Archivio Zeta / Il Cimitero di guerra negato

25 Giugno 2020

«Disperati, increduli, smarriti» sono Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, gli Archivio Zeta, perché la seconda parte del loro Pro e contra Dostoevskij non si farà al Cimitero Militare germanico del Passo della Futa (sul cimitero e sulla prima parte dello spettacolo, nel 2019, leggi qui). Sulla proibizione dello spazio la compagnia bolognese ha scritto il 19 giugno un post su Facebook che ha raccolto più di 700 reazioni, oltre 150 commenti, varie centinaia di condivisioni. Cosa è successo? 

Da diciotto anni Archivio Zeta ha scelto come palcoscenico per i suoi spettacoli estivi un luogo fuori dell’ordinario, il Cimitero militare germanico della Futa appunto, dove sotto lastre tombali fitte lungo i pendii della collina sono sepolti molti militari tedeschi morti durante l’ultimo conflitto mondiale. Il luogo della pace di chi aveva portato furia e distruzione, tra i monti ventosi, con odori di menta e rosmarino d’estate, si è trasformato nell’arena amplissima dove rappresentare gli orrori e le meditazioni della tragedia greca, i misteri del Macbeth di Shakespeare, gli stermini e le tanta parole di propaganda della Grande Guerra mutando il sito in quel “teatro di Marte” di cui parlava Karl Kraus in Gli ultimi giorni dell’umanità (maschere antigas tra l’aria pura dei monti), e la terribile angoscia dell’uomo del sottosuolo Dostoevskij, l’anno scorso e quest’anno (tutto l’elenco degli spettacoli lo trovate qui). 

 

“Gli ultimi giorni dell’umanità”, da Karl Kraus, 2014.


Ma lo spettacolo questa estate non si farà. Prima di raccontare perché, provo a narrare il teatro fuori dell’ordinario di Archivio Zeta, riprendendo vecchi articoli del 2012, scritti con la felicità di aver scoperto qualcosa che veramente cambia lo sguardo.

 

Stanchi dei rituali esausti della società teatrale, della ricerca affannosa di sovvenzioni, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti una decina d’anni fa se ne fuggirono tra i monti, per sperimentare un loro teatro in mezzo alla natura. Allievi di Luca Ronconi e di Marisa Fabbri, abbandonarono le capitali degli stabili. Incontrarono altri maestri come gli appartati Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, e poi Paolo Benvenuti. In cerca delle possibilità di un pasoliniano “teatro di parola” che fosse cartina al tornasole di una nuova coscienza civile, fondarono Archivio Zeta, iniziando nel 2003 a fare spettacoli sull’Appennino, in un luogo di suggestioni immense e stridenti, il Cimitero militare germanico del passo della Futa, tra Bologna e Firenze. 

Quella collina lungo la Linea Gotica, piena di lapidi di 30.000 soldati morti col passo dell’invasore, culmina in un sacrario simile a ala ripiegata. In quella specie di tormentato Walhalla che pare disegnato da Adolphe Appia, lo scenografo che sognò un Wagner astratto, dal 2003 hanno organizzato, ogni agosto, la rappresentazione di una tragedia antica. Quest’anno hanno concluso l’Orestea di Eschilo con l’ultima opera del ciclo, Eumenidi (la trilogia completa sarà presentata l’anno prossimo).

 

Chiedono silenzio. Ascolto. «Faremo lo spettacolo insieme a voi, guardandoci negli occhi». E nella salita, tra lapidi di giovani soldati, migliaia nel prato disseccato dall’estate, con qualche fiorellino di montagna e appena un alito di vento, con un senso di pace irreale, non si sente una voce. In cima, verso il sacrario, la cripta nera, il sancta sanctorum di questo luogo che ricorda l’offesa della guerra, lo sterminio e l’apparente pace di una democrazia sempre imperfetta, risuonano voci in una lingua sconosciuta, lontana, quel greco antico che ha formato la nostra fracassata cultura. Inizia il rito finale della tragedia della colpa e della vendetta, le Eumenidi di Eschilo, ultima parte dell’Orestea, trilogia che fondava la giustizia dei tribunali, e la democrazia, sulla pietra dello splendore della polis, Atene, che aveva sconfitto nel sangue i persiani. Mettendo a confronto l’assassino della madre e le accusatrici, le Erinni, antiche deità della terra profonda, del ventre materno, qualcuno dice con i capelli di serpenti e veleno, in uno scontro apparentemente senza uscita: ho ucciso la madre che aveva ammazzato il padre. Vuoi più bene a papà o a mamma? Di chi sei figlio, di più? Chi dà la discendenza? Chi ha le chiavi del potere? Chi trasmette la roba?

È sorprendente questo spettacolo in mezzo ai boschi, in un luogo che ispira sentimenti contrastanti, la violenza cieca, per l’appunto, e la pace conquistata a prezzo di tante vite. È brechtiano, pasoliniano, ronconiano e perfino ispirato fortemente alle cartesiane, umanissime, aperte visioni ideologiche di quei geni che sono stati Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, brechtiani radicali di fine novecento. È freddo, straniato, semplicemente, con grazia, destabilizzante. Ma è pure qualcosa di originale, un atto poetico che riduce il testo antico all’osso per andare a scalfirne le incrostazioni e portarlo a quello che contiene di ancora vivo, di perennemente bruciante. Un “teatro di parola” come lo sognava Pasolini, capace di diventare rito democratico, controversa analisi per via di fantasmi dell’immaginario del nostro stare, singolarmente e in comunità, nel mondo.

 

“Coefore”, da Eschilo, 2011.


Ecco, torniamo a oggi. Dopo diciotto estati, a rincorrere le previsioni metereologiche, perché sulla Futa agosto spesso è fulminoso, piovoso, tempestoso, a conquistare gli spettatori grazie soprattutto alla forza degli spettacoli e al passaparola (l’informazione e la critica non hanno dato ancora a questa compagnia lo spazio che merita), quest’anno lo spettacolo non si farà. 

Alla conclusione della pausa forzata imposta alle prove dall’emergenza sanitaria Covid-19 la ‘prima’ dello spettacolo, inizialmente prevista per il 4 luglio, era stata spostata al 18. La compagnia era già entrata nel Cimitero, di solito gestito solo da un custode che apre i cancelli alla mattina e li chiude alla sera, lasciando libero l’ingresso durante il giorno a chiunque. «Avevamo già portato negli spazi alcuni elementi scenografici» ci ha raccontato il 19 giugno Enrica Sangiovanni, chiarendo: «noi, con l’ente privato tedesco a partecipazione statale che gestisce tutti i cimiteri di guerra, il Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge, abbiamo un contratto triennale, rinnovato l’anno scorso, dove sono previste le date di uso di ogni anno». 

Questa, si sapeva, sarebbe stata un’estate diversa dalle altre, come differente era stato l’inverno, con il debutto di un nuovo spettacolo e varie repliche annullati a causa del blocco di tutte le attività, un evento già devastante per una compagnia che gode solo del finanziamento della Regione Emilia Romagna. Ma quando è arrivata la notizia che si sarebbe potuto riprendere a fare rappresentazioni all’aperto, subito Archivio Zeta ha indirizzato alla direzione del VDK una lettera in cui si impegnava in un protocollo di sicurezza più rigido di quello vigente in Italia, con termo scanner, liberatorie da firmare, distanza di sicurezza maggiore. «L’abbiamo inviata una quindicina di giorni fa. Per qualche giorno non abbiamo avuto risposta. Poi lunedì 15 giugno ci è arrivata una breve comunicazione che vietava lo spettacolo per “evitare qualsiasi rischio di contagio”. Ed è da notare che spettacoli all’aperto ora si possono fare sia in Italia sia in Germania: ma la direzione del Volksbund non si appella ad alcuna norma, ma solo al diritto proprietario».

Archivio Zeta ha messo in moto una discreta opera diplomatica, incaricando di cercare una mediazione con le istituzioni tedesche Carlo Gentile, ricercatore e professore aggregato all’Università di Colonia, storico, perito tecnico nei principali processi di stragi nazifasciste in Italia, collaboratore di vari volumi. Senza esito.

Non c’è stato nulla da fare. Il 15 giugno è arrivato il diniego finale. «Ci sembra un eccesso di zelo, a dispetto di tutte le rassicurazioni che garantivamo. Il paradosso sarà che vedremo mille persone per gli spettacoli in piazza Maggiore a Bologna e in altri luoghi, le spiagge affollate come non mai, mentre la Futa rimarrà deserta, ma pure aperta a ogni visitatore, dato che non esiste un filtro ai cancelli». 

 

“Agamennone”, da Eschilo, 2010.


Le alternative possibili? «Ci siamo rivolti a vari comuni, per provare a trovare uno spazio alternativo. Alcuni hanno espresso tutta la loro solidarietà, altri, come Firenzuola, nel cui territorio è il Cimitero, hanno negato ogni dialogo. Stiamo discutendo col Comune di Bologna e con la Regione Emilia Romagna. Un’alternativa sempre possibile è spostare il nostro Pro e contra Dostoevskij a Monte Sole, nel parco che rievoca la strage nazifascista. Vi abbiamo già ambientato varie azioni, collaboriamo stabilmente con la Scuola di pace di Monte Sole. Ma non è facile riambientare in un altro luogo uno spettacolo pensato su uno spazio così connotato. Al Cimitero militare della Futa abbiamo anche dedicato un libro, Teatro di Marte, pubblicato in una nostra collana (si può richiedere scrivendo al sito www.archiviozeta.eu, ndr)». 

 

Copertina del libro “Teatro di Marte. Il cimitero militare germanico del passo della Futa”.


Quel libro analizza storia e architettura del cimitero, voluto alla fine degli anni cinquanta, progettato da Dieter Oesterlen e inaugurato nel 1969; riflette sui “luoghi della memoria” e su quel “luogo del nemico”, come intitola il suo saggio la storica Elena Pirazzoli; ripercorre con le immagini di Franco Guardascione le invenzioni di Archivio Zeta, che hanno esplorato il sito in ogni suo angolo, tra cieli tersi e architetture di nuvole, rivelandone ogni volta aspetti nuovi, facendo reagire alchemicamente le suggestioni dell’ambiente, la memoria dell’orrore della guerra e dello sterminio, il motto inciso in una corona di spine nella cripta del Cimitero che invocano “dolore, consolazione, silenzio”, gli antichi testi teatrali rivivificati, riportati a vita urgente. 

Ci congeda Enrica Sangiovanni: «Ci consola l’interesse di alcune istituzioni e soprattutto la solidarietà dei nostri spettatori. Ci sono arrivati tanti messaggi. In uno c’è scritto: “Io non so se vi è chiaro che noi vogliamo voi. Vogliamo le vostre voci, le parole dei grandi scrittori che prendono forma nelle vostre interpretazioni, gli abiti di scena e le scenografie, la vostra creatività. Se non può essere la Futa sarà altrove, sarà ‘in capo al mondo’. Bene! Noi ci saremo. Consapevoli che il luogo ha importanza assoluta confidiamo nell'idea che ‘uscirà’ una bellissima alternativa. Per portarci un po’ avanti, intanto, sapreste mica darmi la posizione Google Maps di ‘in capo al mondo’?”. Per ora, però, le dieci persone che avrebbero lavorato allo spettacolo rischiano di rimanere senza stipendio per altri tre mesi».

 

Le fotografie degli spettacoli sono di Franco Guardascione.

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