Speciale

Italo Calvino e gli oggetti

6 Novembre 2023

Per Calvino gli oggetti non hanno nulla di oggettivo. Non sono cose mute, dure e pure che si stagliano dinnanzi a un individuo il quale, servendosene, ne percepisce l’irresolubile distanza. Non sono entità che si ostinano a esserci un po’ contro l’uomo, a partire da cui misurare la finitezza della nostra esistenza. Non sono, insomma, come la celebre radice delirata da Jean-Paul Sartre nella Nausea. Essi possiedono piuttosto, grazie alla loro costante, inevitabile relazione – ora polemica ora amicale – fra di essi e con noi, quel che con termine forse abusato oggi si usa chiamare un’agentività; ossia una loro capacità d’azione e, financo, di passione. In questo, non hanno nulla né di misterioso né di evidente. Molto semplicemente, fanno e fanno fare, significano se stessi e il mondo intorno a loro, intorno a noi. Sono carichi di senso, anche quando indicano il fatto di non averne. E, questo, proprio grazie al nesso, surrettiziamente costitutivo, fra sguardo interrogativo verso il mondo circostante e sua reinvenzione analitica di natura letteraria.

Detto ciò, impossibile, e inutile elencarli tutti, gli oggetti calviniani, inseguendone le tracce qui e là fra racconti e saggi, descrizioni e narrazioni. In una breve nota posta a introduzione alla Strada di San Giovanni, raccolta postuma, Esther Calvino racconta che fra i testi progettati da Italo ce n’era uno intitolato proprio “Gli oggetti” (Calvino 1990, p. 5). Non è arrivato in tempo a scriverlo, ma in qualche modo lo leggiamo, questo scritto ideale, sottotraccia negli innumerevoli altri che punteggiano l’opera calviniana tutta. Seguiamone i passaggi, non per via cronologica ma tematica, indicando alcuni luoghi testuali per così dire esemplari, senza alcuna velleità totalizzante.

Cominciamo col dire che la via ontologica, in quest’universo oggettuale ma ben poco oggettivo, non sembra affatto conducente. Cosa sarebbe, per esempio, il cavaliere inesistente? Un corpo mancante o un’armatura vuota? Nessuna definizione sembra attagliarsi a questo personaggio neutro, un tipico né-né che finisce per divenire – se dal tentativo (appunto, ontologico) di definizione si passa alla storia nel quale esso nasce, vive e si trasforma – un sia-sia, un’entità ibrida che da due mancanze produce una nuova forma di soggettività. “Io non esisto, sire”, dice Agilulfo presentandosi a Carlo Magno; cosa che non gli impedisce, nella vicenda, di funzionare a puntino come un’“inesistenza dotata di volontà e di coscienza”. Dal che la risposta dell’Imperatore: “per essere uno che non esiste, siete in gamba!” (Calvino, 1960, p. 359). Come dire che l’inesistenza in sé non è motivo di interesse letterario né tantomeno sociale. Gli oggetti e i corpi, ciascuno a suo modo ma spesso intrecciandosi insieme, possono fare (e far fare) senza per questo necessariamente esserci.  

Un cultore della tradizione cavalleresca qual era Calvino sapeva bene, come difatti si legge nella lezione sulla Rapidità (Calvino 1988, pp. 34-35), che nei grandi poemi di Boiardo e Ariosto, e con essi in tutta l’epica precedente e il folklore successivo, l’intreccio narrativo non si istituisce tanto a partire dalle grandi imprese degli eroi umani ma dal passaggio di mano in mano di svariati oggetti. Sono gli oggetti i veri protagonisti di quelle storie: così Durlindana, la spada invincibile, rende tale chi se la ritrova lungo la strada. Orlando, certo; ma anche Astolfo, che a un certo punto, trovandola nel bosco, diviene incontenibile nel tagliar teste ai Mori. Per poi perderla alla prima occasione, tornando alla sua simpatica stoltezza. Agilulfo è figlio di questa tradizione.

Non si penserà, per questo, che l’agency degli oggetti calviniani sia figlia del genere fantasy dove vige un regime di inverosimiglianza narrativa. Tutti gli oggetti narrati sono in qualche modo magici, leggiamo ancora nella lezione sulla Rapidità (idib.), in qualunque genere testuale si trovino. Così Pin, protagonista del Sentiero dei nidi di ragno, starà pure dentro una storia considerata neorealista, ma il suo rapporto con la pistola rubata al marinaio tedesco amante della sorella è altrettanto simbiotico. Entrando in possesso di quella pistola Pin si trasforma, cambia disposizione emotiva e capacità di azione: diviene un nuovo ibrido che, potenzialmente, può colpire il mondo, e con esso le cose, ma anche le persone: “uno che ha una pistola vera può tutto, è come un uomo grande” (Calvino 1964, p. 45).

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Del resto, come è stato notato (Barenghi 2023, p. VII), quell’arma vive tutto un suo sviluppo narrativo non solo nel rapporto col ragazzo ma anche con altri oggetti, come una banale scarpa vecchia che le fa deviare il corso delle azioni e delle passioni. “È una cosa molto divertente: una scarpa, un oggetto così conosciuto, specie per lui, garzone ciabattino, e una pistola, un oggetto così misterioso, quasi irreale; a farli incontrare uno con l’altro si possono fare cose mai pensate, si possono far recitare loro storie meravigliose” (Calvino 1964, p. 46). Ecco una specie di costitutiva interoggettività, quella stessa da cui partirà, in seguito, l’esperimento del Teatro dei Ventagli con Toti Scialoja: basta far stridere due oggetti incongruamente accostati – una biglia e una piuma, una carriola e una frusta, uno stivale e una gabbia etc. – per dar vita a avventure straordinarie (Calvino 2023b). La lezione della grammatica della fantasia di Rodari è ben presente.

Allora, sintetizzando molto, per Calvino gli oggetti, una volta ingaggiati da soggetti umani, li trasformano del tutto, funzionando essi stessi, per questo, da veri e propri soggetti (Latour 2022). Così il miope Amilcare Carruga, non appena decide di inforcare un paio di occhiali, non solo modifica il suo modo di considerare (oltre che di scrutare) il mondo, ma è il mondo stesso a considerarlo (oltre che scrutarlo) in modo differente. Non riconosce più persone e cose e non è riconosciuto da esse (Calvino 1970, pp. 71-78). Analogamente, una pattumiera qualsiasi – la parigina poubelle agrée – è il punto di partenza per una specie di ricostruzione totale dell’universo, dalla vita quotidiana del protagonista alle disuguaglianze sociali tra gli spazzini (Calvino 1990, pp. 89-117). Ancora, per il signor Palomar lo specchietto retrovisore delle auto possiede una qualità singolare: permette di osservare dietro continuando a guardare davanti, superando così la divisione dello spazio in campo anteriore e campo posteriore. E rivoluzionando le leggi dell’ottica e della fisiologia (Calvino 2023a, pp. 517-523). Lo specchio, del resto, è tema di un altro testo non meno ragguardevole (Calvino 1993, pp. 249-257). Per non parlare della pietanziera di Marcovaldo, che racchiude, coi cavoli rifreddi, un’intera visione della metropoli (Calvino 1963, 41-45). Ci sarebbe insomma in Calvino, per riprendere le riflessioni degli antropologi (Descola 2005), una sorta di animismo laico, convinto ma distaccato, appassionato ma freddissimo. Nel mare dell’oggettività nuotano sempre esseri ibridi, metà umani e metà cose.

Resta il sospetto che tutto ciò abbia comunque un risvolto metafisico, un’aura di mistero irresolubile. È ancora Palomar a metterci sull’avviso quando, in Messico, ascolta il dissidio fra una guida turistica e un maestro di scuola, entrambi in visita a un sito archeologico. Laddove il primo si sbizzarrisce nell’elencazione dei valori simbolici di quelle pietre polverose, l’altro replica sordamente: non si sa cosa significhino (Calvino 1983, pp. 97-100). Tutto il resto è interpretazione.

Martedì 7 novembre ore 11 
Biblioteca Quarticciolo 

Oggetti
con Gianfranco Marrone

Riferimenti

I testi citati di Calvino sono:  I nostri antenati, Torino, Einaudi 1960; Marcovaldo, Torino, Einaudi 1963; Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi 1964; Gli amori difficili, Torino, Einaudi 1970; Palomar, Torino, Einaudi 1983; Lezioni americane, Milano, Garzanti 1988; La strada di san Giovanni, Milano, Mondadori 1990; Prima che tu dica ‘Pronto’, Milano, Mondadori 1993; Guardare, a cura di Marco Belpoliti, Milano, Mondadori 2023; Il teatro dei ventagli, a cura e con introduzione di Mario Barenghi, Milano, Mondadori 2023. 

L’antropologo citato è Philippe Descola, Al di là di natura e cultura, Milano, Cortina 2021. Sul ruolo sociale degli oggetti si veda: Bruno Latour, Politiche del design, a cura di Dario Mangano e Ilaria Ventura, Milano, Mimesis 2022.

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