Il discorso grigio della politica
Sembra un pugile prima di salire sul ring, un atleta che si riscalda, un divo che si carica prima di affrontare le telecamere o il pubblico delirante di un concerto. Movimenti frenetici, parole in libertà, compulsive scariche di adrenalina, gesti che paiono mossi da una misteriosa forza estranea. Fanny & Alexander con Discorso grigio (drammaturgia di Chiara Lagani, regia di Luigi de Angelis, suono The Mad Stork) costruisce quello che sembra il suo spettacolo più politico, continuando in realtà una riflessione sulla retorica del dominio, sulle correnti che muovono l’arte di persuadere più o meno occultamente.
L’attore è lo stesso di Him, lo strepitoso Marco Cavalcoli. La sua faccia qui ti sembra un momento simile a quella di Berlusconi e subito dopo a quella di Matteo Renzi, mentre la sua voce passa dai timbri profondi di Obama all’inflessione caratteristica dell’ex presidente del consiglio, dallo svagato metaforeggiare di Bersani all’esse soffiata del sindaco di Firenze, dalla zeppola rivoluzionaria dell’eloquio tardo-togliattiano e emozionale di Vendola al grigiore di Monti agli eccessi di Grillo, incrociando la raucedine di Bossi, l’abbaiare di La Russa, le cadenze di Prodi, gli effettismi di Veltroni eccetera eccetera.
In Him (2007) lo stesso attore riproduceva da solo come un ventriloquo la colonna sonora delMago di Oz di Victor Fleming (1939), in una gara impari e virtuosistica, da vero “mago”, con il film. Qui è una specie di Crozza o Guzzanti che non lascia tempo alla satira di depositarsi in risata per diventare un tritatutto, una vera e propria tragedia della parola staccata dalle cose, indossata come gesto verbale, come maschera intercambiabile, per conquistare consensi. Gli attori della scena politica si equivalgono tutti e anzi scivolano l’uno nell’altro in un unico “discorso alla nazione”, al quale l’oratore si prepara come in un training atletico per conquistare il record del consenso.
Tra Him e Discorso grigio c’è West (2010), un’altra tappa del lungo progetto dedicato dalla compagnia ravennate al romanzo di Frank Baum tra il 2007 e il 2010: là era Francesca Mazza a essere letteralmente mossa, eterodiretta nei movimenti e nelle parole da voci esterne. Qui i diversi tipi politici sembrano animati da un unico, consequenziale discorso, che è una lunga promessa di azione che rimane parola, orazione, intrattenimento che mira a blandire, indignare, polemizzare, galvanizzare, moraleggiare, riscaldare, coniando parole d’ordine sempre più svuotate di significato e di efficacia pratica.
L’attore-uomo politico, annunciato da una voce femminile che invita a spegnere i telefoni cellulari, è colto, anche grazie a un continuo, efficace tappeto sonoro, nei fuori onda, negli arrivi mirabolanti in elicottero, nel pulsare del cuore prima di andare in scena, nell’irrompere di tic gestuali che sembrano dominarlo, trascinarlo, come un metafisico vento della necessità di imporsi. I backstage si alternano ai discorsi diretti, davanti ai microfoni, con l’interprete sempre collegato a un altrove tramite cuffie. Il viaggio nella parola carpita ai telegiornali, agli interventi televisivi e ai talk show si innerva di richiami a pulizia, bellezza, governo, ottimismo, coesione, rinnovamento, parole ridotte a etichette senza materia, senza dimostrazione, che diventano apocalisse del senso, trasformando l’azione politica in comizio postmoderno affidato ai colpi a effetto escogitati dalle teste d’uovo della comunicazione. Perciò tra Berlusconi, Bersani, Renzi, Vendola & C. c’è poca differenza: di timbri, al massimo, di colori, per contenuti che compongono un unico sviare i problemi in formulette largamente condivisibili. La politica è ridotta a maschera, a discorso del consenso e non della pòlis, a rumore che precipita in afasia, in balletto di mani inguantate, in riapparizione della retorica più antica, con parole di Churchill, di Stalin e perfino di Mussolini, quasi oscurate da fragore di altri suoni.
La politica diventa, ferocemente, prova di un copione che deve scatenare il pubblico, offerta del corpo dell’oratore in cui possono convivere sobrietà, istrionismo, schizofrenia, in una fuga dalla realtà nel marketing che sembra costruire una seconda vita, una virtualità infinita di voci che rimandano solo a altre voci, come un mantra, come parole ormai incomprensibili che diventano formule magiche. Come un agitarsi di morti in simulacri intercambiabili e vampireschi.
L’attore evoca persone reali attraverso imitazioni discrete delle loro voci e una faccia di gomma che rimanda a volti tutti uguali, fatti, pensati, progettati per “comunicare”. Si brucia, finge di donarsi totalmente, fisicamente, per catturare anche con l’affanno finale, con l’apparente spogliarsi della maschera per mostrasi simile a noi, affaticato da questo governare concitato in turbine di suoni, di gesti inutili.
Bravissimo Cavalcoli, insidioso il testo: alla fine vien voglia di non applaudire, per non confondersi con quei cori registrati di approvazione. Il teatro qui chiede distanza, controllo: domanda di ripensare le regole di un’allucinazione collettiva che ha bisogno di ritornare dialogo civile.
Discorso grigio, visto al Festival Crisalide di Forlì e in tournée (il 21 settembre è al teatro Secci di Terni per il Festival internazionale della creazione contemporanea), è il preludio di un ciclo di spettacoli dedicati a vari tipi di retorica: Discorso giallo a quella pedagogica, con Chiara Lagani; Discorso celeste a quella religiosa, con Lorenzo Gleijeses; Discorso rosa a quella sindacale, con Francesca Mazza; Discorso viola a quella giuridica, con Fabrizio Gifuni; Discorso rosso a quella militare, con Sonia Bergamasco.