Il Nobel a Bob Dylan

14 Ottobre 2016

La vicenda del Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, che molti aspettavano e molti temevano, comincia nel 1997, quando un professore di inglese del Virginia Military Institute di Lexington, di nome Gordon Ball, fa circolare una raccolta di firme per sottoporre la candidatura di Bob Dylan all’Accademia di Svezia. Ball non arriva per caso alla decisione di far nominare Dylan. Ha conosciuto Andy Warhol, ha collaborato con Jonas Mekas e ha curato tre libri con Allen Ginsberg. Non è fatto con lo stampino accademico, ha le credenziali. Posseggo una copia dell suo libro ’66 Frames, pubblicato dalla Coffee House Press di Minneapolis, con dedica personale. L’ho incontrato nel 2007 proprio a Minneapolis, in occasione della prima conferenza internazionale su Bob Dylan (alla quale lui, lo scorbutico oggi premiato, non mandò neanche un biglietto di ringraziamento, né un augurio, niente).

 

Gordon Ball se ne stava quieto, dietro il banchetto dei suoi libri, aspettando un acquirente (in quel caso, io) e, chissà, aspettando il Nobel a Dylan per cui lui aveva iniziato la campagna, in un paese dove molti non sanno nemmeno che cosa sia il Premio Nobel (gli studenti americani, invariabilmente, me lo indicano come Noble Prize, che è quello che certi correttori automatici pensano che sia). A partire dal 1997, nella comunità dylaniana, in attesa del comunicato da Stoccolma si è sempre alzata qualche linea di febbre. L’idea generale era che avrebbero dovuto darglielo ma non gliel’avrebbero mai dato. Perché l’Accademia è fatta da parrucconi, perché non ha una grande considerazione per la poesia americana (nessun poeta americano premiato dopo T.S. Eliot nel 1948, che poi tanto americano non lo era più), perché in fondo non è uno scrittore e perché in fondo chi se ne frega del Nobel, Dylan è l’ultima persona al mondo che ne ha bisogno (verissimo).

 

 

Invece adesso il premio è arrivato, e se c’è una vasta comunità inconfessabile che tira un respiro di sollievo, c’è anche un mondo di letterati che si strappa i capelli. Vediamo le ragioni degli uni e degli altri.

Dylan è un artista della parola orale, parlata e cantata. Sulla pagina, senza la musica, sono relativamente poche le canzoni sue che potrebbero passare per poesie autonoma. Qualcuna: “Boots of Spanish Leather” (inclusa in una delle più importanti antologie di poesia americana), rifacimento aggiornato del “tono” delle classiche ballate romantiche; “All Along the Watchtower”, testo ermetico come pochi, nella sua concisione scolpita in pietra biblica; “Tangled Up in Blue”, dove il costruttivismo del testo distrugge la sequenzialità della storia raccontata (si svolge in molti luoghi, ma non sappiamo mai dove siamo, quando siamo né chi parla); “I and I”, ariosa e leggibilissima anche senza la musica; “Ain’t Talkin’”, un messaggio dall’orlo del mondo così come l’Ovidio degli Ex Ponto, citato nella canzone, mandava messaggi dall’estremo confine del Mar Nero a una Roma che non lo ascoltava più. Ce ne sono altre, certamente, ma non cambiano l’equazione generale. Paradossalmente, le canzoni di Dylan si godono come poesie più in traduzione che nell’originale. In traduzione possono essere distese in versi liberi; nell’originale, la struttura delle strofe e della rima richiede il beat, richiede una gola e una bocca. E allora?

 

Non appena si è sparsa la notizia, sono stato intervistato da due radio italiane (Rai3 e Radio24) e dall’emittente ispanica americana Univision. La giornalista di Univision aveva letto le mie note alle canzoni di Dylan (Feltrinelli 2006) nella traduzione spagnola uscita l’anno dopo (e che io non ho mai visto, l’editore di Madrid non mi ha mai mandato neanche una copia). Voleva sapere se la canzone “I Pity the Poor Immigrant” poteva essere usata per parlare dei problemi dell’immigrazione. Non proprio, le ho detto. È una canzone che parla forse più dei Padri Pellegrini e del loro desiderio di conquistare l’America e farne una cosa loro, che non dell’emigrante in fuga da una guerra o in cerca di lavoro. Il “poor immigrant” della canzone non conosce la pietà e non suscita compassione. Meglio lasciar perdere. Ma la giornalista si lascia sfuggire questa domanda, ed è seria, non sarcastica: “Vuol dire che d’ora in poi per andare a comprare le opere di un premio Nobel dovremo entrare in un negozio di dischi invece che in libreria?”

 

In America i negozi di dischi rimasti sono molto pochi, in tutta Houston dove vivo sono tre, e uno vende soprattutto tavole da surf. In realtà per comprare un disco (magari un vinile elegante e carissimo) bisogna proprio andare in libreria, dove qualche disco di Bob Dylan c’è sempre stato a partire dal 1962 e dove forse ci sarà fino alla fine dell’era del libro. Che cosa voglio dire? Che con Dylan siamo contemporaneamente dentro e fuori dalla letteratura, ed è impossibile sostenere che il Premio Nobel non è meritato perché Dylan è un cantautore e non un poeta, come è impossibile sostenere che è meritatissimo perché è il più grande poeta degli ultimi cinquant’anni eccetera. Dylan non è né una cosa né l’altra. È molto di più.

 

Mi dispiace che Valerio Magrelli, che era con me e con Alessandro Portelli nell’intervista di Rai3, abbia preso il Nobel a Dylan come un’occasione per lamentarsi che la poesia, a differenza della musica, non ha strumenti abbastanza rumorosi per farsi sentire, e che il premio a Dylan rappresenta il trionfo, parole sue, del Pensiero Unico e del Mercato a danno di quel poco spazio che è rimasto alla letteratura. Ma Dylan non rappresenta proprio nessun Pensiero Unico, e nemmeno rappresenta lo stato corrente del mercato della musica, che non si presenta poi così diverso per un giovane poeta o per un giovane cantautore. Il primo non ha nessuna speranza di ereditare l’aura che un tempo apparteneva alla poesia; il secondo (poiché nel mondo dei social media i musicisti ricevono diritti d’autore ridicoli) non ha nessuna speranza di avere un mercato, a meno che non posti un video su youtube che per un caso della sorte diventa virale. Insomma, se avessero dato il Nobel a Taylor Swift allora mi preoccuperei, ma con Dylan, suvvia, siamo in compagnia di uno che Christopher Ricks, superaccademico inglese e studioso di Milton, Tennyson e Eliot, ha definito “uno dei più grandi creatori di rime della lingua inglese”. Pensate, che ne so, alla rima/assonanza “skull” e “Capitol” da “Idiot Wind”, teschio e Campidoglio, che a Ginsberg era parsa la perfetta immagine dell’America del Watergate.

 

I vari scrittori, italiani e non, i quali hanno strillato che Dylan non fa parte della letteratura, dovrebbero chiedersi prima di tutto se ne fanno parte loro, perché pubblicare un libro, o anche molti libri, significa essere dei lavoranti della scrittura, il che va bene, ma non significa per forza far parte di ciò che la letteratura decide di essere giorno per giorno. Vale ancora di più per la poesia. Che per ammontare a qualcosa deve uscire dalla pagina, deve acquisire una voce. Ho letto e leggo tanti rispettabilissimi poeti che mai in tutta la loro vita potranno scrivere nemmeno un mediocre verso di Dylan. Perché il verso di Dylan, anche se non è cantato da lui, anche se è tradotto in un’altra lingua, “suona” più di milioni di “belle poesie” che non riescono minimamente a far vibrare una frequenza nella testa di chi le legge. Sono poesie che fanno dormire bene, ma non fanno svegliare.

 

Il verso di Dylan ha sempre il suono di un passo, comunica che qualcuno è uscito di casa e si è messo in viaggio, non sa dove sta andando ma ci sta andando, e se deciderà di fermarsi, bene, quella diventerà la sua destinazione. Ha cominciato 55 anni fa e non si è ancora fermato. Non lamentatevi. Pensate piuttosto ai milioni in tutto il mondo che si sono avvicinati alla poesia, anche a quella solo scritta, unicamente perché Dylan gliel’ha indicata da lontano.

 

Nota: siccome nessuno è perfetto, ho appena pubblicato un libro di poesie, Beato chi scrive (Nottetempo). Ma intendo redimermi quanto prima. La mia traduzione dei testi di Bob Dylan (Feltrinelli 2006) è esaurita da tempo, ma una nuova edizione è in preparazione. Lo dico per tutti coloro che in questi anni mi hanno scritto per chiedermi quando sarà di nuovo disponibile. Non so la data, ma penso proprio che ci sarà e che sarà aggiornata fino agli ultimi dischi.

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