Vice di Adam McKay / Il vero corpo del potere
Poco più di un anno fa, quando Steve Bannon era ancora Chief Strategist dell’Amministrazione Trump alla Casa Bianca, iniziarono a circolare una serie di articoli su diversi organi di stampa americani che notarono un particolare apparentemente inspiegabile della sua tenuta d’abbigliamento. Quando Bannon andava in giro per interviste giornalistiche, comizi o incontri di vario tipo – cioè per tutte quelle occasioni che non richiedevano un abbigliamento formale – era solito sempre indossare due camicie, una sopra l’altra. Basta fare una rapida ricerca di immagini su Google per notare che Bannon mostra sempre questo stranissimo particolare del suo vestiario. In molti iniziarono a chiedersi il perché di questa scelta d’abbigliamento: perché l’ideologo nazionalista dell’amministrazione Trump si veste sempre e sistematicamente in questo modo così strano? È una pura idiosincrasia personale o forse sta cercando di dirci qualcosa? Persino Joshua Green, il giornalista che ha dedicato un intero libro ai rapporti tra Steve Bannon e Donald Trump ha dichiarato di non essere mai riuscito a capirlo: “non ne ho idea. È lo stile di abbigliamento più strano che abbia mai incontrato.” In molti però iniziarono a pensare che senz’altro ci doveva essere qualcosa sotto. Non era possibile che uno come Bannon facesse una cosa tanto strana per puro caso.
Nonostante molti giornalisti si siano messi a fare ricerche anche approfondite su questo dettaglio bizzarro, nessuno finora è riuscito a trovare una spiegazione plausibile. Forse non è poi così sicuro, come pensano molti, che dietro alla “doppia camicia” di Bannon si nasconda davvero una questione di politica internazionale rilevante. Ci pare che sia semmai la reazione degli organi di stampa che per mesi ne hanno scritto a rivelare qualcosa: basta la ripetizione di un dettaglio fuori posto che inevitabilmente l’impressione che ne traiamo è che si tratti di un messaggio cifrato. Perché la ripetizione di un dettaglio ci dà l’idea che ci sia sotto qualcuno che ci stia mandando un messaggio? Perché a volte la realtà sembra rivolgersi a noi e dirci qualche cosa?
La paranoia è quella struttura clinica che occupa precisamente la posizione di colui che pensa che dietro a un fenomeno del reale si nasconda sempre qualcosa che abbia un senso; che dietro a una ricorrenza, seppur marginale e bizzarra, ci sia qualcuno che ci stia dicendo qualcosa. Se Steve Bannon va in giro vestendosi sempre con due camicie sovrapposte, vuol dire senz’altro che un senso ci sia. E forse non è un caso che sia stato proprio un ideologo complottista e paranoico come lui a giocare con un “significante” così esplicitamente cifrato e ambiguo: d’altra parte l’ideologia degli ultimi anni ha sempre flirtato con l’idea che il disordine globale avesse in realtà una regia occulta. È un sentimento non solo diffuso ma anche tutto sommato consolante, che ci ripara dall’angoscia che dietro al caos politico di oggi si nasconda un disordine ancora più profondo e ancora più radicale. No, in realtà un colpevole c’è, ed è lui il responsabile di tutto quello che sta accadendo.
Ne è un esempio perfetto Vice – L’uomo nell’ombra di Adam McKay, che dopo lo splendido La grande scommessa di due anni fa (una sorta di film-essay dove riusciva magnificamente a spiegare la crisi finanziaria dei subprime del 2007-2008) volge ora lo sguardo sulla parabola dei neoconservatori americani della prima decade degli anni duemila, e in particolare sulla figura apparentemente marginale di Dick Cheney, il vice-presidente dell’amministrazione di George W. Bush. L’idea – in realtà ormai accettata come dato di fatto storico – è che negli anni tra il 2000 e il 2008 sia stato proprio Cheney a tirare le fila di un governo guidato solo di facciata dal figlio di George H. Bush. Vecchia volpe del Partito Repubblicano, passato per diverse amministrazioni presidenziali da Nixon a Reagan, e poi per il settore della difesa privata come amministratore delegato di Halliburton, Cheney è il classico mandarino d’apparato, privo di qualsivoglia carisma ma assolutamente a suo agio nella macchina statale, che è capace di gestire con audacia e spregiudicatezza. Dall’invasione in Iraq del 2003, alla gestione della crisi dell’11 Settembre, dal CIA-gate (dove venne condannato il capo del suo staff Scooter Libby) alle violazioni della convenzione di Ginevra sulla tortura, l’amministrazione Bush viene raccontata da McKay come una sorta di banda di gangster senza scrupoli, che sono guidati da una non ben definita sete di potere deprivata di alcun interesse ideologico-politico. “Ma noi, in che cosa crediamo?” chiede un giovane e sprovveduto Cheney, da poco uscito dall’Università di Yale e diventato intern dello staff di Richard Nixon, a un già scafato e cinico Donald Rumsfeld: e la risposta non può che essere una fragorosa risata, come se fosse stato già chiaro da sempre a quelli che sarebbero diventati i protagonisti di un’intera stagione della politica americana, che dietro il progetto di diventare classe dirigente della più grande superpotenza mondiale non c’era assolutamente nulla.
Eppure, ben al di là della propria plateale professione di fede politica, il film di McKay mostra ben chiaro quale sia l’idea che ha del potere. Lo si vede in una scena dove Kissinger e Nixon, nei primi anni Settanta, stanno avendo una conversazione a porte chiuse in un ufficio lontano dalla Casa Bianca, e dove sempre Rumsfeld spiega a un giovane Cheney che per via di quella conversazione che i due leader stanno avendo dietro a una porta a un metro e mezzo da loro “tra un paio di giorni a 10mila miglia da noi, una pioggia di bombe da 350 kg verranno sganciate da dei B52 a 6mila metri di altezza e colpiranno città e villaggi in giro per la Cambogia... migliaia di persone moriranno e il mondo, nel bene o nel male, cambierà: questo è il tipo di potere che esiste in quell’ufficio.” Il potere cioè, è proprio quell’eminenza grigia nascosta che da dietro le quinte e senza alcun controllo democratico, decide le sorti di avvenimenti che stanno dall’altra parte del mondo.
In questa malcelata monumentalizzazione della segretezza di quel potere, McKay lascia trasparire anche quella che è una sua inconsapevole fascinazione, che arriva fino a toccare una punta di ridicolo quando ad esempio l’intera rinascita di Al-Qaeda in Iraq viene fatta risalire alla popolarità inconsapevolmente data a un leader marginale regionale come Al-Zarqawi da parte del Pentagono. Per giustificare un’invasione irakena mossa da soli interessi economici Cheney e compagni devono esagerare l’importanza dei gruppi islamici radicali in Iraq, che proprio a causa della loro “pubblicità” globale di lì a poco finiranno proprio per acquisire un ruolo politico centrale (e di lì a pochi anni, a essere responsabili della formazione dello Stato Islamico). È come se McKay riducesse l’intera complessità dello scacchiere medio-orientale alle mosse unilaterali del Pentagono: come se la genesi dell’estremismo islamico potesse essere spiegata solo tramite l’agency della politica americana; come se non ci fossero anche variabili indipendenti dalla politica americana che agissero nell’area e che, nel bene e nel male, fossero artefici del proprio destino politico. Ma se il potere viene “sacralizzato” e ridotto al luogo della sua origine, non c’è più spazio per nient’altro: l’intero mondo, dalla Cambogia all’Iraq, dal Sudamerica all’Afghanistan viene ridotto a un’emanazione della politica di Washington.
Eppure se da un lato gli americani, anche di fede democratica, non riescono a mettere il naso al di fuori della loro politica di casa e a non sopravvalutare il loro ruolo di gendarmi degli equilibri mondiali (in un periodo dove peraltro questi sono stati ampiamente relativizzati), tuttavia il film di McKay finisce per peccare soprattutto di sottovalutazione della destra americana e del ruolo ideologico-politico che ha avuto negli ultimi anni. È infatti piuttosto consolante per un democratico come McKay pensare che la svolta neo-con americana sia stata guidata unicamente da una sete di potere fine a se stessa; che Cheney e Rumsfeld siano stati degli inetti da quattro soldi, incapaci di esprimere un pensiero che non fosse una cinica e spietata scalata verso il potere (che finirà per travolgere anche loro stessi, come nel caso di Rumsfeld, il quale viene scaricato senza troppi complimenti nel momento del bisogno). La realtà purtroppo è che la destra americana è stata capace – e ahinoi, molto spesso meglio della sinistra – di produrre una vera e propria egemonia ideologico-politica.
La famosa teoria della separazione dei poteri – e cioè, diversamente da come la si intende in Europa, la teoria della superiorità dell’investitura del Presidente rispetto ai check and balance delle agenzie indipendenti che da sempre negli Usa limitano il potere dell’esecutivo – che viene messa in bocca con una battuta a un giovane giudice Antonin Scalia, viene presentata come una soluzione puramente strumentale per mantenere il potere saldo nelle mani della cricca di Cheney, e non come una vera e propria teoria dell’ordinamento istituzionale, quale invece è.
È sempre una buona scorciatoia quella di proiettare sui propri avversari politici un’inferiorità etica e morale, invece che prendere sul serio quella che viceversa è una vera e propria opzione politica che ha contraddistinto la vita sociale e culturale degli Stati Uniti degli ultimi vent’anni e che nonostante l’apparente svolta nazionalista dell’ultima Presidenza Trump è tutt’altro che destinata a scomparire (come si è visto con la sciagurata elezione di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, che della teoria della separazione dei poteri è stato uno dei più strenui sostenitori). La destra americana è purtroppo una faccenda molto più seria: è una vera e propria ideologia. E non basterà certo ridurla al corpo menomato e pieno di bypass di Dick Cheney per riuscire a sconfiggerla politicamente. L’idea di Vice è che il potere invece lo si possa ridurre a qualche stanza segreta del Pentagono e di Washington, e a qualche “mandarino” cresciuto per fare la manovalanza nelle amministrazioni presidenziali: ma è il corpo del potere davvero soltanto il corpo di colui che lo esercita? O forse c’è qualcosa di molto più inafferrabile e impalpabile che potenzialmente sarebbe in grado di rovesciarlo?