Matteo Marchesini, esercizio di critica / La letteratura italiana dal boom ai social

12 Marzo 2019

Se la Gran Casa della Letteratura (editoria, distribuzione, critica, premi, lettura) fosse solo un discount, ben agghindato con sapienza e efficienza di marketing? Matteo Marchesini lo vede così il Gran Circo, anche se proprio a lui, critico quarantenne emergentissimo, è capitato di scoprire che nel luccicante ipermercato, o nei suoi retrobottega, esiste l’inferno. La sua ultima raccolta di saggi, Casa di carte, in libreria da un mesetto con il Saggiatore, era precipitato nella Gehenna poco prima di uscire da un altro editore: il direttore editoriale si era accorto, col manoscritto composto già in bozze e la pubblicità in libreria, che l’autore, nel suo sguardo su La letteratura italiana dal boom ai social (così recita il sottotitolo) criticava aspramente alcuni autori del catalogo della casa che lo stava stampando (per la cronaca si trattava di Antonio Franchini del gruppo Giunti-Bompiani). E ne aveva bloccato la pubblicazione. Per fortuna il critico, scrittore e poeta bolognese ha trovato un modo per risorgere e per arrivare ai lettori. 

 

Casa di carte è un libro scritto in modo brillante, mescolando i livelli stilistici, la parodia, la satira, l’umorismo, l’analisi accurata, la confutazione, la narrazione che smonta le consolazioni poco fondate eccetera, un volume godibile da leggere per viaggiare nella nostra letteratura recente e non solo. Qual è dunque il suo scandalo? È quello di non accettare opinioni consolidate, di andare a testare autori, mode letterarie, verdetti passati in giudicato, ponendosi di fronte alle opere e agli scrittori, al loro stile e a ciò che narrano, con sguardo libero da vincoli editoriali o accademici. Marchesini cerca l’opera, l’autore, lo stile, perfino il ruolo di tutto questo nella società e nel mondo, senza catene, provando a fare ciò che dovrebbe essere il compito della critica: radiografare, far risuonare parole e storie, smontare i meccanismi, rimontarli in una visione stringente, liberata il più possibile dai pre-giudizi. E questo appare non sempre tollerabile.

La letteratura italiana recente, per il nostro autore, non è solo narrativa e poesia, o narrativa o poesia: allarga il campo, opportunamente, alla saggistica, alla critica, in un partito preso di un autore che ama gli sconfinamenti, o meglio considera l’attività letteraria unica, continua, una battaglia con diverse “armi”, essendo egli stesso poeta, narratore e critico oggi tra i più attenti, sulle pagine del “Foglio”, del “Sole 24 Ore”, di “doppiozero”.

 

Il libro è costituito da vari saggi, composti negli ultimi anni per quelle testate. Ma come ha chiarito nell’avvertenza al precedente volume, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, 2014) si tratta di scritti d’occasione cui cerca di dare già una forma che possa prestarsi a un discorso più generale, pensati come snodi di una mappa delle lettere del nostro tempo. Quel libro Marchesini lo apriva con una Premessa in cui spiegava il suo metodo: “l’intento è quello di schivare sia la cattiva divulgazione che lo specialismo sterile: di andare, insomma, alla radice dei problemi, ridiscutendo ogni cosa daccapo, ripartendo dagli elementi primi, e fissando lo sguardo su ciò che di volta in volta si rivela essenziale”.

Manifestava subito i nomi del canone da indagare nuovamente e magari da rimuovere da qualche troppo marmoreo piedistallo, come Gadda e Montale. In Casa di carte la disavventura con il primo editore gli è stata procurata dall’aver messo in questione gli autori d’oggi in cerca del “Grande Romanzo”, secondo lui Scurati, Genna, Wu Ming, Scarpa, Moresco e altri, “ma soprattutto Nicola Lagioia”, contro cui si accanisce in un brevissimo ritratto, fatto di citazioni dell’autore grondanti “estetismo subdannunziano”, con alcune feroci staffilate: “Lagioia vuol essere nitido, tagliente, ma accumula monotone successioni di dettagli come se raccontasse un film a un cieco e le appesantisce con passati remoti quanto mai legnosi […]” in un “goffo marinismo catodico”. La critica qui diventa arte della stroncatura, sulle orme dei maestri dichiarati di Marchesini, soprattutto Franco Fortini e Alfonso Berardinelli. Può infastidire un giudizio così tranchant, ma credo che generi, come reazione, il desiderio di tornare a leggere le pagine e gli autori additati.

 

La qualità letteraria si nutre alla scienza dell’aforisma, dell’apologo, della critica capace di estrarre, con tratti sicuri, succhi densi dalle opere. A differenza che in Da Pascoli a Busi in Casa di carte non c’è una premessa metodologica: si inizia con una sezione intitolata Humanities, con una parentesi che subito rivela il tono: “(la situazione in spiccioli, per cominciare)”. Sono brevi folgoranti pezzi che affondano le mani nel cadavere, in vezzi e abusi di un sistema letterario arroccato nelle sue torri esclusive, case editrici e accademie, sempre più schiavo della diffusione mediatica o delle rendite di posizione. In Da Pascoli a Busi Marchesini scriveva, con piglio saggistico: “In una società priva di gerarchie nette e di religioni condivise, la Cultura che trasforma in torbidi e cavillosi catechismi tutte le grandi tradizioni del passato diventa un subdolo strumento di ascesa e di autodifesa sociale: diventa anzi l’unico strumento d’intimidazione e di ricatto che, sfumate le speranze di palingenesi politica, possa ancora mascherarsi dietro una patente di nobiltà”.

 

 

Qui debutta così: “L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una montagna di tesi, monografie e manuali critico-filosofici, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua interpretazioni idiote di Walter Benjamin e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe trattenersi, destare la morta verità dei testi e ricomporre un discorso sensato. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine universitarie e del citazionismo imbecille sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo humanities, è questa tempesta”.

E il tono, acre e spassoso, continua in quest’altro tipo di introduzione, immersa nel corpo vile della questione, tra raccolte di poesia o racconti che sembra possono essere romanzi, saggi storici che si leggono tutti d’un fiato come romanzi, romanzi che sembrano serie tv e serie tv di “poesia pura”. Continuano le battute al fulmicotone: “‘Flaubert c’est moi’ disse Madame Bovary firmando le copie del suo romanzo”; oppure: “Neoavanguardia: Dietro – museo / Davanti – liceo”. 

 

La neoavanguardia e le sue liquidazioni è da sempre uno dei bersagli preferiti del critico. Ma in quest’opera lo spazio non è solo riservato a una pars destruens: molti saggi si dedicano a rivalutazioni, o perlomeno a riletture senza occhi foderati da verdetti emessi una volta per tutte. Così Marchesini parla del mito della realtà in Levi, Morante, Pasolini, ma si dedica anche a riconsiderare autori liquidati dal gruppo 63 come Bassani o Cassola, torna a Fortini e a Ottieri, analizza Domenico Rea e la rimozione del suo scrivere “selvaggio” nella letteratura del boom, riprende Calvino e le sue crepe dal romanzo realistico ai labirinti, Arbasino e il suo iperstilismo, la vita anonima di Umberto Fiori musicista prima e poi poeta, Cavazzoni, che ritiene, in certe sue opere , voce anarchicamente sincera che “riflette la felicità di chi non ha scopi né poetiche da sostenere”. La disamina dello scrittore reggiano genera considerazioni sul filone di una “poetica stralunata e padana” di antico lignaggio ma non esente oggi, per Marchesini, dal pericolo di culturalizzazione, “cioè di renderla manieristica, bamboleggiante, e dunque neutralizzarla, come hanno fatto il suo sodale Celati e i troppi nipotini o cloni, trasformando gli idioti padani e la sprezzatura anacolutica in un codice più convenzionale e pedante di qualunque professorale latinorum o calligrafica prosa d’arte”. Celati, per accenni più che per discorsi articolati, diventa (ingenerosamente e sbrigativamente a parere di chi scrive) uno dei suoi bersagli polemici, come esponente di una letteratura di risulta, che ricicla compiaciuta di abbassamenti stilistici in una ricerca del semplice, del parlato, dell’idioletto, che diventa vezzo. Il tratto, il giudizio velocemente causticamente liquidatorio in certi casi, come in questo, può rivelarsi un limite del nostro critico. 

 

La pars construens si dispiega anche in tre recuperi di autori sacrificati dal canone, ossia il Foscolo impegnato per una nuova Italia, il lirico dell’esperienza quotidiana Saba, e ancora Cassola. Mentre nei ritratti dei saggisti Cesare Cases, Cesare Garboli (non amato del tutto), Luigi Baldacci, Alfonso Berardinelli si possono cogliere parecchi tratti di poetica del critico Marchesini. Per esempio isola una frase del suo mentore Berardinelli: “Io voglio solo che ognuno mostri quello che è”, chiedendo un’adesione alla realtà. Questa mi sembra la linea guida che orienta, sempre, l’acribia critica di Marchesini. Citando La Capria, un altro degli autori analizzati, parla di un senso comune “per vocazione disinteressato, ecologico, deputato ad avvisare che ‘il re è nudo’ e capace di ‘riconoscere ciò che ovviamente è quello che è’”, contrapposto a un buon senso alleato del conformismo.

Tra gli autori citati come derive più o meno midcult o leziose da scaffale merci troviamo Paolo Cognetti, che a Marchesini sembra usare uno stile da traduzione pronta per essere a sua volta tradotta e esportata, i Lettori selvaggi di Giuseppe Montesano, giudicato enfatico con la sua ricerca di “carne” e “sangue”, Michele Mari, la cui raffinatezza sembra al nostro sostanziata di un “mantecato gaddian-manganelliano abilissimo”. E tanta tanta poesia d’oggi da Alda Merini a Zeichen, Magrelli, Cucchi e altri. Emerge tra i “salvati” Walter Siti, che l’autore analizza a fondo partendo da Bruciare tutto, per andare al cuore di una prosa efficace che corre il rischio talvolta dello “stereotipo alfabetizzato”, del kitsch parlato, in cerca a ogni modo di qualche verità con una “scrittura che è insieme bulimica e stenografica”.

 

Il volume chiude con un saggio tematico su letteratura e vergogna, preceduto da una sezione (quella incriminata dal primo editore) intitolata “Diagnosi, satire, polemiche”. Parte dai narratori in cerca di Grande Romanzo (o “romanzo pompiere”, come titola l’autore) e si svolge attraverso i miti contemporanei di Bolaño, Wallace, Carrère fino a un capitolo intitolato Tornare a Piacenza, ossia a quei “Quaderni piacentini” che per primi misero sul banco degli imputati i media di massa e l’industria culturale, che per vendere stava dissolvendo la complessità della cultura novecentesca. Questa è la stella polare di Marchesini, insieme al corpo a corpo con le opere e a una richiesta di sobrio, penetrante sguardo alla realtà. 

Casa di carte, con qualche eccesso di iconoclastia facile o troppo veloce, dimostra una maturità di sguardo e un coraggio critico unici, rivelandosi edificio complesso, affascinante e necessario, capace di restituire il respiro delle questioni letterarie con molti “ambienti”, spesso sorprendenti. Alla fine del viaggio sembra averci convinti che siamo in uno smagliante discount della letteratura, di cui è necessario e urgente provare a scoprire gli angoli nascosti, le zone d’ombra, le stanze buie, per smorzare qualche incandescenza eccessiva e portare una più appropriata temperatura a ogni luce. 

 

Matteo Marchesini, Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social, il Saggiatore, pp. 275, euro 23.

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