Jullien. Psicoanalisi e saggezza
Nel pensiero dell’immanenza di tradizione confuciana, l’alternarsi di fasi in reciproca interazione che si dispiegano l’uno in virtù dell’altra (yin e yang) basta già a cogliere la coerenza interna al mondo. La correlazione dei fattori in gioco manifesta da sé l’ordine con cui procede la Via, il Tao, che non possiede caratteri di Soggetto, non è Essere né Ipostasi, indica semplicemente la possibilità del passaggio, la “viabilità” del processo. Senza dunque opporre sensibile e intelligibile, materiale e spirituale, divenire ed Essere, la Cina riconosce un solo ordine della realtà, quello determinato dal Qi, il soffio-energia che si condensa e “materializza” oppure si fluidifica e spiritualizza. Nella coerenza (alla lettera, il “tenersi insieme”), nella tanto proclamata “armonia” della cultura dell’Oriente, trova espressione la “ragione” (li) immanente al mondo, spiega Jullien in Essere o vivere (Feltrinelli, 2016).
Lungi dal rinviare al dire e alla costruzione di un’argomentazione, come pretende il logos aristotelico, la grafia di questo termine allude alla venatura della giada di cui il tagliatore di pietre segue la conformazione con lo scalpello. Al pari delle venature del marmo nella metafora leibniziana, a indicare gli a priori virtuali dell’intelletto, nella cultura cinese le nervature della pietra, come i tralci dei rami, la grana delle foglie o della pelle, fanno apparire le linee di forza e di vita i cui reticoli ramificati formano “ragione” (tiao-li).
Qui è la “materialità” a essere già strutturata, internamente organizzata, senza necessità di erigere un ordine ideale, un platonico regno delle Forme che debba plasmare il mondo sensibile. Non deviare dal solco della coerenza che assicura il procedere del vitale in noi e nel mondo, sposarne il succedersi regolato, è in fondo l’unica “prescrizione” morale della tradizione confuciana. Invece della promozione del Soggetto autonomo, che con la sua Volontà e Libertà (nozioni ignote alla Cina antica) fa effrazione nella tessitura del mondo, fino a praticare la ribellione all’oppressione della realtà, naturale e storica, la logica “comprensiva” del Tao chiede (soltanto?) d’integrarsi nel processo in corso.
E questo è anche il criterio “medico” di conservazione della salute nella prospettiva della “lunga vita”. Anche la cultura di matrice confuciana ha concepito la salute come equilibrio, al pari della tradizione ippocratica; ma non in base all’obbedienza a Norme e Regole per mantenere le “giuste” proporzioni tra i fluidi corporei (secondo la logica del rapporto fra le parti e il tutto), bensì nell’ottica della Regolazione per alternanza – attività/riposo, tensione/distensione – così da conservare il proprio “potenziale di vita”, senza tracciare un solco di separazione fra la materia e lo spirito. L’idea dell’anima come sostanza separata dal destino immortale apre un “destino” che la cultura della Cina ha ampiamente ignorato. Noi pensiamo nella piega tracciata dal Socrate che esorta ad aver cura della propria anima o che, in attesa della morte nel Fedone, s’impegna a dimostrarne l’immortalità.
Grazie all’Anima vagula, blandula, / hospes comesque corporis – i versi attribuiti nella Historia Augusta all’imperatore Adriano morente –, non avremmo sognato il varco verso i luoghi ignoti in cui s’incontra l’Invisibile. Grazie all’anima, ricorda Jullien, non avremmo potuto concepire una relazione d’intimità e di preghiera dell’uomo con Dio; il che è ancor più evidente visto dalla Cina, dove la nozione di un Dio trascendente non ha fatto presa ed è stata ben presto sostituita da quella di Cielo, a indicare il funzionamento regolato del Processo (è la tematica al centro di Mosè o la Cina?, di prossima traduzione per le edizioni Medusa).
Senza un’anima come ambito in cui si raccoglie la dimensione del sentimento, campo di energia che spinge a varcare le limitazioni terrene per tendere verso l’Infinito e l’Eterno, non avremmo potuto innalzare l’Amore ad assoluto dell’avventura umana, sia nella forma dell’Eros del Simposio, sia nella dimensione evangelica e paolina dell’agàpe. La Cina antica ha concepito l’amore solo come emozione e vibrazione fisiologica, che svolge attraverso la sessualità un ruolo essenziale cooperando alla regolazione cosmica. Senza un’anima come luogo della verità non avremmo poi potuto conferire un ruolo così rilevante al monologo della coscienza, alla voce interiore che, lo sappiamo da Agostino, si rivolge al Dio persona. La Cina, almeno pre-buddista, ha ignorato il monologo interiore e non ha sviluppato la dimensione dell’intimità, il mettere a nudo quel che in noi è più interno e profondo.
Non troviamo così in Cina un corrispettivo di quella componente così rilevante nella cristianità, e soprattutto nel cattolicesimo, che è la confessione. La sua “condizione di possibilità” è la fiducia nell’aletheia, nell’eliminazione del velo che copre quanto sta nascosto: attraverso il dire a un altro sveliamo non solo i nostri atti colpevoli e peccaminosi, ma anche impulsi e desideri in cui fatichiamo a riconoscerci. Smontando l’ipotesi repressiva secondo la quale la religione in età moderna ha sviluppato una serie di proibizioni per ridurre la sessualità al silenzio, la nostra religione l’ha tradotta in parola. Michel Foucault, nella Volontà di sapere (1976, Feltrinelli), ha mostrato come l’Occidente moderno abbia promosso, grazie alla pratica della confessione, l’ingiunzione di produrre un “discorso vero”, che restituisca l’immaginario della vita intima, compito ereditato dalla psicoanalisi. Certo, quest’ultima ha appreso a diffidare dello sforzo di far dire per esplicitare, cioè per sciogliere le pieghe che si annidano nella vita psichica; ma la pratica analitica resta debitrice, rileva Jullien in Logos e Tao e altrove, della fiducia occidentale nel potere salvifico e di liberazione della parola.
Pur ponendosi in radicale contrasto con l’“illusione” senza avvenire della religione, in cui si conserva l’atteggiamento infantile del figlio verso il Padre, la psicoanalisi non può occultare il rapporto di filiazione nei confronti di quell’a priori culturale dell’Occidente costituito dall’idea di un’anima di cui si può fare “scienza”. Freud si trova in difficoltà, rileva Jullien, nel trovare le modalità di congiunzione fra l’anima e il corpo, l’intrico psico-somatico dove il trattino suona più conferma della scissione che suo superamento. Lo ribadisce quel concetto di base, quel “concetto frontiera” che è la pulsione (Trieb): il “rappresentante” (Repräsentant) del biologico, fonte delle eccitazioni interne, che affida una sorta di delega allo psichico. In questa faticosa giunzione ricompare una problematica classica della metafisica: l’inconscio, sulla cui esistenza Freud ritiene di aver fornito prove “inattaccabili”, come si faceva un tempo per l’anima o per Dio, si apparenta così alla “cosa in sé” kantiana, propriamente inconoscibile e inaccessibile, ma che si manifesta comunque in forma travestita nel piano fenomenico.
Per tradurre “psico-analisi” la Cina ha fatto ricorso al termine jingshen cioè “quintessenza spirituale”, ma si tratta di una pratica, se non sdegnata, che fatica comunque a diffondersi. È come se la tradizione della Saggezza di matrice confuciana rendesse impervio a quella terapia troppo occidentale attecchire nel terreno della sensibilità cinese. Entrambe animate dalla prospettiva della “cura di sé”, sembrano in prima battuta presentarsi in forma di alternativa: da un lato, il lavoro d’investigazione e di decifrazione – secondo quel paradigma indiziario già promosso dal pensiero cinese antico (indagato da Jullien in Strategie del senso in Cina e in Grecia, Meltemi, 2004) – per procedere nello scavo archeologico della psiche al fine di riportare alla superficie dell’Io quel che è sepolto; dall’altro, il lavoro di “nutrimento del vitale” suggerito dallo Zhuangzi. La prospettiva della Saggezza mira a dissipare le tensioni dell’esistenza e restaurare l’omeostasi con la quale si mantiene la vita, cioè a conservare la “viabilità” della Via, eliminando ostruzioni e intralci. Essere rilassato e disteso consente di accogliere il “così” del vivere, non nei termini della rassegnazione religiosa – “E così sia” –, ma nei termini dell’adesione alla spontaneità di ogni avvento – “E sia così”.
Se la psicoanalisi promuove la ricerca sul passato, attraverso la talk-cure o la “pulizia del camino” (la formula di Anna O., accolta da Freud), per risalire all’intrico dell’inconscio che riemerge a turbare il nostro presente, il percorso confuciano mira a liberare le “vie” di comunicazione, sia interiori che con il mondo, del proprio essere costitutivo per conservarlo evolutivo. Il “nutrimento” non impone dunque un lavoro d’introspezione, neppure si riduce alla generica “Meditazione”, tanto di moda oggi in Europa, formula povera per dire il processo che porta il vitale al suo pieno regime.
Richiede di far leva sulla facoltà elementare della respirazione, sulla capacità di “svuotamento” che consente di praticare la de-preoccupazione rispetto agli affanni mondani, e insieme di concentrazione per ritrovare la sintonia con la processualità in corso, fino a raggiungere la “trasparenza del mattino”. L’importante, fa dire il saggio taoista a Confucio, è che “si sia primaverili nel proprio rapporto col mondo”, cioè che si resti contemporanei al rigoglio che incessantemente attiva la vita.
Possiamo accedere al divano dell’esperto della psiche e rinnovare la tradizione europea della catharsis, oppure accostarci alla Regolazione cosmico-energetica e praticare le Arti di Lunga vita. Le due vie non sono alternative per Jullien, offrono risorse intese a promuovere una gestione del vivere, con l’obiettivo comune di ritrovare un equilibrio psichico che consenta al paziente di vivere una vita espansa, non una vita intensa come voleva il vitalismo nietzschiano. Ma riducendo la psicoanalisi a pratica clinica di definalizzazione dell’esistenza, se ne mettono fra parentesi, oltre alla dimensione meta-cognitiva, le istanze in senso lato illuministiche: da un lato, l’esigenza di rendere perspicue alla mente le opacità dell’interno “Paese straniero”, dall’altro, l’esigenza etica di ritrovare “un fondamento puramente razionale delle norme civili” (L’avvenire di un’illusione). Nulla è più estraneo alla psicoanalisi di un’antropologia, scriveva Michel Foucault nelle pagine finali di Le parole e le cose (Rizzoli, 1966); è una “pratica” che cerca di fronteggiare il dramma dell’uomo, cioè di un essere legato ai fantasmi del linguaggio e alla sofferenza connessa al desiderio dell’oggetto perduto. La terapia mira ad affrancare il paziente “dalla prossimità costantemente ripetuta della morte, facendogli intendere che un giorno morirà”. Ma il senso della finitudine, con l’angoscia che ne discende, e la sua messinscena tragica appartengono allo sfondo meta-fisico della morale europea, ignoto alla saggezza della Cina antica. Il Tao traccia la Via che non conduce a una meta (la felicità o la bontà), non mira ad attribuire un Senso al vivere o a rivelarne l’assurdità; l’importante è che manteniamo aperta in noi la possibilità del passaggio, che si proceda, magari piano, ma senza mai fermarsi.
Pur iscrivendosi nel teatro della trasgressione originaria e della confessione della colpa, la psicoanalisi rappresenta comunque, afferma Jullien, una rottura nel pensare dell’Occidente, perché considera il comportamento in termini di funzionalità, non di dover-essere ma di regolazione delle forze psichiche. In Cinque concetti proposti alla psicoanalisi (La Scuola, 2014), Jullien rilegge quel che accade nel “processo della cura” senza il ricorso all’apparato categoriale della nostra “ragion pratica”. La scatola di attrezzi della cultura cinese, che ignora il primato dell’Io le cui intenzioni aprono il campo “opprimente” della libertà e della scelta, consente di esplicitare approcci che la riflessione freudiana ha solo intravisto (e anche di evitare l’eccesso di teorizzazione post-freudiano). Nei Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico, Freud suggerisce al terapeuta di mantenere un’“attenzione fluttuante”, diffusa e non focalizzata, per non perdere il minimo indizio di quel che ascolta, per quanto incongruo e in apparenza irrilevante. La nozione di disponibilità dice appunto l’apertura all’occorrenza del momento, coniuga a un tempo concentrazione e assenza di aspettative; è questo il principio a cui s’ispira il saggio confuciano, fare il vuoto in se stesso per restare aperto a tutte le possibilità. Invece del Soggetto dotato d’iniziativa, che presume e progetta, il saggio è privo di “io” ed è “senza idee” (Einaudi, 2002), proprio per evitare di privilegiare un aspetto parziale delle cose, di restare bloccato nella posizione assunta e perdere la globalità della Via. Non si tratta in tal senso di raccomandare allo psicoanalista di essere “freddo”, semmai insapore (Elogio dell’insapore, Cortina, 1999), cioè di porsi a monte, nella fase in cui i diversi sapori cominciano appena a manifestarsi, per tenersi pronto ad accoglierli.
L’efficacia della cura impone che il paziente dica tutto ciò che gli passa per la testa, anche e soprattutto quello che è sgradito e in apparenza senza importanza. Al soggetto cartesiano, che s’instaura come tale dicendo “Io penso”, ecco sostituirsi il sospetto di Nietzsche: non sono “Io” a pensare, sono i pensieri a uscire dall’ombra per imporsi a me, “passano per la mente” e solo dopo me ne approprio. Il linguaggio abbandona così la funzione che Aristotele gli attribuiva (e che i teorici contemporanei della comunicazione hanno conservato), quello d’indicare le proprietà di qualcosa che abbia significato anche per gli altri. Abbandonando l’obbligo della “significazione per determinazione”, la psicoanalisi ritrova la funzione che il Taoismo attribuisce alla parola: non denotare ma “lasciar passare”. È la risorsa dell’allusivo (il secondo concetto proposto alla psicoanalisi) quella che la Cina ha sviluppato in poesia per dare voce al sentimento provato senza farne parola, o nella pittura di paesaggio dove il pennello gioca con il bianco per de-pingere e lasciare nell’indeterminazione i profili cangianti delle montagne e dell’acqua percorse dal vuoto. A differenza dell’allegoria o del simbolo, cioè del salto dal senso proprio a quello figurato e a un altro piano della realtà, figure privilegiate dell’Occidente meta-fisico, ad-ludere, cioè giocare intorno, è un modo per accostarsi in modo “sottile” al non-detto, a quel che appunto è in gioco. Anche Freud riconosce che un’arte eloquente dell’allusivo è praticata sia dal sogno, che si traveste al fine di varcare la censura del conscio, sia dal sintomo per aggirare l’oggetto censurato del desiderio, senza smettere di giocarvi intorno.
Il lavoro dell’analisi non può procedere all’attacco in modo frontale, come voleva la strategia militare classica in Europa fino a von Clausewitz, in analogia alla procedura dialogica del confronto diretto. In mancanza di un piano predefinito, il procedere indiziario dell’analista non può che abbordare la cosa in modo obliquo e insinuante, procedere di sbieco per aggirare la resistenza del nemico (il sintomo e la sua rimozione) fino a farlo cedere. È la strategia che la saggezza confuciana attiva nell’insegnamento: il maestro non ricorre a “lezioni frontali”, la parola interviene in modo minimale, incita e mette sulla via senza forzare, in attesa che nell’allievo si apra un varco che gli consenta di capire. Anche nel processo di cura, la presenza condivisa nella durata predispone un ambiente in cui può diffondersi un’influenza discreta che promuove una modificazione progressiva e silenziosa e consente di “lasciar passare”. La Cina, abituata a pensare in termini di flussi di energia, d’incitamento e risonanza, pensa il procedere dell’intera realtà nei modi dell’influenzamento impercettibile, tanto più pregnante quanto meno se ne percepisce l’azione, sul modello del vento che, inavvertito, si evidenzia nei suoi effetti. La Cina non ha conosciuto la retorica, l’arte della persuasione su cui confida la pratica della democrazia nella polis; la parola al più ha il compito d’influenzare e anche il Principe non fa che contribuire a diffondere la benefica influenza che gli è stata concessa dal “mandato del Cielo” (si veda “Influenza vs Persuasione” in Essere o vivere).
La cura tenderebbe allora a eliminare quanto intralcia il fluire vitale, a rendere di nuovo in corso quel che si era immobilizzato nella vita psichica, cioè a promuovere una de-fissazione. Per tornare a “nutrire la vita”, suggerisce lo Zhuangzi, occorre “scopare davanti alla porta”, cioè sbarazzarsi di quanto ingombra la soglia e impedisce di passare. È un tema che Freud incrocia nello studio delle nevrosi dei reduci dalla guerra: il trauma ha prodotto una fissazione (Fixierung), il soggetto si è incagliato e si chiude al rinnovarsi della vita, fino a regredire nella paranoia o nella coazione a ripetere con cui si manifesta il richiamo di Thanatos. La metafora dell’ostruzione resta però in Freud immersa nel pensiero europeo della condotta: rimanda al primato dell’azione (Im Anfang war die Tat recita la formula di Goethe ripresa da Freud) e del volere di un soggetto che si propone uno scopo. Ma se pensiamo la condotta non più come susseguirsi di atti, ma come processo che si attiva di continuo, saggio è non arrestarsi in alcuna disposizione, sia pure virtuosa, mantenersi all’erta. L’ultimo capitolo dell’Interpretazione dei sogni accenna all’esigenza di pensare la vita psichica in termini di processo, per il quale è rilevante la regolazione interna (Regulierung) che impedisce il formarsi di ostruzioni lungo il cammino.
Disponibilità, allusivo, obliquo/influenza, de-fissazione e infine trasformazioni silenziose, quelle a cui la saggezza cinese è attenta, quei minimi indizi dell’innesco di un cambiamento. Anche nella cura si tratta di seguire il corso, senza forzarlo per intervento dell’analista; anche la dis-ostruzione non la si ha di mira in modo intenzionale, avviene sponte sua, secondo la logica della crescita delle piante: non bisogna tirarle per farle crescere, né si deve tralasciare di sarchiare in attesa che spuntino (Mencio), basta fare il minimo per lasciare avvenire. Non si vede il processo di guarigione, poi un bel giorno si scopre che qualcosa si è sbloccato, la fissazione si è sciolta, senza eventi spettacolari che assumano risalto, e il vivere ritrova la sua viabilità.
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