Lingua, Carne, Soffio / Il “Modo minore” di Enzo Moscato

5 Giugno 2020

Napoli com’era nelle canzoni degli anni cinquanta e sessanta, con bellimbusti sfaticati, bellezze di rione che lasciano incisa nella carne la cicatrice dell’abbandono e sulle giacche macchie di rossetto, ma anche le musiche dei giubox, i calypso, il chachacha di Dracula, vampiro dal nero mantello che morde le donne sul collo, l’amicizia e l’amore dei venti anni nelle chiacchiere in un bar dell’università, con quel nome perduto per sempre, gioventù. C’è un retrogusto leggero e amaro nelle canzoni che Enzo Moscato porge nel suo ultimo cd, Modo minore, con sapori melismatici di Spagna gitana e araba, di fontane zampillanti in aranceti profumati e umori carichi di vicoli asfissianti dove ci si arrangia e si cerca di mostrarsi splendenti per sbarcare la vita. Modo minore è una dichiarazione di poetica, uno sguardo acuto verso struggimenti che dalla città-sirena rimanda continuamente alla grande area musicale mediterranea che in quella modalità musicale intona le proprie malinconie, le fughe verso orizzonti aperti e interiori; ed è dichiarazione di rifiuto degli orpelli, per esserci, discreti e intensi, delicati ed essenziali, asceticamente incrinati e sorridenti in un mondo di superfetazioni. 

 

Enzo Moscato canta nel brano intitolato Modus minor, su una musica di Pino Donaggio per Dressed to Kill di Brian De Palma: “Modus minor tristezza d’ ’e sapiente / modus minor l’ebbrezza ‘e sapè niente. /Modus minore a ce parla’ / e re si do la Fa / ca mai nisciun’orchestra po’ sunà”. Il cd, il quinto del suo teatro-canzone in sottrazione, è uscito a ridosso del lockdown: voce e arrangiamenti costituiscono delle vere e proprie scene teatrali in virtuali, del gran palcoscenico della mente, esplorando, con motivi tradizionali, di diverse tradizioni, quella commistione tra lingua (o lingue diverse, contaminate), carne e soffio vitale, voce performante, che l’attore-autore aveva evocato in un indimenticabile spettacolo del 1996 dedicato ad Antonin Artaud (Lingua, Carne, Soffio, presentato al Santarcangelo di Leo de Berardinis, poi nel volume Ubulibri Quadrilogia di Santarcangelo).

 

 

Moscato è uno straordinario autore che fa vivere le proprie parole – flussi, deiezioni, incroci, invenzioni – incarnate. Sono parole meticce, come la sua città, Napoli, fatta di incroci di culture, di genti che l’hanno attraversata lasciando ogni volta qualcosa alla sua vita sempre in pubblico, come su un palcoscenico. Esponente, con Annibale Ruccello, della nouvelle vague anni ottanta che rilanciò la drammaturgia in Italia, addossandola sul corpo dell’attore, in un’esposizione sacrificale totale, debitrice ad Artaud e ad altri maestri dell’idea di presenza assoluta, che si fa facendo, evento e non re-citazione, stando ogni volta in modo diverso in scena, attraversati da onde di parole, di idee-cose, di lingue, di strati antropologici tra la tradizione, la filosofia del linguaggio e della performance, la dissipazione consumistica e mediatica contemporanea e la sua critica. 

Aveva iniziato a cantare nel 1994 con Embargos, concerto manifesto, nel quale rifletteva sull’atto di intonare con queste parole, che estraggo da un vecchio Patalogo. Annuario ’94 dello spettacolo (Ubulibri):

 

[…] sono state sufficienti le catene, i ceppi, i lacci, sbarre, grate, finestre inginocchiate, ggelusie, per costringere la gola a espettorare qualcosa di meno bruto e amaro del dolore, di meno zuccheroso e ovvio della gioia.

Perché l’anima legata, canta. Il corpo vincolato, si dibatte.

Altro non può fare.

L’indifferenza, la quiete, appartiene agli stonati.

E gli stonati, spesso, si tengono aldiquà della passione, forse ne hanno orrore, come di un precipizio.

Che si presenti violenta o dolce, dura o melliflua, mossa da felicità o da mancanza, la passione, gli stonati, nemmeno ci provano a sentirla, preferiscono la stasi, talvolta l’afonia, quasi il ‘rigor mortis’ delle corde, e non cantano, e, se cantano, cantano da liberi, non da prigionieri, cantano assai male.

Come cantano i padroni, i bianchi, i caporali, gli aguzzini, i sorveglianti.

O chi non parte, chi sta fermo, chi non va a emigrare”.

 

Eppure, e lo dice in questo ultimo disco-concerto (come tale è stato presentato nel 2016 a Ravello, ma poi, ci dice Moscato, “le cose vanno come sappiamo, non sempre gli spettacoli riescono a girare, allora abbiamo voluto almeno lasciare questa traccia del cd, prodotto dalla squi[libri], ma che di fatto ci siamo autoprodotto), eppure c’è un altro tipo di stonatura, di chi comunque vuole, ama cantare, con passione, anche se non ne ha i mezzi. E lui, con modestia, si mette tra questi. Perché la sua voce è flebile (“non sono certo un Pavarotti”), lievemente nasale, strascicata, sottile, allusiva e ambigua. Ma Moscato è capace di trasformare tutti quelli che potrebbero essere limiti o difetti in una maestria unica, avvolgente, sottilmente erotica, trascinante, lacerante e ironica allo stesso tempo, impastata con delicatezza di fragile presenza, di altrove, di framezzo.

 

 

Il cd vive degli arrangiamenti, vere e proprie invenzioni, di Pasquale Scialò, musicista e musicologo che tanto ha dato al teatro, non fosse altro che per aver curato l’edizione critica musicale dell’opera omnia di Raffaele Viviani e aver scritto saggi sulla canzone napoletana. Gli strumenti acustici e quelli elettrici, i ritmi che in certi momenti diventano dominanti, gli effetti, i trattamenti lambiscono appena la sfera del drammatico e non indulgono più del necessario al sorriso, creando un’atmosfera che dal vintage trasporta nella nostalgia, intesa come una vera e propria dimensione d’anima, esistenziale.

Lo dice nel primo brano, Carnale, firmato dai due autori: “Se po’ canta’ canzone / ’e tanta vita fa? / Se po’ turna’ guaglione / cercanno ’e ‘rricurda’ / ’a nota ca t’asceva / ’a nota ca tu putive stuna’? / Se po’ chiamma’ carnale / st’anema spoglia ca dà / cient’allerezze amare / e sbariamente ’e realtà / sì, realtà, no verità!”. Carnali ‘svariamenti’ di realtà… Tornare agli anni cinquanta-sessanta, ai motivi dell’adolescenza e della gioventù (Moscato ha festeggiato due anni fa i settant’anni); recuperare una tradizione napoletana illustre, vivificata allora continuamente dal Festival della canzone partenopea; ma anche giocare con quei brani che risuonavano nei giubox, mentre si ballava, come possiamo ricordare con qualche film di Pasolini, o che echeggiavano da radioline a transistor, da televisori grossi come casse o da 45 giri, magari ascoltati con un mangiadischi. Nostalgia, allora?

 

Moscato ci spiega: “A questo termine si associa spesso un significato negativo. E invece nostalgia vuol dire sentimento del passato, dolore del passato, e senza quello che è stato e non è più non possiamo costruire nessun futuro. È un riallacciare fili oggi sempre più labili, che i giovani conoscono poco, ricordare, con divertimento, un patrimonio canoro dimenticato di altissimo livello, perché Carosone e gli altri sono dei grandissimi. Ricordare che la tradizione è altro dalla convenzione, come ci insegnano maestri del teatro come Leo de Berardinis e Carmelo Bene. Modo minore per me congiunge il piacere di canticchiare e un’idea anche pedagogica, far conoscere ai ragazzi gioielli dimenticati. E si intitola così perché non sono un cantante, ma canto col cuore, con l’anima”.

In questo senso il disco è anche uno spettacolo totale. Con il suo congiungere parola, musica, gesto, evoca un mondo, la Napoli e i tempi che ci siamo lasciati alle spalle, i tempi del boom economico, di spensieratezza e ebbrezza per un futuro pieno di promesse, all’origine della nostra ultima modernità (e pure delle sue crisi). Lo fa mettendo su un palcoscenico i versi e le sfumature musicali, accompagnato dall’ensemble musicale, che con le sue accelerazioni, i suoi glissando, i suoi controtempi fa da deuteragonista, da voce dialogante, da eco e propulsione al cantore. E questo insieme, come appare evidente dalla sobria interpretazione del video promo, mette in scena, con gesti insieme esibiti ed essenziali, quella città barocca, misteriosa e perfino ritrosa nelle sue “espettorazioni” che è Napoli.

 

Alternati a brani originali di Moscato e Scialò (Carnale, Chiaro scuro, Cinema Aduà, Nun parla’), a testi del solo Moscato come Modus Minor, si trovano vecchi successi dal Festival della canzone napoletana (Serenata arraggiata, ‘O giubox ‘e Carmela, lo spassoso Mandolino del Texas, storia di uno strumento partenopeo finito nelle mani di un cow boy, con relativo pastiche di motivi). Si riprendono canzoni come ‘O bar de l’università, o temi da night club come L’ammore mio è… frangese o il vellutato e sempre un po’ ruvido Accarezzame. Ma la contaminazione si impegna con Arrivederci di Bindi che diventa il Cerutti Gino di Gaber, con il bellissimo, dilaniante con pudore, arrangiamento di Ciao amore di Tenco e Bang Bang, gioventù capelluta anni ’60, o con l’invito danzante a Dracula, “perché non ti succhi un bel pollo, / cha cha cha (coro) / e lasci le donne campar”. C’è il Keith Jarret del Köln Concert che diventa Non t’aggi’ ‘a perdere, e si torna dalle parti di Spaccanapoli e dei Quartieri Spagnoli con ‘O sfaticato d’o quartiere e con le “russulelle”, le belle rossettine cantate da Mario Merola, per andare di nuovo verso il pastiche linguistico con Guaglione, come fu tradotto in francese per la giovane Dalida mescolato con il napoletano.

 

Moscato ha raccontato la peste, il contagio, la decomposizione dei corpi, il venir meno del respiro e l’esplodere dell’ordine sociale in vari spettacoli, tra tutti in quel Lingua, Carne, Soffio di cui si diceva. “Era la peste – ricorda – di cui parlava Antonin Artaud, internato come pazzo nel 1937, che rimarrà in manicomio fino alla morte, nel 1948. Per lui la peste era il rischio, la malattia, l’infezione che disarticolava un sistema giunto all’esaurimento. Lui, e i maestri che a lui si sono riferiti, ci dicevano che da quella crisi si può uscire solo facendo nascere un mondo nuovo, un nuovo ordine, un nuovo teatro, un futuro. Il problema oggi è che quei maestri non se li ricorda più nessuno, e se consigli a un giovane di andare a cercare Al paese dei Tarahumara o Il teatro e il suo doppio, in libreria non li trova. C’è solo robaccia. Siamo in un momento di oblio. Artaud lo sconvolgimento che doveva preparare un altro mondo l’ha chiamato, con una metafora, peste, in un discorso metafisico. Può farci pensare che il coronavirus può diventare, superata la paura o il vero e proprio terrore, uno stimolo per cambiare un sistema che ancora ci trasciniamo dietro”.

E intanto lui questi mesi di clausura li ha impegnati per fare quello che sempre ha fatto: tradurre in lingua la carne e il soffio interno e la lingua riportarla alla vita e al respiro, affannato magari, ma in cerca di aria, di voce, di presenza, di altri in cui riflettersi. “In autunno da Cronopio uscirà il mio quinto libro di narrativa, Archeologia del sangue. Vogliamo chiamarla un’autobiografia? Riprendo la narrazione di me bambino che scopre il mondo a poco a poco, cresce e incontra persone straordinarie, e con Annibale Ruccello e poi con il premio a Pièce Noire a Riccione entra nel teatro, il tutto intrecciato con la mia vita. Parla del passato senza passatismi”.

Ma, per tornare ad Artaud, cosa bisognerebbe cambiare, oggi, del sistema teatrale? “Bisogna dare la possibilità di farlo, il teatro, come si può. La molteplicità dei palcoscenici, la tradizione, la convenzione, l’intrattenimento, la ricerca, la sperimentazione, tutto coesisteva. E tutto può coesistere. Non vorrei che questa molteplicità venisse uniformata o si riducesse a zero. Piuttosto mi preoccupo per i grandi teatri: che cosa racconteranno ai loro abbonati che dovranno respingere, per le misure di contenimento sanitario? Noi che abbiamo fatto spettacoli sempre per quegli spettatori che ci cercavano, e a volte erano pochi – 5, 10 se andava bene – non avremo troppi problemi. Pochi spettatori, ma di grande spessore: quello che conta, credo, non è il numero, ma l’intensità del rapporto”.

 

Modo minore, testi e interpretazione Enzo Moscato, progetto, elaborazioni e direzione musicale Pasquale Scialò, disegni Mimmo Paladino. 

Ensemble Modo minore: Antonio Colica violino; Claudio Romano chitarra classica, acustica, elettrica, portoghese; mandolino e oud; Antonio Pepe contrabbasso; Paolo Cimmino percussioni .

Assistente musicale Claudio Romano. Consulenza alla trascrizione dei testi Domenico Torello. Recording, mix e mastering Lello De Luca-Gianni Ruggiero, Studio Blue Megaride, Napoli. Prodotto da Compagnia Teatrale Enzo Moscato/Casa del Contemporaneo. Coordinamento e organizzazione Claudio Affinito.

 

L’immagine finale, della copertina del cd, è disegnata da Mimmo Paladino.

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