La piccola cattiveria
C’è una profondità del male, ma anche una sua superficialità. L’una produce storture umane, l’altra semplicemente irritazione e fastidio, perché la piccola cattiveria, chiamiamola così, è un male minore. L’uno, il Male, è forza (distruttiva), l’altra, la piccola cattiveria, è debolezza, fragilità, non leggerezza, ma superficialità, approssimazione nella sua mancanza di rispetto per la profondità dei fenomeni e degli esseri. Il male minore della piccola cattiveria quando viene inferto non comporta dei seri rischi, chi non ti saluta non ponendosi il problema di stare facendo una sgarberia, non mette in gioco nulla della sua esistenza, al massimo si guadagna un violento invito ad andare a quel paese, ma tutto, la vita e la coscienza (sua) non sono in pericolo. Anzi, semmai, c’è il godimento di chi si diverte (magari scientemente) a vessare il prossimo, così, per gioco, come gratuito esercizio di un suo qualche speciale piccolo dominio.
Ma perché una persona ti dice che sei fuori orario con cattiveria e un’altra lo fa con simpatia e dolcezza? Può il semplice fatto di non conoscerti autorizzare moralmente un individuo a trattarti male mettendo in atto dei comportamenti insultanti? La piccola cattiveria ci circonda, pervade le nostre giornate. È quella di chi ti sbatte la porta dell’ascensore sul muso; di chi, vedendoti regolarmente, non ti saluta con costanza e caparbietà senza alcuna ragionevole motivazione, da anni. Scortesie assolutamente ingiustificate in autobus, al bar, ovunque. Quanto è lungo l’elenco che ciascuno di noi potrebbe fare? Gente che ti maltratta gratis, senza scopo e senza fine? Perché c’è un’insana abitudine tra gli umani di fare del male anche quando non ce n’è alcuna necessità? Non il Male con la maiuscola, per quello servono altre componenti, lì la turpitudine del singolo non basta, per quello ci vogliono masse e interessi cosmici. Qui mi riferisco al male minimo, il micromale, quello delle piccole malvagità, delle minuscole ingratitudini e villanie reiterate, delle crudeltà infime, delle nano angherie. Tutte le cose che, messe insieme, tessono, come i fili lillipuziani per Gulliver, il manto cupo che para il sole all’esistenza. Parlo di quella merda del mio vicino di scrivania, o di stanza, o di corsia, o di aula, o di corridoio, o di cella. Del male prodotto da uno qualunque, da uno come me. Non il male di vivere, ma il malessere del vivere.
Ci sono dei luoghi maleducati per eccellenza, penso a certi uffici, pubblici e/o privati, dove la piccola cattiveria si esercita con professionalità. Ma non voglio cadere nella tentazione di fare degli esempi concreti. A chiunque, sentendo parlare di questo problema diffuso, vengono in mente con l’automatismo sicuro e unanime del senso comune, le malversazioni che fanno parte di un tipico quadro sociale italiano. E che sono tra le fonti del malessere del vivere. Il punto è capire di dove venga la piccola cattiveria gratuita, quale sia la sua ragione scatenante. Cos’è che fa cadere la pallina del match-point dal lato del male quando con un’identica forza poteva cadere sul versante della cortesia, cioè del bene? Sono gesti dalla semantica dubbia. Freud parlava di “azioni casuali”, non intenzionali, che “esprimono qualcosa che la persona stessa che li compie non sospetta in esse, e che di solito non intende comunicare ma tenere per sé. […] esse hanno la parte di sintomi.” (Psicopatologia della vita quotidiana, cap.9).
Va da sé che ogni ordine del comportamento umano, dal più fondante al più evanescente, ha dignità e possibilità di analisi. Ma qui e ora la posta in gioco è il buonumore, o l’umore, semplicemente, che, a seconda della spinta impressa dal piccolo cattivo di turno, si plasma per un bel po’ di ore se non per tutta la giornata. Questi atti piccolocattivi si insediano, si instaurano, si cumulano, avvelenando frazioni di esistenza che in certe fasi di una vita possono pure sviluppare delle vere concrezioni psicologiche negative, la sincera paura di affrontare la gente, per esempio. Certo di piccola cattiveria non si muore, ma si soffre. Non bastano le perdite, le sconfitte, i fallimenti che tutti ci portiamo dentro? E l’insidiosa tensione sociale montante di questo particolare momento storico? Ci vuole per forza anche la gutta quotidiana di immeritata cattiveria? Sono atti non pianificati, disordinati, incontrollabili che sporcano la giornata. Ho cambiato più d’una banca per questo, diversi dentisti, agenzie di assicurazioni, per la piccola sicumera di individui insipienti e malsani che inquinano la vita altrui. Persone che di fatto commettono un vero e proprio ecoreato. Le piccole cattiverie sono come i trucioli della lavorazione del ferro, il pezzo buono e ben levigato è diventato qualcos’altro, le scorie, gli avanzi sono, come dicevano gli alchimisti, il caput mortuum, quello che rimane appunto alla fine del processo di lavorazione della materia, dei residui inerti di ciò a cui appartenevano. Le piccole cattiverie sono simboli del Male, di ciò che l’umanità sa produrre. L’estraneità per certi individui produce come un terrain vague dove i comportamenti si liberano dai lacci delle convenzioni della buona creanza, della gentilezza, della morale: non ti conosco dunque sei un nulla che posso pure maltrattare, tanto sei nulla.
Proprio dietro a questa distanza posta dall’anonimato, per altro, si crea quel gap empatico che consente agli individui di agire impunemente nella rete creando tutte quelle follie che ormai conosciamo (cyberbullismo, ecc.). Insisterei tuttavia sulla differenza tra gli atti di cattiveria intenzionali e le piccole cattiverie non mirate e forse, in certa misura, inconsapevoli che le persone producono. Altro è volere commettere una cattiveria, con una qualche progettualità, altro è produrla senza nemmeno rendersene conto.
“Essere buoni o cattivi – dice Herta Müller – è una scelta cosciente di ognuno di noi” (“la Repubblica-D”, 11 aprile 2015). La scrittrice, premio Nobel 2013, pensava al Male “istituzionale” del regime di Ceaușescu di cui è stata vittima, ma è una riflessione utile anche per la piccola cattiveria. “Si dice – continua la Müller – che chi ha subito la violenza durante l’infanzia diventa cattivo. Non è vero. Ognuno si educa da solo, ogni giorno, e centomila volte durante la propria vita. Non sono obbligata a comportarmi alla stessa maniera in cui sono stata cresciuta. Esiste la possibilità di rifiuto. Mi posso emancipare dall’educazione che ho ricevuto.” Per il Male assoluto (ab-solutus) le articolazioni di pensiero temo debbano essere molto più complesse. Ma per la piccola cattiveria, secondo me, va benissimo.