Intervista con Lydie Salvayre

28 Settembre 2023

“Del cosiddetto Normale non ha mai riso nessuno al mondo. Il Serio è il collante per il programma comico”: Thomas Bernhard non aveva dubbi: trovava più divertente Arthur Schopenhauer di Ridolini. Considerava Immanuel Kant uno dei più grandi buffoni della storia. E Blaise Pascal, “con quel suo mondo cattolico, misterioso, religioso”, lo faceva sbellicare molto più degli irresistibili Stan Laurel e Oliver Hardy.

“Quando mi annoio o è un periodo tragico, apro uno dei miei libri. È una delle cose che mi fa subito ridere”, aggiungeva lo scrittore nato a Herleen nei Paesi Bassi nel 1931, è morto a Gmunden in Austria nel 1989. Non a caso, disseminava i suoi romanzi di situazioni ossessive, estreme, assolutamente non comiche. Che, però, potevano indurre a concedersi gelide risate, clamorosamente inaspettate. Capaci di trasformarsi presto in un ghigno beffardo.

In L’imitatore di voci, tradotto da Eugenio Bernardi per Adelphi nel 1987, Bernhard dava un esempio di “comicità del Normale”. Raccontava: “Un padre di famiglia che per decenni era stato lodato e benvoluto per via di un cosiddetto straordinario senso della famiglia e che un sabato pomeriggio, sia pure con un tempo decisamente afoso, ha ammazzato quattro dei suoi sei bambini, si difese in tribunale dicendo che tutto a un tratto i figli gli sono sembrati troppi”.

Senza ripercorrere la via seguita da Bernhard con quella lingua ossessiva, spesso caricaturate fino al grottesco, che faceva della scarnificazione la sua forza dirompente, Lydie Salvayre dimostra adesso con un suo libro che la “comicità del Serio” può regalare in letteratura risultati assai interessanti e originali.

Dopo avere scritto uno dei romanzi più intensi sulla guerra di Spagna, Non piangere che ha vinto il Prix Goncourt nel 2014 (tradotto in italiano due anni più tardi da Lorenza Di Lella e Francesca Scala per L’Asino d’oro edizioni di Roma), Lydie Salvayre regala ai lettori uno dei libri più spiazzanti e belli che siano usciti negli ultimi anni. Si intitola La conferenza, l’ha pubblicato Prehistorica Editore nella versione italiana curata ancora della coppia Di Lella e Scala (pagg. 142, euro 15), Ed è stato al centro di un incontro a Pordenonelegge 2023 nello splendido Palazzo Montereale Mantica, vicino al Municipio nel cuore vecchio della città.

Laureata in Lettere e Medicina, per lunghi anni impegnata nella professione di psichiatra, Lydie Salvayre prima di scrivere La conferenza ha voluto fare i conti con la storia della sua famiglia e delle sue origini. Visto che lei è nata sì a Autanville, nel sud della Francia, ma soltanto dopo che i suoi genitori hanno dovuto abbandonare il Paese d’origine, la Spagna, per sfuggire alla violenza bestiale dei franchisti.

In Non piangere, Lydie Salvayre ha fatto incrociare due percorsi di vita lontanissimi. Quello di Georges Bernanos, lo scrittore di Sotto il sole di Satana e Diario di un curato di campagna, il cattolico convinto, il monarchico conservatore devoto della tradizione, che davanti alle torture, ai 600mila morti della guerra di Spagna scrisse un potente j’accuse contro la Chiesa pronta a benedire i massacri dei fascisti, le torture, la carneficina a cielo aperto. 

A intercettare il calvario spirituale e umano dell’autore dei Grandi cimiteri sotto la luna, in Non piangere, era la madre stessa di Lydie Salvayre. Una ragazzina che decideva di prendere parte alla grande rivoluzione libertaria del suo Paese. Ma che presto avrebbe dovuto abbandonare la Spagna ferita da atrocità inaudite. Piccolo antipasto di quel gigantesco tritacarne chiamato Seconda guerra mondiale, con i suoi oltre 60 milioni di morti,

Nove anni dopo Non piangere, Lydie Salvayre ha scritto un libro del tutto diverso. Il resoconto di una lunghissima, immaginaria conferenza in cui il protagonista incarna il prototipo dell’intellettuale egocentrico, autoreferenziale, dotto e pedante. Incapace di evitare che sia la sua stessa vita privata a diventare l’interferenza costante, e sempre più invasiva, mentre affronta il tema serissimo della quasi totale estinzione in Francia del piacere della conversazione.

Il Narratore senza nome finisce, così, per trasformarsi nel paradigma della “comicità del Normale”. Con ridondante ricchezza di particolari, scivola appena può nella descrizione del lungo ménage con la moglie Lucienne. “La mia Lulù”, ormai morta, di cui tesse un panegirico che, pagina dopo pagina, finisce in realtà per squadernare davanti agli occhi del lettore tutto il campionario di difetti della donna. Primo tra tutti il fatto che proprio lei aveva imposto, all’interno della coppia, un silenzio pressoché assoluto. Evidente, paradossale contraddizione dell’impianto stesso della Conferenza: “Io ho voglia di filosofeggiare. Lei mangia. Io divago. Lei imburra il pane. Io mi lancio in una serie di astrazioni. Lei si sbafa la quinta fetta. Io la interpello. Lei continua metodicamente a ingozzarsi”.

Con una lingua colta, limpida, ricchissima, piena di una verve comica che deflagra quando meno te lo aspetti, La conferenza diventa un osservatorio implacabile sui difetti dell’uomo contemporaneo. Così il protagonista, senza mai perdere il suo serissimo aplomb, mette alla berlina gli autori di brutti versi: “Di fronte a un poeta mediocre che vi infligge la lettura dei suoi versi, imparate a sbadigliare dalle narici. Questo esercizietto pneumatico vi terrà svegli. E se vi prende un attacco di ridarella, pensate al generale Pinochet. Funziona sempre”.

Ma non basta. Mentre discetta sui pregi della conversazione, il conferenziere si diverte a sbeffeggiare i cacciatori: “Se vi viene voglia di andare a caccia, imitate Confucio. Non scagliate frecce contro gli uccellini che dormono. Riservatele ai rapaci che uccidono. In Francia ne abbiamo un numero sufficiente”. Spara a zero sugli psichiatri “pedanti canaglie di cui mio cognato è l’esempio tipico”. Sottolinea il suo disprezzo per i “rivoluzionari a oltranza” che “pur di non essere scambiati per miti borghesi, vomitano parolacce e battute volgari e ostentano maniere da trogloditi che suppongono essere quelle del popolo”. Non rendendosi conto che l’ultima esplosione di rabbia che la Storia ricordi, contro un gruppo di cattivi e imbecilli organizzati in formazioni armate, “è durata dal 18 giugno 1940 al 7 maggio 1945, ovvero cinque anni. Abbiamo buone ragioni per temere che la prossima, che non tarderà ad arrivare, possa durare anche di più”.

Della Conferenza, del suo eretico, pirotecnico, grottesco e lucidissimo sguardo sul nostro tempo, e su un’umanità sempre più lanciata ad ascoltare dissennati richiami e a voler raggiungere imbarazzanti obiettivi, abbiamo parlato con Lydie Salvayre.

“Mi sono divertita tantissimo a scrivere La conferenza – ha spiegato la scrittrice, di cui Prehistorica Editore annuncia la pubblicazione, per l’anno prossimo, di un altro suo libro –. In un certo senso, immaginare un conferenziere con un eloquio così ricco e una tale padronanza di sé è stato anche un modo per prendermi una piccola rivincita su me stessa bambina. Ero abbastanza taciturna. Mi era difficile parlare in pubblico. E poi, mi sono accorta che si possono trattare temi indubbiamente seri dando al lettore la possibilità di affrontarli senza un’inutile pesantezza. Non mi piace affatto chi usa toni troppo seriosi, cupi, pesanti”.

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La conferenza è un segno di ribellione alla dittatura della trama perfetta.

Sono stanca del romanzesco a ogni costo. Dell’obbligo di psicologizzare i personaggi. Non sopporto quest’ansia di trovare un incipit e un finale che siano memorabili, una suspense che tenga il lettore incollato alla pagina. Penso che, talvolta, la letteratura possa prendere le distanze da canoni così rigidi. Io stessa lo faccio, anche se nei miei romanzi descrivo i sentimenti dei personaggi, parlo di amori che quasi sempre vanno a finire male, descrivo le tante difficoltà che la vita ci propone. Anche nel mio prossimo libro, che verrà pubblicato in Italia nel 2024 da Prehistorica, mi prendo gioco dell’ansia di successo. Perché credo che, ogni tanto, le persone ossessionate dall’ansia di raggiungere un obiettivo dovrebbero ricordarsi di respirare.

Accanto all’ironia, agli sberleffi, ci sono messaggi forti nel suo libro?

Mi sono divertita a mettere in scena la differenza abissale tra un modello di conversazione magniloquente, lirica, e la vita reale che il protagonista ha attraversato insieme a sua moglie Lucienne. Dove la parola era del tutto assente. Del resto, io stessa spesso mi chiedo: tu, che sei una scrittrice ammirata per la ricchezza delle parole che usi, nella vita quotidiana qual è il tuo reale comportamento? Ecco, sono convinta che la letteratura non può essere soltanto pura astrazione. Non lettera morta, ma lettera viva. Deve incarnarsi, insomma, nel vivente per avere degli effetti concreti su di lui.

Manca una coerenza conseguente alle lezioni di vita che impartiscono i tanti conferenzieri in circolazione?

Nella nostra vita quotidiana, spesso vendiamo agli altri dei modelli ideali, perfetti, che poi noi stessi non siamo in grado di applicare nelle nostre giornate. Mi ricorda molto il ritornello di una canzone di Dalida: “Parole, parole, parole”. Che, poi, è anche una battuta dell’Amleto di William Shakespeare.

Si è divertita a prendere in giro i colleghi scrittori e poeti?

Volevo dare una piccola stoccata a certi scrittori, che non sanno prendere in giro se stessi e mettono alla berlina gli altri. Ma non me la prendo solo con loro. Sbeffeggio un po’ anche noi psichiatri, i giornalisti. Fermo restando che, prima di tutto, cerco sempre di fare dell’ironia su di me.

Questo libro è anche un grido di dolore per come si stanno impoverendo e imbarbarendo le lingue?      

Assisto disarmata all’impoverimento della lingua francese. Ma non solo. Pochi giorni fa ho scritto un messaggio sul telefono inviandolo a un amico letterato. Mi ha risposto con un bellissimo smile. Questa sua assenza di parole, il volersi affidare solo a un emoticon, mi ha lasciata con tanti punti interrogativi.

Possiamo puntare il dito contro l’abuso di internet e dei social network?

In Francia sono tantissimi gli influencer che si divertono a martirizzare la lingua. Del resto loro si vendono come fossero merce, ed è uno dei segnali della nostra profonda incultura. Goethe diceva: nulla è più terribile dell’ignoranza agente. Lo dimostra il seguito, il potere che viene dato a certi personaggi della rete internet.

A questo massacro della lingua non si sottraggono nemmeno certi scrittori.

Mi fa tremare di rabbia e di paura l’idea che moltissimi libri, ormai, vengano scritti per far piacere a un certo tipo di lettori. In un futuro nemmeno troppo lontano, questa tendenza potrebbe portare alla morte della letteratura. Per lasciare spazio soltanto a prodotti editoriali industriali. E a una lingua impoverita, scarnificata, perfetta per questo tipo di operazioni. Dobbiamo ribellarci, prima di tutto noi scrittori.

C’è una gran voglia di una leggerezza decisamente sciocca?

Moriremo tutti illuminati da un grande sorriso. Come se fossimo i vincitori di non si sa quale battaglia.

In Non piangere ha trovato il suo spirito guida in Georges Bernanos?

Mi animava un grandissimo pregiudizio nei confronti di Bernanos. Perché mi ero fermata al suo essere cattolico, monarchico, conservatore. Non volevo leggere i suoi libri. Poi, I grandi cimiteri sotto la luna mi ha fatto cambiare completamente opinione. È un libro pieno di coraggio e compassione per il popolo spagnolo straziato dal franchismo. Trovo che abbia saputo raccontare la guerra di Spagna meglio di Ernest Hemingway, di George Orwell e di altri. Lui ha saputo trovare le parole giuste, sconvolgenti, per portare alla luce l’atteggiamento di connivenza della Chiesa cattolica che benediceva i massacri, le torture fasciste. Grazie a Bernanos ho trovato il coraggio di ricostruire la storia della mia famiglia, che ha dovuto scappare dalla Spagna per andare a vivere in Francia. Ecco, sì, l’incontro a distanza tra lo scrittore e il destino dei miei genitori ha fatto sì che io scrivessi Non piangere, che nel 2014 ha vinto il Prix Goncourt.

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