda parte del memoir si concentra proprio sulla pubblicazione del libro sulle intelligenze multiple, e sul successo come evento trasformativo e irrefrenabile. Gardner mostra in maniera molto semplice alcune delle conseguenze pratiche che ha comportato, positive o negative che siano.
Tra le prime rientra la possibilità di avere lauti finanziamenti e portare avanti nel migliore dei modi gli studi, alcune buone collaborazioni come quella che – in Danimarca – gli ha dato l’opportunità di allestire una specie di parco tematico per divertirsi ed esercitare le diverse intelligenze, oppure l’esperienza di Key School in Pennsylvania, una scuola fondata su un insegnamento alternativo a partire dalle aree da lui individuate. Tra le conseguenze negative della notorietà, invece, ci sono chili di posta inevasa e svariati fraintendimenti teorici, come quello che ha spinto alcuni studiosi australiani a postulare che lo sviluppo di una particolare forma di intelligenza sia il risultato dell’appartenenza a una certa razza. Tra gli aspetti più interessanti della rievocazione c’è anche il fatto che, per quanto Gardner abbia deciso di non intervenire a modificare la lista, lo studioso non ha mai smesso di ragionare sull’individuazione di altre forme di intelligenza, per esempio quella «naturalista» – che avrebbe a che fare con la capacità di integrarsi in maniera favorevole con un certo ambiente –, quella «esistenziale», oppure quella «pedagogica».
Il motivo per cui le cosiddette “scienze sociali” lo appassionano tanto è tutt’uno con il motivo per cui secondo lui non è opportuno chiamarle così: «non siamo scienziati nel senso in cui lo sono un fisico o un chimico, e non siamo dei matematici. Perché tutto ciò che scopriamo e di cui scriviamo può modificare quel che accadrà nel futuro – come dico spesso, studiosi come questi possono “cambiare la conversazione”, ed è quello che fanno». In questo giro di frase si trova riposto un insegnamento memorabile del libro di Gardner, cioè l’idea che qualsiasi acquisizione teorica non sia interessante in quanto tale, ma lo diventi ogni volta che entra nel patrimonio condiviso del linguaggio, fino a fornire un elemento analitico e concettuale che le persone avranno a disposizione per parlare di sé, per capirsi, per migliorarsi: «può essere che se descriviamo accuratamente le crisi d’identità, sempre meno persone vi incorreranno». Potrebbe sembrare un punto di vista naïf, esageratamente ottimista, ma dal libro si apprende che ha orientato sul serio la vita accademica e la carriera di Gardner, sin dai tempi del giornalino scolastico, che in un certo senso è stato il suo primo atto di divulgazione.
Forse da questa convinzione che la teoria sia tanto utile quanto più entra nella vulgata e guadagna un posto nei discorsi della gente, dipende anche il fatto che ad Howard Gardner, nel 1995, è capitato spesso di autografare il libro di Daniel Goleman – Intelligenza emotiva – senza curarsi di sottolineare che l’autore non era lui. È uno dei pochi aneddoti del libro, ma mostra il tipo di ricezione ecumenica che Gardner ha in mente: il pubblico magari è superficiale e commette errori grossolani, ma di solito ha ragione. Se un’idea inizia a prendere piede e a circolare, al netto delle storpiature o dei fraintendimenti, quell’idea sta cambiando il mondo e va incoraggiata.
E la mente sintetica?
Tra una pagina e l’altra, il libro si propone di raccontare qual è lo stile intellettuale di Gardner, che consiste nella disposizione istintiva ad assorbire stimoli diversi e contrastanti, per poi produrre una sintesi. Una mente fatta così è disponibile a processare grandi quantità di dati, si espone senza timore alla complessità, e quello che fa poi – la sua azione più propria – è attivare un metabolismo produttivo, mettere a sistema dei materiali grezzi o semilavorati di partenza per estrarne una risultante che non si esaurisce mai nella somma delle singole parti. A un certo punto Gardner si domanda qual è la differenza tra una mente creativa e una mente sintetica, ma la verità è che non risponde: è forse uno di quei casi in cui la risposta deve ancora arrivare. Intanto, però, lo scrittore ha la premura di mettere in chiaro che la mente sintetica sarà la più difficile da sostituire con un robot in un futuro più o meno prossimo, proprio perché per sua natura è lenta, ha bisogno di crescere e maturare nel tempo insieme al corpo che la ospita.
La prima parte del libro è dolce ed estremamente scorrevole, senza dubbio la più intima: Howard Gardner descrive il trasferimento dei suoi lungimiranti genitori ebrei dalla Germania di Hitler all’America del Nord, la prematura scomparsa del fratello, il primo manuale di psicologia di cui gli ha fatto dono lo zio Fritz. E svariati dettagli che poco alla volta costruiscono il quadro necessario per comprendere qual è il brodo primordiale da cui si genera una mente sintetica. Altrove, più avanti, l’autore dissemina qualche breve aggiornamento sul destino della famiglia che si è costruito dopo, sui suoi figli, sul secondo matrimonio. Ma lo fa solo quando è necessario. Completa questo quadro una galleria finale, esile ma significativa, di scatti fotografici – così il lettore può dare un volto ai protagonisti della vicenda.
Tra le citazioni più memorabili che occorrono tra le pagine c’è l’ode scritta da Wystan Hugh Auden in memoria di Freud: “ora lui non è più una persona, ma un intero clima di opinione”. E questo, per Gardner, è il migliore augurio possibile da fare a una mente sintetica. Che le sue parole diventino un patrimonio comune, linfa per quel capitale semantico che in fin dei conti è l’unica intelligenza collettiva in grado di cambiare il mondo.