I sogni di Gino Girolomoni

28 Marzo 2015

Non un singolo sogno, una stella fissa, o uno stabile punto d’orientamento lungo l’arco di una vita, ma una miriade, una moltitudine scalpitante di sogni luminosi. Mai vissuti in solitudine, se non inizialmente, nel primissimo impeto. I sogni di Gino Girolomoni non sono stati proiezioni individuali o esercizi di affermazione personale, hanno sempre toccato altre vite, hanno fatto comunità. Questo, probabilmente, lo interessava più di ogni altra cosa: la vita insieme, e un modo di stare al mondo. Anche se oggi può risultare difficile dire che cosa gli premesse di più. Per una ragione semplice: non c’era gerarchia nei suoi sogni. Almeno non apparente, non immediatamente identificabile. A chi lo ha conosciuto talvolta può essere parso una fabbrica di progetti dal ritmo convulso, un laboratorio di idee e iniziative cui era difficile stare dietro. E certo è stato anche questo. Gino era sempre una spanna più avanti del punto in cui lo avevi lasciato. Non stava mai fermo. Nella vita, si buttava a perdifiato, come rapito da una forza inquieta. Fino a morire di fatica, credo lo si possa dire.

 

Sergio Quinzio, il grande commentatore della Bibbia morto nel marzo del 1996, che a lungo è stato legato a Gino Girolomoni (si erano conosciuti a metà degli anni sessanta), in una lettera del 1982 sembra prendere distanza dai sogni di Gino, che per un certo tempo aveva condiviso. Esprime perplessità e timori: «In questi ultimi anni ti ho raccomandato più volte di stringere, impicciolire, ridurre. Ma qualche volta temo che in te possa essersi instaurato una specie di meccanismo psicologico che ti spinge ad allargare, accrescere, aggiungere sempre nuove iniziative, in una sorta di fuga in avanti».

 

Quando comincia la fuga di Gino? Davvero presto. Forse tutti i nostri sogni si formano nel fervore immaginativo dell’infanzia. Si parte sempre di lì. Da un primo sogno, da una prima decisiva visione. E Gino Girolomoni è partito da lì. Da un paesaggio scrutato con lo sguardo di bambino, o forse dalla dissoluzione di quello stesso paesaggio. Sui monti delle Cesane, che poi monti non sono (non superano i 600 metri), ma un sistema collinare che si estende fra Fossombrone e Urbino. Il nome ne rivela la storia: Cesane viene dal latino caedere, che significa tagliare. Per secoli, fin dall’età romana, le Cesane demarcano il “luogo in cui si taglia”. Il bosco, fitto all’inizio, una “foresta vergine” che confonde l’intesa fra il litorale marchigiano e la linea dei rilievi alle sue spalle, quasi una protezione, il bosco viene impoverito, qua e là cancellato, la terra spogliata. Per secoli. E non è il solo saccheggio. C’è un saccheggio che viene compiuto in tempi meno lontani, negli anni successivi alla ricostruzione, quando comincia a galoppare l’industrializzazione del nostro paese. È una valanga, un terremoto che scuote in profondità la vita sociale. Trasforma, e, inevitabilmente, distrugge. Va per le spicce l’industrializzazione, non ha il tempo di soffermarsi sui singoli casi. Più che un processo sembra uno schianto. Corre avanti e, nella sua corsa, travolge. Ovviamente offre una contropartita, porta con sé una promessa, o, se si vuole, un sogno, ancora un sogno, ma di quelli che luccicano, scintillante: la penuria è finita, ora il benessere è alla portata di tutti.

 

Tra gli anni cinquanta e i primi sessanta, al suono di un magico piffero, le campagne si svuotano, e le città, quelle del Nord, si gonfiano a dismisura. Gino Girolomoni, nato dopo la fine della guerra, nel 1946, e dunque appena adolescente negli anni del boom, vede tutti gli effetti di quest’altro “taglio”, il disboscamento della vita. Gino, ragazzo, vede, e, vedendo, soffre, e soffrendo capisce: l’industrializzazione è la soglia di un’altra storia. Siamo entrati in un’altra storia, nel tempo dell’eccesso: la terra verrà stravolta, e, con essa, la vita. Potrà apparire ammantata di splendore, ma sarà anche triste: «Andare per campagne non è più una gioia. Improvvisamente qualcosa è cambiato, in un paesaggio che non cambiava da quattromila anni, quello delle terre coltivate, e l’anima dell’uomo si è rattristata», scrive Gino Girolomoni in un libro del 1982, il cui titolo suona come un annuncio: «Ritorna la vita sulle colline».

 

Torniamo al ragazzo delle Cesane, alla sua prima visione, lo scrigno in cui sono raccolte tutte le altre visioni. Si trova addosso all’improvviso le responsabilità di un adulto: la madre è morta di tetano, il padre ha salute cagionevole, i fratelli sono più piccoli. Gino è forte, lavora come un uomo, ma spesso s’incanta fissando le rovine di un monastero che occupa una sommità poco distante dalla cascina in cui abita, macerie, niente di più, pietre sparse, muri in rovina, una chiesa priva di tetto su cui volano i falchi, in un “silenzio inesorabile che non voleva arrendersi al nulla”. Il suo nome è seducente – Montebello –, ma è un luogo in abbandono, in una terra che di lì a poco precipiterà anch’essa nell’abbandono. Gino se ne appassiona, ne ricostruirà la storia, vorrà farne il centro di una nuova vita, il punto in cui la vita potrà tornare sulle colline. Così è stato per l’eremita che lì ha abitato. Pietro Gambacorta si chiamava. Era il 1380.

 

Montebello

 

Il ragazzo delle Cesane si dovrà separare dalla sua visione e andare nel mondo, prima di tornare qui, per rialzare le mura di Montebello, e ricucire le ferite della terra. Durante il servizio militare conosce Sergio Quinzio. Il cristianesimo di Gino, già ben radicato, ha una scossa, si fa più esigente, si arricchisce di un’ispirazione profetica e apocalittica, quella fede rimasta “sepolta” sotto i pesanti strati accumulati nei duemila anni di storia cristiana, che Sergio Quinzio, con un’archeologia ostinata, va riportando alla luce.

Allora, nel mondo. Lontano dai suoi luoghi. Il mondo ora è la Svizzera. Superando una selezione, Gino entra nell’organico delle mitiche Ferrovie Svizzere. Il posto; lo stipendio fisso (buono); finalmente la tranquillità. Ma è cosa per lui? Dovrà tenere a freno i suoi sogni, raffreddarli, forse rinunciare. Non è facile: troppe cose gli ronzano per la testa, troppi progetti, e un sentimento del futuro che non gli dà requie. Avverte che è il mondo è in bilico sulla sua rovina. Sente di dover agire. «Devo solo individuare l’idea da cui partire», dice. Si mette alle spalle la Svizzera, le mitiche Ferrovie, il Posto con lo Stipendio. Torna. Sposa Tullia, che è parte dei suoi sogni, una bellissima ragazza del posto, decisiva in tutte le realizzazioni di Gino. Ricostruisce Montebello, pietra su pietra, senza toccare nulla del suo «silenzio inesorabile». Comincia a riparare la terra. Ora può dire: «torna la vita sulle colline».

 

Ma questo non gli basta: il suo sogno è severo. Vuole fare di più, allargare il raggio della sua azione. Scende in politica, a Isola del Piano, il comune in cui si trova il Monastero di Montebello; viene eletto sindaco , e farà il sindaco per due mandati; si batte perché il lavoro della terra venga riconosciuto e rispettato, si batte perché la terra non venga ulteriormente oltraggiata e i monti delle Cesane possano riprendere vita. Sul finire degli anni settanta apre la strada all’agricoltura biologica, fondando una cooperativa che intitola ad Alce Nero (oggi Gino Girolomoni Cooperativa Agricola), l’uomo di medicina della tribù degli Oglala-Sioux, che ha conosciuto l’armonia della natura prima di essere rinchiuso nello spazio cieco delle riserve. Gino Girolomoni è Alce Nero.

 

Da questo punto in poi, trent’anni o un soffio, la vita di Gino è una girandola d’iniziative, lotte, nuovi sogni. Difficile farne la sintesi. Ci prova e ci riesce Massimo Orlandi in uno splendido libro che ricostruisce la vita di Gino e i sogni che, come sussulti, l’hanno attraversata (La terra è la mia preghiera, Emi 2014). Una sintesi allora potrebbe essere proprio questa: la terra è la preghiera quotidiana di Gino Girolomoni, e forse anche la sua fede.

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