Il tempo degli assassini
Continua lo speciale dedicato agli ottanta anni di Giuliano Scabia, uno dei padri fondatori del nuovo teatro italiano, maestro profondo e appartato di varie generazioni, artista sperimentatore, poeta, drammaturgo, regista, attore, costruttore di fantastici oggetti di cartapesta, pittore dal tratto leggero e sognante, narratore, pellegrino dell’immaginazione, tessitore di relazioni, incantatore. Dopo l’intervista Alla ricerca della lingua del tempo, la pubblicazione in quattro puntate del poema Albero stella di poeti rari – Quattro voli col poeta Blake (lo potete scaricare in pdf qui), l’articolo di Oliviero Ponte di Pino sul suo teatro, Attilio Scarpellini lo intervista sulla delicata della violenza politica, incrociata in vari momenti del suo camminare e ricercare. E il poeta regala, infine, ai lettori di doppiozero una Canzone inedita.
A cena con Sartre: si riconoscono a destra Jean-Paul Sartre e Rossana Rossanda; a sinistra Italo Calvino, Luigi Nono, Giuliano Scabia, Toni Negri
O strana gente / strana gente / umana / umana che – talvolta – / lodando Dio / fai carneficina… Quando, nella sua casa in Via delle Conce a Firenze, Giuliano Scabia, con quella voce vicino-lontana, auratica, che ne fa il miglior dicitore di se stesso, mi legge i primi versi di una Canzone inedita composta nell’ottobre dello scorso anno, sa che le sue parole cadono come limpide gocce d’acqua su una pietra incandescente: è il 17 gennaio del 2015, la strage nella redazione parigina di “Charlie Hebdo” è passata come una nube tossica da appena dieci giorni, il mondo è più che mai “corteggiato da assassini” (ma anche, dice la Canzone, da “bambini come noi”) e una conversazione che ha preso inizio dal tremito dell’apparizione, parlando di poesia, dell’inesausto vagabondaggio di una poesia indistinguibile dalla molteplicità di azioni teatrali che la hanno incarnata – da quel Teatro Vagante che non è un’istituzione, ma una specie di opera diffusa, di continua fioritura di parole, di scene e di figure (di carte, di libri, di fotografie, di burattini, di passeggiate) – è digradata nell’ombra grave del mutamento e della storia, dove il desiderio e il gioco accelerano bruscamente nel delirio della violenza e del potere.
È un’ombra che c’è sempre stata, avvinta alla luce, come il Diavolo legato al suo Angelo che Scabia, vestendone personalmente i panni, ha a suo tempo portato in giro per borghi, conventi, città, spingendosi fino alla punta della Verna, dove San Francesco ricevette le stimmate. C’è una dialettica tra il bene e il male che attraversa l’opera dell’autore di Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno, di Visioni di Gesù con Afrodite, e dell’Albero stella di poeti rari, tanto ostinata nel suo equilibrio goethiano – nel suo umanismo refrattario alle demonizzazioni radicali – quanto determinata e poeticamente precisa, nella sua capacità di nominare il male quando esso si presenta nella realtà storica. Pascal diceva che non si mostra la propria grandezza ponendosi a un estremo, ma toccandone due alla volta. Parlando di violenza politica e di violenza tout court, Giuliano Scabia di estremi ne tocca almeno tre o quattro insieme: usa le categorie del terrorismo occidentale per spiegare il jihadismo – e il corto-circuito è imbarazzante –, l’arcaismo della trance per illuminare una modernità fuori controllo, il gioco come metafora della guerra, oppone i burattini alle Brigate Rosse. Quando torna con la mente sulle derive dei movimenti politici degli anni settanta parla senza mezzi termini di un “pesante gioco con la morte”. Ma nelle sue parole non c’è mai il giudizio moralistico che separa un io (un noi) virtuoso e non violento da un loro terroristico. Quando la violenza appare, infatti, essa ci riguarda e ci appartiene. Anche il suo “discorso” parte da un nucleo poetico deviato. Come quello sulle religioni. “Sono i poeti – dice – che hanno inventato gli dei. I preti li hanno rovinati. Mosè era un poeta assoluto. E anche Maometto, prima di essere rovinato dalle scuole coraniche…”.
La pagina sulla tragedia del Vajont della partitura della Fabbrica illuminata (1964, testi di Giuliano Scabia, musica di Luigi Nono)
In una pagina de Il tremito. Che cos’è la poesia (Casagrande, Bellinzona, 2006) hai scritto che le religioni alle volte impazziscono. Il fondamentalismo rappresenterebbe la fase del loro impazzimento?
La mente a volte impazzisce. Ho speso diversi anni a studiare i fenomeni di trance, che poi sono descritti perfettamente nelle Baccanti di Euripide. E i fenomeni di trance sono molteplici, c’è una trance politica, come ce n’è una religiosa. Ci sono dei “farmaci”, come li chiamavano i greci, l’umanità ne assume moltissimi, e molto spesso si tratta di droghe. I farmaci presi fuori dose ti portano in stati di trance. Il teatro, la musica, la danza inducono stati di trance. Ma se non è controllata, la trance produce sconquassi, perché ti impedisce di vedere la realtà. E la realtà è l’unica maestra, è sempre la realtà che ci impartisce delle lezioni. Non è che le religioni creino queste situazioni di euforia e di offuscamento del senso della realtà, semplicemente le facilitano. Questo non è un male in sé, il male sta nell’incapacità di gestire la fase discendente del processo, la caduta dell’entusiasmo, quando non si riesce più a sopportare che dalla furia accecante dell’apparizione si torni all’ombra del mutamento. Il teatro che si rifà a Dioniso, il teatro greco anzitutto, ma in seguito anche quello europeo, ha cercato di capire questi stati di alterazione della mente. Certo, oggi non rappresenta che un margine della società, ma per lungo tempo il teatro è stato un luogo di osservazione della mente, dove l’umanità ha trasferito i suoi incubi, i suoi assassinii, le sue vendette, i suoi adulteri, in una parola i suoi eccessi: per osservarli e per trovare un modo di uscirne. Prometeo, Elettra, Edipo. Io li ho letti così quegli scrittori e quei poeti. Catarsi per me vuol dire: cerchiamo di uscirne, cerchiamo di non farci troppo male.
Azioni di decentramento a Torino: Giuliano Scabia interviene durante il dibattito in occasione di 600.000 al Centro sociale di Mirafiori sud, ph. Pier Giorgio Naretto (grazie a Stefano Casi per le foto di questa azione)
La violenza politica però è un accecamento che si ammanta dei panni della razionalità, una furia controllata da un’economia ideologica dei fini…
Nel libro di Santo Peli sui Gap (Storie di Gap, Einaudi, Torino, 2014) c’è una genealogia molto precisa della razionalità della violenza politica. Siamo nei primi mesi del ’43, non c’è ancora l’8 settembre, non c’è ancora lo sbandamento dell’esercito, il partito comunista è praticamente decimato. È a quel punto che si formano i Gap. La loro strategia consiste nel reclutare pochissimi combattenti, comunisti di grande esperienza scelti, ad esempio, tra gli ex appartenenti alle Brigate Internazionali in Spagna, una trentina di persone divise in piccoli nuclei che realizzano attentati contro i dirigenti fascisti nelle città più importanti, a Milano, a Torino, a Genova. Nella prima lettera di Antonio Roasio, che è uno dei fondatori dei Gap, si parla esplicitamente di terrorismo, anche per provocare rappresaglie e fare in modo che la popolazione cominci a rendersi conto che non è tutto calmo e bello nel regime e che bisogna ribellarsi. All’inizio i tedeschi sono contrari a che i fascisti reagiscano violentemente, come invece avviene prima con la strage di Boves, poi con quella sul lago di Meina, e cominceranno a reagire soltanto quando verranno attaccati direttamente. Qual è il problema della scelta terrorista? Che le parole con cui viene giustificata all’inizio del 1943, dai nostri compagni, sono più o meno le stesse con cui oggi la giustificano i militanti jihadisti. Con tutte le eccezioni del caso, ovviamente, tra i Gap non si tagliavano teste e non si assassinava in nome di dio, e soprattutto non c’era l’idea che massacrando infedeli si va in paradiso. Ma, nell’essenza, il leninismo è anche questo, un monolitismo esclusivo che ha bisogno di eliminare l’avversario… Quello che osservo è che la nostra mente ha in sé il germe della violenza, del massacro, del genocidio. Una parte di noi ama il massacro. Io cerco di fare il possibile perché ciò non avvenga, ecco tutto… con il Teatro Vagante (ride). Battaglia persa in anticipo, certo. Ma l’idea è che possiamo fare delle azioni positive. Malgrado tutto, possiamo.
Azioni di decentramento a Torino: lo stendardo con la statistica sulla mortalità scolastica ripreso da Lettera a una professoressa, in Un nome così grande, ph. Italo Colombo
Nell’introduzione al numero 12 di “Culture teatrali”, interamente dedicato a te, Massimo Marino dice che dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro tu hai avuto una reazione molto singolare: ti sei chiuso dentro l’università organizzando “laboratori sempre più rigorosi, quasi scientifici”. Cosa era successo a quel punto?
A quel punto è successo che mi sono spaventato, del dolore e di quell’esplosione dolorosa che era stato il ’77. Perché avevo visto tante persone, anche tra i miei allievi, rovinate da questa infatuazione per la violenza politica. Volevo calmare le teste e allora ho detto: ricominciamo da zero. Uno dei primi lavori all’epoca è stato quello di rileggere con gli studenti la prima scena di Zip dove c’è la nascita degli attori dall’uovo. Ho chiesto agli otto studenti che in quel momento seguivano il mio seminario di cominciare dalle loro parole più segrete, che è una pratica che avevo già esplorato in In capo al mondo. Ognuno si è dato un nome e ha elaborato un copione ispirato alle prime parole, quelle dell’infanzia, quelle segrete, i primi suoni con la madre e il padre. Alla fine c’erano queste otto voci che dialogavano tra di loro. Volevo ripartire da ciò che è più radicale, più profondo e spesso più rimosso dentro di noi.
Azioni di decentramento a Torino: i bambini e il loro doppio; le maschere di cartone per il Teatrino di Corso Taranto, e – in alto – il grappolo delle sagome di teste in compensato, ph. Italo Colombo
Era una risposta al cupio dissolvi che in quel momento sembrava inghiottire i movimenti politici?
Era soprattutto una risposta all’impressionante vuoto che in quel momento abitava una sinistra che brancolava nel buio, incapace di reagire e persino di capire ciò che stava accadendo. Molti, e più di quanti non si sia creduto in seguito, avevano preso le armi o stavano per prenderle, proprio come i partigiani nel ’43. Trovavo questa scelta profondamente sbagliata, un’avventura destinata alla catastrofe. L’irruzione della violenza nei movimenti era stata presa sotto gamba, mentre si trattava di un gioco pesante con la morte. E io volevo combattere contro la morte. Con i burattini. La soddisfazione più grande, molti anni dopo, l’ho avuta nel corso di una bella discussione a Scampia con Renato Bandoli (un esponente del gruppo di fuoco toscano di Prima linea, ndr) che da una parte ha rivendicato la giustezza di quella scelta, che per lui aveva significato farsi venticinque anni di carcere senza mai aver ucciso nessuno, dall’altra mi ha raccontato che tra i libri che leggevano in prigione c’erano Marco Cavallo e Teatro negli spazi degli scontri. Ecco, gli ho detto, bisognava fare i burattini prima. Sai, Marco Cavallo alla fine vince su tutti, anche su Bin Laden. Basta intendersi sulle regole del gioco. La morte, intesa come possibilità di morire e di dare la morte, ha sempre rappresentato una posta in gioco terribilmente affascinante per i bambini e per i sognatori. Ma ha un grave torto: fa male all’altro.
Lancio di mongolfiere nelle strade di Bologna dopo i fatti del marzo ’77, ph. Maurizio Conca
Le regole del gioco hanno il problema di essere viziate fin dall’origine. Il fondamentalismo islamico ha rimesso pesantemente la morte sul piatto della sua sfida simbolica con l’occidente. Inaspettatamente, e grazie al palcoscenico dei media, la storia torna a essere una lotta a morte per il prestigio identitario…
Forse l’Islam, come qualcuno ha detto all’università di Damasco, avrebbe bisogno di una rivoluzione per togliersi dalla mente l’idea che si possa dare la morte in nome di Dio, questa spina che poi è la trave conficcata anche nell’occhio della nostra cultura, visto che è quanto abbiamo fatto con Giordano Bruno, nella notte di San Bartolomeo e in svariate imprese di conquista, prima che arrivassero tutti quei ragazzi bizzarri, da Spinoza a Voltaire, a dire che se ne poteva fare a meno. Cosa che non dissuase affatto quell’altro ragazzo ancora più bizzarro dal far tagliare migliaia di teste in nome dei sacrosanti principi dell’’89: la verità è che la dialettica della violenza non si è mai esaurita in occidente. Però sui diritti dell’uomo ci si potrebbe accordare. I poeti sarebbero su questa linea. O almeno mi piace pensare che lo siano.
Volo di mongolfiere nelle strade di Bologna dopo i fatti del marzo ‘77, ph. Maurizio Conca
I poeti non sono mai su una linea di completa adesione con il tempo e con la storia…
Non lo so, varia da persona a persona, da poeta a poeta.
E per quello che ti riguarda?
Io amo la vita, la sua bellezza. Con il bambino nasce tutto di nuovo, la percezione del mondo si rinnova… Bisogna che ognuno abbia in sé questo giocatore infinito, ecco il punto. Giocare con il kalashnikov è sicuramente un bel gioco, se non che all’altro gli fai male. Compassione, come diceva quell’altro ragazzo – quello che poi è stato adorato troppo, Budda, mentre lui non lo voleva –, vuol dire sentire quello che sente l’altro. Sono per questa via, chiamiamola così, della mediazione della vita: non vale la pena di essere peggiori di quello che già è la realtà. La realtà è già abbastanza carica di demoni, abbastanza piena di male.
(Firenze-Roma gennaio-giugno 2015)
Ciclo del Teatro Vagante: Fantastica Visione Vision Fantastique, regia di Alessandro Marinuzzi, prod. Css Udine - L'Abattoir - Centre Régional de Créations Européennes de Chalon-sur-Saône (1993)
CANZONE
O strana gente
strana gente
umana
umana che – talvolta –
lodando Dio
fai carneficina: sì
carne/fattura.
Piove. Tuona.
Si scatena Dio.
Il sole, anche lui Dio,
altrove splende.
Che nome è Dio! Lungo
quanto ha fiato e vento
il tempo della specie umana.
Canzone del mio tempo, attenta: noi
giocando ai primi baci
fiori colori e cielo con amore
la vita stavamo corteggiando.
Corteggiato da assassini è il mondo: ma
anche da bambini come noi: non
innocenti, ma
innamorati sì del gioco
innamorati sì
del giocar d’amore.
Amore che domanda: chi sei,
tempo che con me correndo stai
e mi inquieti dicendo dove vai?
(novembre 2014)