Ressentiment / Il risentimento e la coscienza, da Nietzsche a Shakespeare
Così scrive Nietzsche:
E ora una parola di rifiuto per i recenti tentativi di cercare l’origine della giustizia su un terreno del tutto diverso – cioè quello del ressentiment. Confidiamolo prima di tutto agli psicologi, ammesso che abbiano veramente voglia di studiare finalmente da vicino il ressentiment: questa pianta fiorisce oggi in tutto il suo splendore tra gli anarchici e gli antisemiti, come del resto è sempre fiorita, nascosta, simile alla violetta, anche se il suo profumo è ben altro. E come da simile non può che derivare simile, non c’è da meravigliarsi se proprio da questi ambienti nasceranno tentativi, come spesso ce ne sono stati, di sacralizzare la vendetta col nome di giustizia […] è proprio lo spirito del ressentiment a produrre questa nuova nuance di equità scientifica (a favore di odio, invidia, inimicizia, sospetto, rancore e vendetta) (Nietzsche, Genealogia della morale).
Da Nietzsche in poi, “risentimento” si dice in francese: ressentiment. Nietzsche dichiara che l'uomo del ressentiment è tipicamente moderno, è la conseguenza di una civiltà che ha capovolto la morale: “Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che in ciò non c’è alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini” (Genealogia della morale). Questa frase è stata spesso male interpretata da un facile moralismo. Io penso che vada letta così: gli animali non sono stupidi, non provano risentimento, i predatori non possono essere rimproverati, la violenza rimane nel limite della necessità alimentare; ed è rigorosamente inter-specie. Il lupo preda l’agnello, non se stesso, anzi, dentro il branco, il sentimento di solidarietà è altissimo, diversamente dalla comunità umana, il branco dei lupi è una moltitudine che diventa unità a tutela di ogni componente.
Senza frode o favore
Al di là degli imputati (Socrate, Cristo, Lutero, Robespierre, il Socialismo) che l’autore porta a processo filosofico, mostrando a sua volta di cadere dentro gli stessi suoi argomenti, Nietzsche propone questo aforisma a contrasto con una citazione di Tommaso d’Aquino: “I beati nel regno dei cieli vedono le pene dei dannati, a maggiore compiacimento della propria beatitudine”. Sofia Vanni Rovighi interpreta questa frase di Tommaso con una considerazione che apre un’ambivalenza: “Non so se la frase voglia dire che godranno delle pene dei dannati o se voglia dire: apprezzeranno di più la beatitudine vedendo a quali pene sono sfuggiti” (Uomo e natura. Appunti per un’antropologia filosofica). Nondimeno si tratta di vincitori che provano soddisfazione per la sconfitta altrui o, in modo “più nobile”, per la propria vittoria.
Siamo di fronte a due visioni dell’al di là. La pima, quella di Nietzsche, è etica; oltrepassa in positivo il risentimento: “Scegliere la libertà dello spirito comporta abbandonare costantemente i nostri ideali… e rinunciare senza rammarico e senza risentimento, a quasi tutto quello che ha importanza agli occhi degli altri…” (Giovanni Maria Bertin, Introduzione a Umano troppo umano).
La seconda, che è morale, racconta di un “al di là” che somministra premi e punizioni, a maggior gloria dei premiati e abominio dei puniti. Nel libro Senza frode o favore, lo psicoanalista brasiliano Jurandir Freire Costa scrive:
Giuliano, vescovo di Eclano, sostenne un lungo dibattito con Agostino, che si concluse con la propria espulsione dalla chiesa ortodossa. La storia della discussione si inscrive nello scenario di un cristianesimo da poco accettato come religione ufficiale dagli imperatori romani dopo la conversione di Costantino… Giuliano era un discepolo di Pelagio… Pelagio difendeva l’idea che la perfezione umana era possibile, e pertanto necessaria… Secondo Giuliano era la “natura corrotta” di Agostino che lo aveva portato a descrivere in maniera oscura l’esperienza del sesso, della sofferenza e della morte (Freire Costa, Senza frode o favore).
Per il vescovo di Eclano, chi sta nell’al di là concede a tutti la grazia: “senza frode o favore”.
Al di qua dell’al di là, nella storia dell’Occidente, l’esposizione nella pena di morte, la pubblica umiliazione, la persecuzione, la rivolta armata, il terrorismo e il totalitarismo hanno agito nelle masse quel ressentiment di cui scrive Nietzsche. La Topografia del terrore a Berlino mostra l’uomo del ressentiment profetizzato da Nietzsche: Hitler e Goebbels ne sono il paradigma, come mostra il film Moloch di Alexander Sokurov. Il punto più ignobile mai raggiunto dal risentimento si trasforma in una finalità cosciente di sterminio, con tanto di manager, impiegati e “maestranze”, come si usa dire oggi.
Rancore e rimorso
Tuttavia il risentimento non è solo un fenomeno sociale e politico; il risentimento ha due pieghe interiori: il rancore e il rimorso.
Marco Belpoliti, in uno dei suoi saggi su doppiozero, ha osservato come il rancore abbia a che fare con il rimuginare, sul piano individuale, l’invidia che si prova per lo spirito libero che regala i suoi beni senza frode o favore. Sul piano del rapporto tra l’individuo e il sociale il rancore riguarda il rumore, così come lo intendono gli antichi; lo studio del parlar male. Nel mondo puritano descritto da Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta dipinta sulla camicia della donna adultera rende il rumore palese nella forma dell’insegna. Si tratta di una gogna più sottile, meno intensa dell’esposizione del cadavere, si tratta di una mortificazione. Non una privata mortificazione della carne che induce in tentazione. Al contrario, l’insegna indica: “verso di me dovete provare rancore, anche se non ne conoscete la ragione, la A indica che il frutto del mio seno è di altrui”, nel romanzo, si tratta del pastore del villaggio.
Per quanto concerne il rimorso, è di nuovo Nietzsche che ci aiuta. Nei tempi di democrazia, quando il benessere è diffuso, chi vive di privilegio prova rimorso verso chi è svantaggiato. La carità, più ancora nel mondo puritano, dove non è giustificazione per conseguire la grazia, risolve nel segreto il sentimento di colpevolezza provato verso chi non possiede i nostri privilegi, un risentimento verso se stessi, un rimorso appunto. Come quando Franco Citti, nell’Edipo Re di Pasolini, si morde più e più volte la mano. Un segno dell’emergenza dell’inconscio attraverso il corpo del Re giusto e magnanimo che lui stesso è.
Shakespeare
Ognuno di noi ha un debito e i nostri creditori, quando non pretendono il pagamento del pegno, entrano dentro di noi. Il parricidio, l’incesto. Quando non abbiamo più nulla da restituire, dobbiamo dare in pegno il nostro corpo, strapparci gli occhi, oppure, come accade all’Antonio di Shakespeare, dare in pegno una libbra di carne. Benché temperato dalla misericordia (che in inglese si dice mercy, derivato dal francese merci, derivato da merce, cioè “oggetto di scambio”) questo spazio è la coscienza.
Se Nietzsche denuncia l’avvento della coscienza come spazio per il risentimento, Shakespeare vede nella coscienza la follia, e riconosce un valore positivo al risentimento… Esiste dunque un diritto al risentimento? Esiste un diritto a non perdonare? A costo di ribaltare Nietzsche dobbiamo riconoscerlo, con l’aiuto di Shakespeare. La coscienza è in primo luogo coscienza del trascorrere del tempo, nella coscienza c’è la memoria. Quando Lady Macbeth muore, il folle re assassino delira in questo modo:
Macbeth – Doveva pur morire, presto o tardi; il momento doveva pur venire di udir questa parola... Domani, e domani, e domani, striscia, un giorno dopo l'altro, a piccoli passi, fino all'estrema sillaba del registro del tempo; e i nostri ieri saranno tutti serviti a rischiarar la polverosa via verso la morte a dei pazzi. Spegniti, breve candela! La vita è solo un'ombra che cammina, un povero giocatore che si dimena sopra un palcoscenico per il tempo assegnato alla sua parte, e dopo di lui nessuno udrà più nulla: è un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti, furori, del tutto privi di significato! (Macbeth)
Per Shakespeare la coscienza sta nella dimensione del tempo e il suo rischio consiste nella perdita della memoria attraverso il delirio. Da un lato la misericordia tempera la giustizia (parole di Porzia nel Mercante di Venezia), dall’altro, in una mia traduzione dall’inglese della stessa frase, “La mercede stagiona la giustizia”, ovvero, la giustizia è merce stagionata, che non significa affatto guasta, al contrario: mostra che il tempo ha bisogno di trascorrere, senza dimenticare il momento del suo avvento, attraverso la testimonianza. Il caso di Lear, Re ingiusto, e di Macbeth, re assassino, mostrano l’emergenza della coscienza nella forma della follia. Come in clinica, folle è chi dice la verità, benché trasfigurata, delle relazioni troppo umane.
Giustizia è solo una delle sette età dell’uomo, la quinta: con occhi gravi e barba regolare, ma viene dopo l’età del soldato, geloso della sua reputazione, sempre alla ricerca di lite, e prima dell’anziano Pantalone, piegato sul proprio bastone, con la voce che torna ad essere infantile, piena di suoni e fischi. In una parola: folle. Prima dell’ultima età, quella del puro oblio: “Senza denti, senza occhi, senza gusto, senza nulla” (Le sette età dell’uomo).
Mercoledì 19 febbraio 2018, al Circolo dei Lettori di Torino, Pietro Barbetta terrà una conferenza sul risentimento.