Indicativo presente| Duecento giorni in classe / La pizza prima degli esami | una notte nel loro quartiere
Siamo stati nella stessa stanza 350 ore. Ci siamo visti ogni giorno per 144 giorni; con gli esami arriveremo a 200 giorni con il pensiero della scuola in testa. Nella classe possiamo personalizzare qualcosa: parlarci negli intervalli, ricucire le risse, sedare gli insulti, avviare raffinati processi di giustizia riparativa. Possiamo fare in modo che non vengano bocciati, e che il loro 6 non sia finto ma sia almeno il frutto di un loro sforzo di apprendimento che non è in fondo minimamente paragonabile alle ore di studio che noi professori abbiamo speso alla loro età, ma che per loro, chi con il padre in galera, chi senza padre, chi senza madre, chi senza soldi, chi senza cittadinanza, chi senza ambiente sociale, risulti il massimo dello sforzo per loro possibile. Questo chiediamo: che in un mondo di ego che sbraitano e sprezzano altri ego in realtà esistano ancora delle prove individuali in ogni singola vita: misurarsi su un progetto etico che ignori la cagnara pubblica; costruirsi mattone su mattone capendo che il branco non avrà l’importanza che ha ora; minimi obbiettivi, minimi termini: oggi ho fatto più di ieri e sono soddisfatto di me, perché sto meglio con me stesso, mi stimo un poco di più, mi rispetto e ti rispetto. Qualcuna (più che qualcuno) capisce che studiando il suo pensare si espande sino alla costruzione di opinioni personali, fondate su dati non fittizi; tre o quattro per classe a fine anno riescono a ingaggiare una conversazione su palestinesi e israeliani distinguendoli da shoah e nazismo; molti di loro capiscono che è puro nonsenso che il loro compagno dalla prima elementare in terza media non abbia la cittadinanza italiana mentre loro ce l’hanno solo perché un loro genitore aveva già la cittadinanza. Scoprono che la legge è scritta per tutti ma che le cose non sono affatto uguali per tutti.
Ma non ottieni la fiducia di nessuno di loro se non accetti dieci, venti rapporti individuali, ricordandoti i loro vissuti, essendo severo a volte su temi cruciali, essendo simpatico altre su temi informali. Quando è suonata l’ultima ora e l’ultima campanella ha trillato, si setaccia la verità di quello che hai fatto tu come professore e di quello che loro hanno accettato di fare con te.
L’ultima valutazione di Geografia l’ho destinata a un lavoro peer to peer sui computer dell’aula “informatica”; ogni coppia poteva abbinarsi liberamente, scegliere un Paese dell’Africa, e preparare un PowerPoint in cui emergesse in particolare un’idea contemporanea, vissuta di quei Paesi. Molti Paesi scelti erano quelli di origine dei genitori e dei nonni: Egitto, Marocco, Tunisia, Senegal, Nigeria… Ho diffidato i post-egiziani di copiare e incollare nelle slide le piramidi di Giza; ho diffidato i post-tunisini dall’incollare datteri e resort; nel Marocco ho dovuto accettarlo: perché mentre raccontava il suo “paese natale” a Widad brillavano gli occhi di gioia e commozione: «In questa piazza c’erano le tintorie, oggi le hanno chiuse, sono solo per i turisti, ma c’è ancora un odore terribile; mio nonno ha lavorato lì tutta la vita»; e il villaggio apparentemente turistico con le case tutte blu per lei non è turistico affatto; «quando ci vai chi ci abita ti accoglie con il cuore in mano, ti invita in casa a bere un the alla menta e a mangiare un dolcino; a me piace tanto tornarci ogni anno». E a te, Widal, che sei così intelligente, graziosa, coraggiosa, non piacerebbe tornare a vivere in questo Marocco che ci dici in «pieno sviluppo economico»? Tornare lì e diventare una leader della tua nazione? «No: che ci torno a fare? Ormai tutte le mie amiche sono qui, in questo quartiere, i miei genitori sono qui; là sarei sola! Le vacanze le farò sempre là, però, questo sì».
In queste ricerche per favore nessun luogo comune! Niente che sappiamo già tutti! Scegliete una canzone che cantate voi, traducete il testo che capite voi, scegliete il cibo che vi piace di più: l’ultima ora dell’anno andremo sotto il nostro noce del Caucaso e mangeremo quello che avrete cucinato voi.
L’ultima ora dell’anno alle 8 in classe l’unico fagottino ce l’ha Aurelia: dice che non poteva fare una ricetta del Madagascar perché non sapeva dove trovare la manioca e altre strane spezie; «e poi lì mangiano solo pollo tutti i giorni!». Grazie allora per queste specie di semolini dolci fritti a forma di quaglia decapitata; ce ne sono due a testa; avete invitato gli altri prof? Sì, ma solo i due o tre che sono simpatici. Domani sera c’è la “pizzata”; Aurelia ha prenotato nell’unica pizzeria aperta in questa landa di barriera; dentro ci sono altre classi ululanti, quando arriviamo tardi perché abbiamo dovuto aspettare i ritardatari. Mariella non c’è perché sua madre le ha dato 30 euro per tutte le attività di fine anno e lei preferisce spenderli per la piscina e la discoteca, e così non ha più soldi per la pizzata: balza. Gli altri ci sono quasi tutti. Hanno invitato tre prof della classe e uno della scuola, il loro preferito, perché è giovane e scherza con loro assaissimo; gli saltano in groppa, fanno la lotta. Nella tavolata io non capisco una parola: ridono tutti a crepapelle, in continuazione, passano dagli smartphone a barzellette a volte divertenti a volte terribili, e io cerco di ridere anche se odio le barzellette da sempre. Mi indigno quando il padano biondo rugbista dice: «Sai quanto è alto un ebreo? Così», e fa il saluto nazista: gli urlo di vergognarsi e scende il gelo sulla tavolata per alcuni secondi, poi ripartono sciocchezze o teatrini spontanei.
Quando siamo seduti a tavola Mwaka arriva con un fagottino per me e uno per un altro prof: «I dolcini che ha fatto Aurelia non erano buoni – mi sssibila come al solito (sembra Sir Biss del Robin Hood della Walt Disney –; questi sono i veri dolcini fritti che facciamo in Senegal: li mangi domani a colazione!» Che gentile! La stagnola che avvolge i dolcini è avvolta in un sacchetto di plastica. La mattina dopo mangio i beignet e sono davvero buonissimi!
Durante la cena vanno e vengono di continuo fuori: Anna mi racconta tutta eccitata che ha appena incontrato al “parco” (che sarebbe un giardino con qualche pianta) questo ragazzino marocchino dalla faccia buona che fuma sigarette e che ha già lavorato a Monaco di Baviera con il fratello e ora sta per arruolarsi nell’Esercito perché ha 18 anni; si tengono per mano e si sbaciucchiano. Anna se ne sta fuori tutto il tempo e se lo sbaciucchia. Quando arriva la sua pizza margherita è gelida, dice che fa schifo e quella di sua madre è tutt’altra cosa, ne lascia metà e riesce. Poi la cena finisce, e c’è il gran finale: andiamo a prendere il gelato in piazza! Va bene. Comincia una marcia interminabile, fatta di stop continui, risate, casse portatili che sparano canzoni cantate a branco a squarciagola; sono le 23: il quartiere è abbastanza pulito, ordinato, ma in giro non c’è un’anima; è sempre così deserto?; «sì». Ci sono casermoni e alberelli, alberelli e casermoni. A un certo punto comincia tra urletti di schifo femminili e risate maschili il salto dello scarafaggio: orde di blatte stanno risalendo dai tombini dirigendosi verso i praticelli degli alberelli dei casermoni. Loro ci sono abituati.
Cammina cammina cammina. Finché capiamo che la gelateria è il top place del quartiere, dove come api si posano sul cono le ventenni sui trampoli a spillo e minigonna con fidanzato dalla camicia aperta sul petto depilato che parcheggia la 500 Fiat Abarth. Capiamo che quella gelateria è il loro centro lontano dal centro, è il massimo, l’epicentro della loro vita. Si comprano i coni da 1,80 euro tutti blu e se li mangiano contenti.
Infine, c’è il ritorno. I mei colleghi quarantenni scherzano di nuovo con loro. Io sono stanco. Mwaka due o tre volte mi trotterella a fianco e mi chiede: «Professore, perché se ne sta tutto solo e zitto? In classe parla sempre e stasera non parla?». Hai ragione – gli dico – ma proprio perché parlo e parlo ogni mattina la sera sono stanco e non so più cosa dire, e me ne sto un po’ in disparte, ma non sono triste! (invece non è vero, perché mi è presa un po’ di malinconia degli adieux imminenti…)
Una per volta consegnamo alla madre con il velo, che attende come vedetta sul balcone la figlia: è l’una di notte! Non hanno mai fatto così tardi in vita loro! Padri fanno la ronda in auto cercando la loro figlia-gioiello sparita nella landa desolata con quegli scriteriati professori nottambuli. Una ad una vengono risucchiate dai casoni e dalle loro famiglie oneste, impegnate a preservare la virtù delle ragazzine in questa Europa immorale. Quando arriviamo al punto di partenza, la scuola, sono esausto. Ma ripenso a quella interminabile marcia verso il gelato; con il mio giovane collega capiamo che i ragazzi l’hanno allungata apposta, rallentata apposta, facendoci prendere viuzze a noi sconosciute per prolungare quella loro bellissima serata di festa, a ridere e cantare in un quartiere muto. Ci hanno proprio portati in giro, i furbacchioni!
13 giugno 2019