I ritratti del Fayum
Fayum è una regione dell’Egitto situata a est del Nilo, a monte di Menfi, ed è da questo territorio che prendono il nome i famosi ritratti: tavole pittoriche apposte sulle mummie che riproducono in modo realistico le fattezze di defunti. Culturalmente appartengono all’Egitto romano, sono ritratti romano-egizi, ma anche greci, per via della precedente dominazione. Come sa chi li ha visti nelle sale dei musei europei e americani, o in una mostra romana di qualche anno fa, sono tra i più bei ritratti della storia dell’umanità, e tutti rigorosamente senza autori. Dalle tavole del Fayum emana una tonalità schiva, un’insondabile tristezza: sono visi straordinariamente seri. Jean-Christophe Bailly, scrittore e saggista francese che ha dedicato a queste pitture a tempera e a encausto un libro bellissimo, L’apostrofe muta. Saggio sui ritratti del Fayum (traduzione di Stefano Chiodi), dice di loro: “Non aspettano nulla, sono lì, senza peso, senza leggerezza, senza passare o spegnersi. Resistono, resistono all’infinito. Senza alcuna affettazione, senza atteggiamenti, resistono alla complicità e persino al fascino”. I volti di donne, uomini e bambini ritratti recano uno strano pudore e una discrezione cui non siamo abituati, almeno in pittura; è un popolo silenzioso che non cerca né di parlare né di esprimersi, sono come in attesa su una soglia – ed era questo probabilmente a sedurre Alberto Giacometti dei ritratti egizi. Bailly scrive che sono tra la vita e la morte: “Inchiodate da vive di fronte alla morte”. È questa con ogni probabilità la ragione per cui si resta ammaliati di fronte a queste pitture all’apparenza così semplici e persino “primitive”. Gli occhi, in particolare, colpiscono: ci si sente traguardati da quei “personaggi” attoniti e insieme profondi. Sono, dice Bailly, “oggetti meticci” che errano tra due o anche tre civiltà: egizia, romana, greca. Sull’origine dei ritratti (sono o non sono copie dal vivo? sono state dipinte prima o dopo la morte dei modelli?) c’è ancora incertezza, ma sul loro ruolo funerario non c’è alcun dubbio: sono i ritratti del defunto o della defunta avvoltolata nelle bende della mummia; ce lo dicono i cartigli che spesso le accompagnano e che indicano nome e professione. Nel mondo egizio il morto è un viaggiatore: “la morte non taglia il filo della vita, ma è ciò che la dipana ulteriormente, in un’altra vita che è la vera vita cui il morto viene restituito”, scrive l’autore. I ritratti del Fayum, continua Bailly, sono fissi, interrogativi, privi di affetti, di desideri (è questo che ci impressiona: la loro mitezza), perché sono ritratti di vivi nella morte: “Là dove si trovano, e dove è in fondo impossibile trovarsi, essi non si pronunciano, tacciono”; pur risalendo al I e al II secolo dopo Cristo, questi ritratti ci appaiono così moderni: sono dei morti (o vivi) di tutti i giorni. Per spiegare cosa intende con queste affermazioni, l’autore cita una frase di Jacques Derrida, che ha definito la morte: “un appuntamento con un sé che si è e non si conosce”. Il fascino ipnotico di questi ritratti consiste nella loro capacità di rappresentare proprio la morte: “tutto quel che sappiamo della morte, quel qualcosa, cioè, di cui non vi è né esperienza né racconto”. L’apostrofe muta è un libro straordinario perché ha la capacità di mobilitare una serie di significati che ruotano intorno al tema del ritratto e a quello della morte, in modo in apparenza piano, senza mai forzare e avendo un assoluto rispetto dei dati storici e culturali; il che si traduce in un discorso su due concezioni della vita e della morte, quella egizia e quella greco-romana che nelle tavole di Fayum si fondono senza cancellarsi reciprocamente. Bailly è capace di allargare il suo discorso per cerchi concentrici, fino a portarci a conclusioni davvero straordinarie sul tema della persona e della sua raffigurazione nella nostra cultura. Mentre noi chiudiamo gli occhi e la bocca ai morti, gli Egizi, al contrario, li aprivano, poiché il morto sta per oltrepassare una frontiera che in realtà non esiste. Il mondo egizio, ha detto Jan Assmann nelle lezioni al Collège de France dedicate a questo tema, non ha bisogno di essere ‘salvato’ nel senso messianico del termine, ma di essere ‘mantenuto’. Se noi occidentali, figli della cultura greca ed ebraica, siamo angosciati dalla morte, gli Egizi, che vedono nella morte un elemento di stabilità nell’ordine architettonico del mondo, sono terrorizzati dal disordine e dal caos; per questo bisogna proteggere il defunto anche dopo la morte: tutto deve continuare come prima. Ecco da dove nasce la grande considerazione degli Egizi per i riti funerari, la tomba e la conservazione dei defunti. Nelle mummie con il ritratto del Fayum s’incontrano due diverse concezioni: la mummificazione, che indica una presenza, e il ritratto, che nasce da un’assenza, il volto dipinto che sta al posto del morto. Nella nostra cultura, l’immagine – si pensi alla fotografia e ai suoi usi – è “l’ombra che rimane”, “l’ultima superficie sulla quale si può trattenere un palpito di colui che fu vivo”. Nelle tavole del Fayum queste due concezioni si congiungono, o almeno tentano un contatto ravvicinato: ritratto somigliante e mummia, sono due differenti e opposte messe in scena dell’addio alla vita. I ritratti della località egiziana sono tutti frontali, assomigliano alle fotografie che si fanno per i documenti, per l’identificazione (nessuno, o quasi, si riconosce in una fototessera, anzi, lì noi tutti siamo immagini-di-morti, ha detto una volta Italo Calvino); il ritratto, scrive Bailly, ha un rapporto privilegiato con la morte, e i ritratti più commoventi dei tempi moderni – gli autoritratti di Goya o il viso di Gilles dipinto da Watteau – sono proprio quelli che “hanno saputo cercare la persona dietro il soggetto, dipingendo qualcosa che non dice né me né io, ma erra sotto i nostri occhi fra tre pronomi, fra tre persone del singolare (io, tu e anche egli)”. Nelle pitture del Fayum i volti hanno questo stesso “atteggiamento”: le persone rappresentate hanno tutte l’aria di comportarsi come “affittuari” e non proprietari di quella forma che noi chiamiamo volto; il loro viso si presenta come una porta, una soglia: “che si apre su due lati, sulla vita e sulla morte, verso la fragilità dell’apparenza e verso l’eternità della traccia preservata e del suo invio”, scrive l’autore. Sono apostrofi mute: “ci apostrofano per sempre, senza violenza, ma con un’insistenza sommessa e continua. Un’apostrofe muta e semplice, non compassata, innocente, che ci sceglie per caso”.